PIANO TRIENNALE ICT

PA digitale, il ruolo degli aggregatori territoriali: i punti aperti

Il Piano Triennale orienta verso la costruzione di una governance con un centinaio di attori “principali”, ma a livello territoriale i soggetti aggregatori sono da identificare con maggiore chiarezza e il loro modello di azione da delineare

Pubblicato il 20 Lug 2017

Nello Iacono

Esperto processi di innovazione

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Nel Piano Triennale per l’informatica delle PA ci sono dei passaggi chiave in relazione al modello di governance che ci si propone di attuare, e che trovano l’emblematica e sintetica espressione nel capitolo dedicato alle “Indicazioni per le Pubbliche Amministrazioni”: “Le amministrazioni individuate da AgID devono redigere il proprio Piano; le regioni e le Città metropolitane dovranno fare da aggregatori per le altre amministrazioni sul proprio territorio, secondo le modalità indicate da AgID”, secondo una tempistica che prevede questo passaggio entro il 2018.

Il Piano Triennale, tra l’altro, contiene in più parti indicazioni chiare sul fatto che l’attuazione della trasformazione digitale risiede in gran parte sui soggetti aggregatori che, così già previsto dalla Legge di stabilità 2016, si identificano “in prima istanza in regioni e città metropolitane”.

In questo senso, regioni e città metropolitane sono individuate come soggetti aggregatori territoriali, con una logica di relazione interregionale e intra-regionale ancora da definire con precisione (e al momento lasciata alle capacità di negoziazione delle singole amministrazioni).

In questo modo il Piano Triennale orienta verso la costruzione di una governance con un centinaio di attori “principali” (i soggetti aggregatori nazionali e territoriali), intorno ai quali si ridisegnano, così, le linee di azione, i piani di investimento, e lo stesso mercato legato alla trasformazione digitale delle pubbliche amministrazioni.

Questo passaggio ha impatti soprattutto sui soggetti aggregatori territoriali e in particolar modo sulle “città metropolitane”, aprendo esplicitamente temi ancora non del tutto definiti, oltre che ponendo la necessità di affrontare con decisione il problema della definizione di un “modello di business” utile ad orientare lo sviluppo della figura dell’amministrazione locale che si propone (o è identificata come) soggetto aggregatore.

In particolare, alcune questioni da dirimere mi sembra siano:

  • l’identificazione del soggetto aggregatore;
  • il modello di business del soggetto aggregatore.

L’identificazione del soggetto aggregatore metropolitano

Il ruolo di soggetto aggregatore territoriale può essere assunto soltanto se si dispongono di risorse e strutture adeguate ad un coordinamento delle iniziative di digitalizzazione dei comuni e se quindi si è nelle condizioni di poterne recepire esigenze specifiche in una logica di integrazione. Molte città metropolitane sono, rispetto ai loro capoluoghi, in una condizione del tutto opposta, anche per ragioni legate ad un’attenzione maggiore che la presenza politica di indirizzo può dare.

E quindi, chi può essere realmente, concretamente, il soggetto aggregatore?

Non è un caso che a molti convegni sulle “città metropolitane” vengano invitati i capoluoghi.

Certamente, i territori delle città metropolitane sono diversi tra loro e quindi intorno ai capoluoghi possono anche non essere intessute strette relazioni con tutti i comuni, così come potrebbero esistere comuni formalmente al di fuori delle città metropolitane con elevati interessi e relazioni (non per niente è stato previsto per questo dalla legge 56/2014 “Delrio” anche il meccanismo di adesione volontaria dei comuni).

D’altra parte, anche le esperienze di aggregazione già attive nelle aree vaste (come quella di Lecce, con l’ottima “Salento.gov”) si sono sviluppate intorno agli ex capoluoghi di provincia.

Soprattutto con una situazione come quella attuale, con le ex-province lasciate in una sorta di “limbo” in attesa di razionalizzazione compiuta del riassetto delle competenze territoriali, la linea di orientamento dovrà essere chiara, in modo da costruire le condizioni per aggregazioni allo stesso tempo efficaci, rapide, solide e funzionali alle esigenze dei comuni non capoluogo (soprattutto se piccoli). Probabilmente, con un ruolo affidato alle città metropolitane di facilitazione delle aggregazioni nell’area territoriale (favorendo, dove necessario e utile, aggregazioni basate su unioni di comuni e anche lo sviluppo di una interazione sana tra capoluoghi e piccoli comuni) e nell’ambito di un Piano Strategico territoriale che questo sviluppo è chiamato a indirizzare.

I progetti dell’asse Agenda Digitale del PON Metro stanno certamente spingendo verso questa direzione: i capoluoghi come riferimento per i servizi digitali pubblici dei comuni della città metropolitana. Ma permangono ambiguità, sovrapposizioni, incoerenze che costano alla comunità in termini di tempi e risorse, e che sarebbe bene superare.

Il modello di azione del soggetto aggregatore metropolitano

La costruzione di un soggetto aggregatore, posto che qui non si intende possibile una limitazione ad attività e funzioni amministrative, non può che avvenire su più aree affrontate dal Piano Triennale, e probabilmente per tutte quelle che si ritengono strategiche per l’interoperabilità tra amministrazioni e per un’ottimizzazione della spesa. Rimangono fuori, da questo punto di vista, i servizi di governo del territorio (e che possono rientrare nell’ambito delle smart city) oltre che i servizi meno generalizzabili legati agli ecosistemi verticali (e, appunto, più specifici del territorio, come il turismo). Chi si pone come soggetto aggregatore territoriale (e in particolare del territorio “metropolitano”) deve così progettare un modello di azione (di business, a tutti gli effetti) che consenta di affrontare alcuni temi quali ad esempio:

  • come si governa lo sviluppo delle singole iniziative e delle infrastrutture (e quindi come si compone il processo decisionale anche per la loro evoluzione e come si co-progetta);

  • come si finanzia il sistema (ammesso che la fase di sviluppo progettuale possa essere finanziata con fondi specifici POR o PON, bisogna definire una sostenibilità di lunga durata) e quindi con quali modalità anche formali avviene l’adesione e la contribuzione dei comuni;

  • come il modello cambia con la presenza/assenza di società in-house ICT o se la loro presenza diventa elemento indispensabile del modello (come società erogatrici di servizi a comuni consorziati).

La definizione di un modello di questo tipo (necessario, e non semplice da realizzare) comporta anche lo sviluppo di capacità di gestione delle decisioni condivise e allo stesso tempo di programmazione su esigenze ampie “di mercato”, che richiedono certamente approcci di project management ma anche di gestione dei servizi in ottica multi-cliente, oltre che di capacità di collaborazione (per le quali un supporto importante è senz’altro il modello PAOC).

Il che rende certamente arduo l’impegno, ma allo stesso tempo vincola sempre più verso approcci maturi di gestione del cambiamento, e riporta alla necessità di un approdo concreto e rapido il tema delle competenze territoriali, con un ruolo importante del Piano Strategico di cui è richiesta la redazione da parte delle città metropolitane. Forse occasione di confronto anche per annodare i fili che traccia il Piano Triennale.

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