“Primo Tutor, lei sa bene che gli agenti impegnati nella ricerca del dottor Annthok Mabiis sono più di trecentomila!” volumizzava il Massimo Agente, comandante di tutte le Memory Squad della Galassia. Le nuvole spumeggianti scorrevano. Brillavano. Incavallavano. Rotoleggiavano. Avvolumavano. Sotto la vetrata dell’800esimo piano.
“Ma nessun risultato! Giusto?” ira e speranza si confondevano. Una lotta impari fra simili.
“Sappiamo però che è vivo…” il Massimo Agente rovellava le migliaia di segnalazioni degli ultimi tre anni.
“Non sappiamo alcunché!” inchiodò il Primo Tutor. Le calze viola si mischiavano al tappeto viola. I piedi scomparivano.
“È un segnale preciso… ci arriva da giorni… dalla ex città di Bequino…” guardava le nuvole. Rincorrersi. Mostrava le spalle al Primo Tutor. Le mani insaccate nelle tasche. Le dita a grattarsi le cosce. Uno sparviero in picchiata. La tazza di the verde atterrava sul vetro dell’immenso tavolo. La Seconda Tutor si assopiva nell’ombra di un divano profumato.
“Mandate la Memory Squad più abile nella copertura!” tagliò il Primo Tutor. La Seconda Tutor respirava pensieri confusi.
“Arrivano ordini dall’ottocentesimo piano! Agenti!…” cartavetrava la comandante Akila Khaspros.
“È a Bequino… noi lo sappiamo… ” acidò Xina Shaiira, analista del terreno e dell’ambiente, seconda in comando.
“È lì da sempre… dal giorno in cui ha annullato tutte le memorie della galassia… col Grande Ictus Mnemonico…” l’agente Shaiira leniva la mostruosa azione del dottor Annthok Mabiis con le serenità delle nuove solitudini.
Il bus rosso a due piani, sede di copertura della squadra, scendeva lento dal cargo atterrato alla periferia dell’ex capitale.
“Niente biciclette, agenti! Mabiis conosce benissimo le nostre coperture… si va a piedi… nessun armamento… ma azione collettiva… avvicinamento sentimentale…” persuasava l’agente Shaiira. Il volto del dottor Annthok Mabiis era il più noto della Galassia.
“Il solito taglio, quasi estivo, vero?” prese la vecchia forbice. Snippettò. Sfumò. Shampò. Lavò. Asciugò. Specchiò.
“Stia fermo… la prego…” l’antico rasoio era stato rimesso in uso. Dopo le memorie azzerate. L’antico pennello. Il polso rotante. Le narici invase dalla schiuma verde.
“È dietro questa vetrina… lo stanno rasando… Shaiira tu entri…” la comandate Khaspros la teneva per mano. Simulava una figlia. Gli occhiali scuri. Un mezzogiorno sbiancante. Passi veloci di giovani. Passi trascinati di vecchi. Marciapiedi affollanti. Parco assiepato di siepi. Biciclette arrotate in frotte. Una musica. Un vento tranquillo. Le vetrine immobili. La strada fluente. La strada è il corridoio della nostra agognata prigionia.
Shaiira lo vedeva. Occhi chiusi. Testa all’indietro. Asciugamano bollente. Mani fumanti. Gote lisce. Gote paonazze. Rasoio chetato. Doveva aprire la porta di vetro. Doveva recitare. Chiedere. Imbastire. Divagare. Ammiccare. Sorvolare. Ingaggiare. Stupire. Attirare. Simulare. Attrarre. Percepire. Insinuare. Ammaliare. Legare. Fissare. Sedurre. Annientare. Definitivamente.
Shaiira entrava. Shaiira e il rasoio. Shaiira disobbediva. Shaiira gli tagliava la gola. In tutti gli specchi. Raggiante. Vendicava il vuoto delle sue memorie. Di tutte le memorie. Di tutti. Eppure non una goccia di sangue. Non un gemito. Non un moltiplicato orrore. Al suo posto un cagnolino.
“Su Trimmy! Vai Trimmy!” Trimmy usciva. Trimmy correva ben tosato. Lavato. Levigato. Saltellava. Abbaiava. Scompariva nel parco.
(50-continua)