Sanità

Morire al Pronto Soccorso: è (anche) un problema di processi vecchi

I recenti fatti del San Camillo riportano d’attualità il tema del Pronto Soccorso.
C’è molto lavoro da fare, ma anche in questo caso “vale copiare”: prendiamo spunto dalle buone pratiche, (anche) digitali, quali ad esempio quelle del Veneto

Pubblicato il 06 Ott 2016

Paolo Colli Franzone

presidente, Osservatorio Netics

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I recenti fatti del San Camillo Forlanini e la pressoché immediata reazione del Ministro Beatrice Lorenzin hanno fatto tornare in primo piano il tema della vetustà (strutturale e organizzativa) delle strutture di Pronto Soccorso in numerosi presidi ospedalieri italiani.

Che non si possa e non si debba morire di cancro in fase terminale in Pronto Soccorso, dovrebbe essere una sorta di “minimo sindacale” in un Paese che vuole giustamente considerarsi “civile”. E fa davvero male sentire il racconto del figlio del povero cittadino che ha vissuto le ultime sue ore di vita in mezzo al caos: “Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro.” (citazione testuale della lettera del figlio di Patrizio Cairoli al Ministro Lorenzin)

A poco vale la dichiarazione di scuse diramata dalla Direzione del San Camillo: che ogni anno fra le mura di quel Pronto Soccorso passino 90.000 persone è un fatto ovvio. Il tema vero è che di questi 90.000 pazienti, probabilmente ben più della metà accede al Pronto Soccorso in modo inappropriato, non avendone realmente bisogno. E, in ogni caso, un Pronto Soccorso negli anni Duemila deve mettere in atto tutti quegli accorgimenti strutturali e organizzativi capaci di separare una volta per sempre i cosiddetti “low code” (codici bianchi e verdi) dai casi di reale urgenza (codici gialli e rossi).
Bene ha fatto pertanto il Ministro a predisporre un’immediata verifica ispettiva al San Camillo, peraltro seguita a ruota da un analogo provvedimento richiesto dal Presidente del Lazio Zingaretti. E’ giusto che la vicenda abbia un seguito e che, se c’è qualcuno che ha sbagliato, paghi.

Anche in questo caso, basterebbe copiare.
Dal Veneto, ad esempio: dove il Pronto Soccorso è stato interamente ridisegnato nei suoi processi gestionali, a partire dal momento topico del triage e introducendo il modello di “Fast Track” in modo da ottimizzare le code dei pazienti in attesa riuscendo a spostare in ambulatori “ordinari” i casi meno urgenti.
Ancora meglio se riusciremo a spostare verso la cura primaria – magari riorganizzata anche in questo caso copiando, magari dal Canada o dalla Spagna – i “low code” e i casi di effettiva urgenza gestibili in strutture differenti dai Pronto Soccorso.

Bene quindi le ispezioni, benissimo se arriveranno provvedimenti disciplinari laddove effettivamente si giunga a dimostrare un’eventuale negligenza da parte degli operatori del PS del San Camillo.
Ottimo se le istituzioni regionali e centrali sapranno in qualche modo ridare ai famigliari del povero Cairoli un po’ di fiducia verso il Servizio Sanitario Nazionale che davvero “fa miracoli” combattendo contro tagli di risorse in una vera lotta quotidiana a cavallo tra il salvare vite e il fare i conti con la Ragioneria Generale dello Stato.
Benissimo tutto, ma cominciamo una volta per sempre a copiare adottando su scala nazionale le singole buone o eccellenti pratiche.

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