Si fa un gran parlare in Italia di Open Data e della necessità di integrare le banche dati degli enti pubblici. Si tratta di un patrimonio informativo enorme, a oggi frammentato in oltre 14.000 enti ma che vive come un arcipelago di isole informative quasi del tutto non comunicanti. La costruzione di ponti (informatici) tra queste banche dati rappresenta ovviamente una grande opportunità per rendere, da un lato, più efficace l’interazione tra Pubblica Amministrazione e cittadino e, dall’altro, più efficiente il grande flusso di comunicazioni, che si verificano tra gli enti a causa dell’impossibilità di condividere informazioni, dati e servizi.
Se i benefici potenziali appaiono dunque almeno sulla carta notevoli, il processo di integrazione delle banche dati appare ancora in una fase embrionale, anche se alcuni progetti in corso di realizzazione hanno dimostrato che la via dell’integrazione dei dati in possesso della PA è assolutamente perseguibile. Si citano, ad esempio, i progetti Elicat/Elifis e GIT, finanziati nell’ambito del programma Elisa, che hanno coinvolto decine di pubbliche amministrazioni locali oltre a quelle centrali e che da diversi anni stanno portando avanti attività volte a integrare le banche dati per supportare il processo di recupero dell’evasione fiscale.
Gli importanti risultati raggiunti da questi progetti coprono però solo una parte delle potenzialità che potrebbero derivare da iniziative di questo tipo. Gli ostacoli non sono certamente di carattere tecnologico; le criticità sono invece per lo più di carattere organizzativo e culturale. In particolare,
l’integrazione delle banche dati presuppone una certa qualità del dato da trattare. Purtroppo le banche dati costruite e gestite negli anni da parte degli Enti pubblici non sempre presentano un livello qualitativo all’altezza dell’obiettivo auspicato. Al di là delle motivazioni che hanno portato a questa situazione (mancanza di controlli sul dato, l’inadeguatezza degli strumenti applicativi, ecc.), questa situazione porta oggi a dover investire molto in tempo e risorse per poter bonificare i dati e portarli quindi al livello qualitativo necessario;
lo scambio e la condivisione dei dati presuppone spesso una ridefinizione dei ruoli di aggiornamento e gestione degli stessi e quindi una definizione delle regole organizzative per la condivisione dei dati (quali dati, chi li aggiorna, con quali modalità, ecc.). In molti casi, i progetti gestiti su queste tematiche sottovalutano questi aspetti che poi diventano il vero freno allo sviluppo e all’evoluzione delle iniziative.
Alle due criticità sopra accennate, se ne aggiunge un’altra di carattere culturale, forse la più rilevante. Molto spesso le persone, e quindi gli enti che rappresentano, identificano il possesso e la gestione del dato con la propria funzione caratteristica e quindi, in qualche modo, con la loro esistenza. Quindi, al di là dei proclami e delle posizioni ufficiali, molti progetti si trovano in difficoltà proprio perché non sempre tutti gli attori del processo sono disposti a condividere i propri dati con altre realtà che avrebbero tutti i diritti di entrarne in possesso. Questo causa resistenze e quindi inerzie che, di fatto, portano spesso al rallentamento e a volte al fallimento di queste iniziative.
La strada da compiere è dunque ancora lunga e richiede un presidio stretto del mega-progetto di integrazione delle banche dati. Alla volontà di carattere strategico di raggiungere questo indiscutibile obiettivo, deve in particolare accompagnarsi un vero e proprio coordinamento operativo: improntato a modelli di project management e in possesso della necessaria autorevolezza e autorità per dirimere tutte quelle deviazioni dalla strada maestra che emergeranno continuamente in virtù dei problemi culturali di cui sopra. Ed arriviamo qui al vero nodo gordiano delle pubbliche amministrazioni italiane – che la politica ha sempre sottovalutato La necessità che ogni regolamentazione indirizzata alla semplificazione (con conseguente “decapitazione” di uffici-ostacoli intermedi) preveda tempi di applicazione certi, e conseguenti severe sanzioni in tutti i casi in cui – e sono numerosissimi e frequenti – la non-applicazione tenti di farla franca. Il DNA italiano della frammentazione e del pluralismo, retaggio della gloria dei Comuni, sembra trasformarsi sempre più, nell’epoca della competizione globale, in una vera e propria palla al piede.
Forse, non ci resta che affidarci alla neo-costituita Agenzia per l’Italia Digitale a cui ormai si guarda con speranza e forse eccessivo ottimismo. Francamente non mi vengono in mente molte altre strade; certamente non possiamo affidarci a quella regolatoria: troppe volte sono state promulgate norme, che poi sono state puntualmente disattese!