La complessità dell’ambiente di riferimento delle imprese italiane condiziona negativamente la dinamica della produttività e i processi di crescita economica. Una persistente burocrazia, che si intreccia con le carenze nella diffusione della digitalizzazione dei processi di gestione e offerta dei servizi pubblici rivolti a cittadini e imprese, comprime la capacità di produzione di valore aggiunto delle imprese.
La difficoltà di fare impresa in Italia
L’analisi degli ultimi dati Eurostat sulla produttività evidenzia che, in Italia, nell’arco degli ultimi dieci anni (2008-2018), il valore aggiunto per ora lavorata, valutato a prezzi costanti, cumula un aumento dell’1,3%, un ritmo decisamente ridotto rispetto al +9,1% registrato nella media dell’Eurozona. Lo scarso dinamismo della produttività è determinato dal ristagno nel settore dei servizi (-0,1%), mentre il comparto manifatturiero, maggiormente interessato dalla digitalizzazione dei processi produttivi, e più esposto alla concorrenza internazionale, registra un progressivo incremento di efficienza, con la produttività che sale del 12,2% nel decennio in esame.
Il contesto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale è più difficile in Italia che nei Paesi competitor. Nell’aggiornamento Doing Business 2020 della Banca Mondiale – che analizza le regolamentazioni in dieci ambiti che influiscono sull’attività imprenditoriale – tra 190 paesi l’Italia si colloca al 58° posto per condizioni favorevoli a ‘fare impresa’, 36 posizioni dietro alla Germania (22° posto), 28 posizioni dietro alla Spagna (30°) e 26 posti dietro alla Francia (32°).
La distanza si amplia nei confronti delle economie anglosassoni, arrivando a 52 posizioni dietro agli Stati Uniti (6° posto nel mondo) e a 50 dietro al Regno Unito (8°). Rispetto alla precedente rilevazione – ma i confronti intertemporali vanno effettuati con cautela a seguito dei cambiamenti metodologici – la posizione dell’Italia risulta peggiorata di sette posizioni, era infatti al 51° posto nel Doing Business 2019.
Sulla complessità degli adempimenti burocratici per i cittadini e l’impresa pesa l’enorme mole di leggi in vigore nel nostro Paese. Una ricerca in Normattiva, il portale della legge vigente dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, evidenzia che al 5 febbraio 2020 sono vigenti 133.186 atti normativi pubblicati negli ultimi cento anni (sulla metodologia della rilevazione si veda Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2019).
Servizi pubblici, Italia e Germania a confronto
In merito ad alcuni importanti servizi pubblici, l’Italia mostra un evidente ritardo rispetto alla Germania: il nostro Paese, infatti, si posiziona nella parte bassa della classifica mondiale per il pagamento delle imposte (128° posto a fronte del 46° della Germania), per la risoluzione di dispute commerciali (122° a fronte del 13° posto della Germania) e per l’ottenimento di permessi di costruzione di un magazzino commerciale (97° a fronte del 24° posto della Germania). Nel dettaglio, in Italia occorrono 190 giorni per ottenere permessi di costruzione per un magazzino, 64 giorni in più rispetto alla Germania (126 giorni) e 38 in più rispetto alla media dei paesi Ocse ad alto reddito (152 giorni). Per pagare le imposte, in Italia una società-tipo impiega 238 ore, 20 in più rispetto alla Germania (218 ore) e 79 in più — il 50% in più – rispetto alla media Ocse (159 ore). Forti divari si rilevano anche riguardo al tempo necessario per risolvere le dispute commerciali: in Italia occorrono più di tre anni, fino a 1.120 giorni, più del doppio (621 giorni in più) rispetto alla durata dei procedimenti in Germania (499 giorni) e 530 giorni in più rispetto alla media dei paesi Ocse (590 giorni).
La non brillante performance dell’Italia nella qualità dei servizi pubblici non appare giustificata da una minore spesa pubblica: nel 2019 la spesa primaria corrente (al netto degli interessi) è pari al 42,1% del PIL, un valore in linea con la media dell’Eurozona (41,8%), superiore a 1,8 punti percentuali alla media dell’Unione Europea (40,3%) e superiore di 1,2 punti a quella della Germania.
La digitalizzazione in una Pa “labour intensive” e con età dei dipendenti elevata
Una organizzazione della Pubblica Amministrazione (Pa) eccessivamente labour intensive determina una più rarefatta dotazione di capitale e, conseguentemente, una minore propensione all’innovazione. In Italia il rapporto tra spesa per dipendenti pubblici e spesa pubblica per investimenti è pari a 5,2 a fronte di un rapporto di 3,5 risultante nella media dei paesi dell’Unione Europea (Sapelli G. e Quintavalle E., 2019). Ulteriore ostacolo all’innovazione è il profilo organizzativo della Pa caratterizzato da una elevata età dei dipendenti pubblici. Nel terzo trimestre del 2019 l’Italia risulta essere il paese dell’Unione Europea con la più alta quota di occupati nella Pubblica amministrazione con 55 anni e oltre, pari al 33,3% degli occupati, ampiamente superiore alle quote rilevate in Spagna (27,4%), Germania (25,0%) Francia (21,9%), e di oltre dieci punti percentuali sopra la media dell’Unione europea che è pari al 23,1%. In parallelo, pochi sono i giovani occupati nella Pa: per la quota di occupati under 40, l’Italia, con solo il 20% sul totale, è l’ultima tra i paesi dell’Unione Europea, ben distante dal 35,4% della media europea.
