Dopo quasi tre anni di attesa, pur nell’indifferenza generale, le tre autorità – Privacy, Agcom e Antitrust – hanno varato la molto attesa indagine conoscitiva sui big data.
Precisiamo subito che non si tratta di un documento del tutto unitario del tipo al quale ci hanno abituato ad esempio le autorità della concorrenza tedesca e francese. Qui invece ognuno ha scritto la sua parte, salvo per le conclusioni, chiamate con un po’ di pompa “linee guida e raccomandazioni di policy”.
Proprio guardando queste ultime, rivolte in parte al legislatore, in parte ai rispettivi successori nel mandato delle autorità, è inevitabile che le labbra del lettore si increspino in un benevolo sorriso. Ma davvero nel lungo mandato degli autori di questo report non si poteva fare di più? La ovvia risposta è: sì certo che si poteva fare.
Basti pensare alla strana sanzione irrogata in limine mortis alla Rai, singolare colpo di coda regolatorio di incerta saggezza. Insomma, quando vogliono le autorità le unghie le tirano fuori. Il punto è che, con gradi diversi di intensità, il decennio che si è appena chiuso è stato contrassegnato in Italia da un marcato clima di favor per le piattaforme digitali, in controtendenza rispetto all’attivismo della Commissione europea e di altre autorità continentali.
Dicevo con diversi gradi di intensità, perché volendo stilare una graduatoria di interventismo delle istituzioni, nel periodo considerato, il primo posto spetta al Garante privacy che ha fatto molto rispetto al poco di cui disponeva; il secondo all’Agcom che qualcosa ha fatto, ancorché in modo tardivo; e l’ultimo all’Agcm che in sostanza non ha fatto niente, salvo qualche provvedimento consumeristico di modesta incidenza pratica. Questa scala si rispecchia del resto anche nella parte analitica redatta dalle singole istituzioni, da cui si ricava che mentre privacy e Agcom ostentano un certo protagonismo creativo, l’Agcm è curiosamente attestata su una linea decisamente quietista. Non vi è ovviamente nulla di male nel fare propria la rispettabilissima dottrina che predica un approccio hands off sulle piattaforme, invocando copia di argomenti tecnici, tutti degni della massima considerazione. Certo è però che dalla contrada di Piazza Verdi non è a questo punto plausibile attendersi discontinuità o iniziative ardite, come quella certamente sfortunata – ma intellettualmente coraggiosa – che ha visto l’antitrust tedesco misurarsi con Facebook o quella dell’autorità francese che ha sfidato Google sul nodo essenziale della pubblicità.
Il contributo dell’Agcom
Ma vediamo nel concreto che cosa è dato ricavare da questo documento. Premesso che la parte analitica è generalmente molto buona e accurata, trattandosi però di un lavoro proveniente da istituzioni e non da università, è giocoforza che l’attenzione sia attirata dalle proposte concrete. Un’iniziativa importante, per cominciare, è stata quella dell’Agcom che nel luglio del 2019 – certo un po’ tardi – ha aperto un procedimento per accertare la sussistenza di posizioni dominanti nel mercato della pubblicità online. Poiché siamo tutti uomini di mondo, soprattutto chi scrive – che la casa Agcom la conosce molto bene – non è motivo di scandalo auspicare che questo procedimento non finisca nel dimenticatoio, come è per lo più destino per tutti quelli inaugurati sotto l’ombrello dell’etichetta corrusca “ posizioni dominanti”. Sarebbe davvero un peccato.
Meritorie sono state anche le iniziative, sempre dell’Agcom finalizzate a promuovere una auto-regolamentazione sulle fake news. Rebus sic stantibus, le autorità non possono spingersi molto oltre. Circa poi le novità introdotte dal Codice delle comunicazioni elettroniche, onestamente l’Agcom registra che, esulando i servizi over the top dal perimetro delle comunicazioni elettroniche, vi è ben poco che si possa fare per provare a creare un level playing field con gli esausti operatori di telecomunicazioni tradizionali. Certo se i servizi over the top utilizzano numerazioni, sono lambiti dalla regolazione, ma in modo così tenue da escludere che da quel pertugio possa nascere un impulso per attenuare lo squilibrio tra chi è disciplinato in tutto e chi in niente.
Il contributo dell’autorità garante per i dati personali
Passando al contributo dell’autorità garante per i dati personali, esso attesta una grande dimestichezza di quella istituzione con la realtà magmatica di big data che non si lasciano incasellare facilmente nelle maglie del pure saggio GDPR. Per esempio, colpisce questo monito: “chi intenda avvalersi dei Big Data facendo uso di tecniche di anonimizzazione è tenuto comunque ad effettuare periodicamente un assessment approfondito del rischio di re-identificazione, al fine di valutare la “robustezza” delle metodologie impiegate per procedere all’anonimizzazione dei dati e documentando il processo seguito”. Tantomeno è possibile che l’anonimizzaizone possa servire da alibi per utilizzare i dati per finalità diverse da quelle originarie della raccolta. Molto bene, verrebbe da commentare, in quanto la privacy sembra tecnicamente attrezzata per fare fronte alla grande sfida di implementare il GDPR.
Chiudiamo con una parola sulle “linee guida” affermando che sono tutte condivisibili: dall’esortazione a esercitare un maggiore controllo sulle operazioni di concentrazione, all’auspico di standard aperti e interoperabili, alla estensione della vigilanza antitrust anche ai parametri della qualità, innovazione ed equità, per tacere poi della riduzione della simmetrie informative, particolarmente benvenuta. Ottimo quindi. Resta da augurarsi che l’intendenza segua con un po’ di entusiasmo questa impegnativa tabella di marcia additata dallo Stato Maggiore.
Piattaforme digitali: il rapporto dell’Università di Chicago
Per darsi coraggio di fronte a un programma tanto ardito, le istituzioni, soprattutto quelle di imminente rinnovo, potrebbero abbeverarsi a una fonte particolarmente prestigiosa, l’Università di Chicago, che su impulso dello Stigler Center e di Luigi Zingales ha dato alla luce un enorme rapporto di ben 300 pagine sulle piattaforme digitali. Il quale proprio non le manda a dire, contrassegnandosi per una spiccata durezza nei confronti dei nuovi robber barons del monopolio. Nelle molte raccomandazioni formulate dal rapporto a valle di una estremamente accurata ricostruzione analitica, mi limito a segnalarne alcune, significative per la loro pregnanza:
- Imporre l’interoperabilità, soprattutto sulle piattaforma di social media dove le esternalità di rete sono enormi. Se sono presente su Facebook, difficilmente migrerò altrove, assente una interfaccia che consenta ai diversi sistemi di messaggio di connettersi fra loro;
- Rivedere i criteri per l’analisi delle fusioni utilizzando il valore della transazione come parametro, e spostando l’onere della prova sull’impresa dominante: sarà lei a dovere provare che l’acquisizione non danneggia la concorrenza;
- Accendere un faro su sconti e contratti di esclusiva dietro i quali si annida una forte inclinazione alla dominanza;
- Imporre obblighi di trasparenza alle piattaforme circa il loro rapporto con singole figure politiche o partiti;
- Creare una Autorità digitale che esiga l’accesso ai dati e li renda disponibili, a certe condizioni, alla ricerca scientifica indipendente;
- Ridimensionare l’immunità accordata alle piattaforme dalla sezione 230: se queste si comportano di fatto da editori perdono lo scudo;
- Rafforzare la supervisione sulle concentrazioni che coinvolgono il pluralismo dei media;
- Prevedere dei voucher fiscali con i quali il contribuente finanzia agonizzanti testate giornalistiche altrimenti destinate a vivere di filantropia privata.
Fermiamoci qui. Avrete compreso che il rapporto è un possente colpo di maglio alla altrimenti incontrastata dominanza delle piattaforme.
Certo non tutto convince allo stesso modo. Non si capisce fino in fondo, ad esempio, l’allergia degli americani per il GDPR, percepito come troppo dirigista e burocratico. Né appare molto plausibile la perorazione per una super autorità digitale che, vista l’aria che tira negli USA, mi sembra destinata a rimanere confinata nella mente di Dio.
D’altra parte non si può non ammirare il coraggio di questo importante sodalizio di studiosi di rango, i quali proprio da Chicago, la culla della scuola che ha sostanzialmente demolito l’antitrust americano, prova a giocare la carta del cambio di paradigma (o di rotta piuttosto: non esageriamo…). Tanto più ammirevole è il loro coraggio alla luce del fatto che i fautori di questa svolta dovranno vedersela con l’enorme infornata di giudici federali conservatori realizzata dal presidente Donald Trump, la quale non promette nulla di buono per qualsivoglia tentativo di dare una spallata al mercatismo prevalente. Come sempre però è dalla dialettica delle forze, e certo non dalla stasi, che può nascere qualcosa di buono. Buona fortuna!