Bassi investimenti e invecchiamento dei dipendenti pubblici riducono la capacità delle Amministrazioni pubbliche di consolidare relazioni digitali con gli utenti dei servizi pubblici. L’analisi degli indicatori di eGovernment proposti dalla Commissione europea (2020) nell’ambito del DESI – Digital economy and society index – evidenzia un vistoso ritardo dell’Italia nell’applicazione delle tecnologie digitali alla fitta rete di rapporti tra cittadini, imprese e Amministrazioni pubbliche. Nel 2018, in Italia, la quota di occupati che interagiscono via internet con le pubbliche autorità spedendo moduli compilati – attività che riduce i tempi delle procedure e le code agli sportelli – è pari al 19,6%, un valore più che dimezzato rispetto al 41,5% della media dell’Unione europea e che colloca il nostro Paese al terzultimo posto tra i paesi dell’Unione, davanti solo a Bulgaria e Romania. Nel dettaglio, la quota di occupati che interagisce con la Pa sul canale digitale spedendo moduli compilati è del 67,7% in Francia, del 50,8% in Spagna, mentre una quota più bassa, pari al 22,1%, caratterizza la Germania.
Nel tempo, il gap nella gestione digitale di segmenti di rilevanti processi burocratici si è costantemente allargato: il differenziale Ue-Italia nella quota di occupati che scambiano informazioni con la Pa mediante moduli compilati trasmessi on line era di 11,2 punti nel 2008 ed è salito a 22 punti nel 2018 raddoppiando in dieci anni.
Modulistica fiscale e code agli sportelli: i paradossi
Nel pieno della rivoluzione digitale che dovrebbe interessare i servizi pubblici e semplificare il rapporto tra cittadini, imprese e Pa, si assiste ad alcuni fenomeni paradossali che segnalano il persistere di complessità nell’organizzazione dei servizi e criticità nella relazione tra stato e cittadino.
Innanzitutto, il fisco. Negli ultimi anni, nonostante l’introduzione della dichiarazione precompilata, si riscontra la crescita del numero delle famiglie che presentano moduli fiscali compilati affidati a un commercialista, o a una organizzazione, o ad altra persona a pagamento. Tale quota, dopo aver oscillato attorno al 45% fino al 2010, ha toccato nel 2018 il massimo del 55,3%. Tra il 2008 e il 2018 la quota è salita di 8,9 punti percentuali. Nel contempo si è ridotta la quota di cittadini che non compila moduli fiscali, scesa dal 14% del 2008 all’ 11,4%.
La quota di utenti interessati da lunghe code è doppia rispetto alla media nazionale nel Lazio, dove raggiunge il 48,4%; seguono, con valori superiori alla media, Sicilia con 29,8%, Umbria con 27,1%, Piemonte con 26,4% e Puglia con 26,2%. All’opposto, le quote più basse di utenti interessati da lunghe code si riscontrano in Veneto con 15%, Friuli-Venezia Giulia con 13,7%, Trentino Alto Adige con 10% e Valle d’Aosta con 8,3%.
Poca formazione
I processi di riorganizzazione dell’offerta dei servizi e l’elevata età dei dipendenti pubblici richiederebbero investimenti pubblici supplementari in formazione. Su questo fronte, non si registrano apprezzabili segnali di una maggiore propensione alla formazione dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche locali. L’analisi della Corte dei conti (2019) condotta sugli ultimi dati resi disponibili da Istat per il 2015 evidenzia che solo il 19,4% delle Pubbliche amministrazioni locali — si tratta di regioni e province autonome, province, comuni, città metropolitane, unioni di comuni, comunità montane e comunità isolane – hanno organizzato un corso di formazione ICT, quota di 0,6 punti ridotta rispetto tre anni prima. Solo il 7,7% dei dipendenti della Pa locale ha seguito un corso di formazione nell’anno precedente alla rilevazione, una quota invariata rispetto sei anni prima.
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Bibliografia
Anci (2019), I Comuni italiani 2020, Numeri in tasca
Banca Mondiale (2019), Doing business 2020
Commissione europea (2020) DESI – Digital economy and society index
Corte dei conti (2019), Referto sull’informatica pubblica
Eurostat (2020), Statistic database
Inps (2019), Polo unico di tutela della malattia, IV trimestre 2018. Statistiche in breve, febbraio
Istat (2020), database I.stat
Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato (2019), Normattiva, il portale della legge vigente. Faq
Sapelli G. e Quintavalle E. (2019), Nulla è come prima, Milano, Guerini e Associati