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PA digitale, sfatiamo il mito dei Comuni “ostili”: ecco perché

Scambiare il problema della transizione tecnologica con quello del mancato aggancio di un Comune a PagoPA vuol dire scambiare il dito con la luna. Perché la svolta tecnologica sia motore della trasformazione, bisogna portare il digitale e le sue potenzialità al cuore delle decisioni istituzionali e organizzative. Ecco come

Pubblicato il 09 Gen 2020

Giovanni Vetritto

Direttore Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri

digitale

Quando si leggono le denunce contro “inadempimenti” delle amministrazioni, soprattutto locali (Comuni in primis, ma dopo le insensatezze degli ultimi anni anche Province), formulate senza tenere in considerazione le condizioni organizzative, operative e finanziarie degli enti, torna alla mente il paradosso di Oscar Wilde, secondo cui chi distingue il corpo dall’anima non ha né l’uno né l’altra.

Si dà, insomma, la colpa ai Comuni se la transizione al digitale non viene attuata, ma non si considerano i veri motivi, che non vanno certo ricercati nella “ostilità” al cambiamento da parte degli enti locali.

Campioni del mondo di questo incomprensibile sport sono, come è evidente a tutti, i giuristi.

Adottano un concetto astratto (il “Comune”, la “Provincia”), ne formano un idealtipo tutto teorico (in base al quale Roma è uguale a Moncenisio coi suoi 24 abitanti), e poi lo caricano di “funzioni” (carichi di lavoro, per chi pratica il mondo reale) senza preoccuparsi minimamente delle condizioni di fatto. Del corpo, insomma, oltre che dell’anima.

Ormai ci abbiamo quasi fatto il callo; d’altra parte i giuristi italiani sono prevalentemente figli del più estremo idealismo scolastico (vedere alla voce Vittorio Emanuele Orlando).

Proviamo allora a fare il punto per capire cosa davvero spingerebbe la transizione al digitale.

I Comuni ostili al cambiamento digitale?

Nel dibattito pubblico, però, questo malvezzo inizia a fare capolino anche nelle prese di posizione di qualche esperto di tecnologia; il che è più grave, posto che il loro sapere, di matrice ingegneristica, li dovrebbe predisporre al pragmatismo e a una più chiara visione delle condizioni di fattibilità degli adempimenti.

Tutto al contrario, si leggono sempre più spesso lamentele, in particolare sui Comuni, che li vorrebbero tetragoni contro i propri doveri digitali; si tratti del responsabile della transizione digitale, piuttosto che del pur vantaggioso aggancio alla piattaforma PagoPA, rispetto alla quale si avvicina la scadenza decisiva di dicembre, o alla ANPR. E molti paiono acriticamente convinti che adempiere o meno sia solo questione di volontà.

Pare strano che debba essere un laureato in giurisprudenza (per quanto atipico) come chi scrive a rammentare agli esperti di digitale che fare o meno una determinata cosa può dipendere moltissime volte dal disporre o meno delle condizioni per farla. Condizioni che per moltissime realtà amministrative territoriali, molto semplicemente, non esistono, per la totale bancarotta istituzionale e organizzativa, che dipende in misura non irrilevante proprio dalla mancata presa d’atto della discontinuità dei parametri di sostenibilità ed efficienza organizzativa che proprio la rivoluzione tecnologica ha portato.

L’impatto della rivoluzione tecnologica

Il punto è dirimente quanto quasi del tutto assente nel dibattito pubblico.

La tecnologia ha stravolto completamente i concetti novecenteschi di tempo, di spazio, di distanza, di massa critica, di livelli di efficienza scalare.

Un esempio più volte usato da chi scrive valga per tutti. Quando, dopo l’Unificazione politica del 1861, l’Italia dovette dotarsi di strumenti di governo del territorio, scelse un modello centralistico napoleonico, basato sul prefetto rappresentante del Governo su una area vasta. Per definire l’ambito praticabile di esercizio del potere di questo che diventava il fondamentale snodo amministrativo, si scelse lo strumento tecnologico al tempo disponibile, ovvero, molto prosaicamente, il cavallo. Attorno a ogni centro urbano rilevante si disegnò un’area di competenza prefettizia all’interno della quale fosse possibile raggiungere il punto più estremo, sbrigare l’affare di competenza e tornare nel capoluogo in una giornata di cavallo.

Nel 2019, invece, le norme vengono scritte come se un Comune, una Provincia, una qualunque entità amministrativa fossero una astrazione immodificabile, per chissà quali queta non movere, senza tener conto delle condizioni operative minime allo stato della tecnologia (che, non si sorprendano dell’informazione i giuristi, da alcuni decenni non è più il cavallo); per poi imporre a questi relitti istituzionali di un tempo che fu oneri operativi e perfino di modernizzazione che, a quel punto, sono molto semplicemente impraticabili, con buona pace di qualsiasi astratta ambizione.

In un simile quadro raccontare che esista in Italia qualche migliaio di Sindaci refrattari all’ICT è una pura frottola.

Il punto sui Comuni

A costo di risultare pedanti, ripassiamo assieme un po’ di geografia della scuola elementare.

Quasi l’80% del territorio italiano ha carattere montano o collinare.

Il potere locale è articolato in circa 8.000 Comuni, dei quali quasi 6.000 con meno di 5.000 abitanti e la metà con meno di 3.000 abitanti (l’equivalente di un isolato di un quartiere urbano).

Moltissimi Comuni (in specie piccoli e piccolissimi) non hanno autonomia funzionale, ma costituiscono elementi di evidenti “reti urbane” attorno alle città grandi, medie e ai capoluoghi del policentrismo italiano. Altre realtà vivono la dispersione delle cosiddette “aree interne”, ovvero territori lontani dai principali servizi di cittadinanza (scuola, trasporti, sanità); le aree di maggiore o minore marginalità hanno una decisiva importanza in Italia, in quanto vi risiede ancora più di un italiano su 5.

I Comuni, poi, sono aggregati, per vincolo costituzionale, in unità di area vasta dette Province, che sono 105, alcune con solo 8 o 10 Comuni (Prato, Fermo), altre molto vaste e complesse (Brescia, Sondrio, Lecce). Enti, questi ultimi, per i quali la riforma del 2014 prevedeva un ruolo flessibile di integrazione, mai sperimentato. Immediatamente, infatti, il Governo pro tempore decise di cancellarle del tutto con una riforma Costituzionale poi sonoramente bocciata con il referendum del 2016. Nel frattempo, però, con leggi e leggine finanziarie, in dispregio di qualunque prudenza istituzionale e politica, quelle realtà erano state pesantemente definanziate, lasciandole pressoché del tutto impotenti. E i Governi successivi sono rimasti inerti di fronte allo sconquasso, evitando il problema del rifinanziamento (magari a geometria variabile) delle funzioni.

Tutto quello che i Comuni non hanno

È evidente, insomma, la necessità di un fine tuning istituzionale e di una seria policy statale di orientamento sul dover essere amministrativo a livello locale. In assenza di ciò, pensare di acchiappare il toro per le corna, ponendo la questione dal punto di vista di un “obbligo giuridico” al salto tecnologico impossibile da onorare è francamente inutile.

Occorre prendere atto che 6000 degli 8000 Comuni non sono più un accettabile livello di efficienza scalare. Sono entità amministrative impotenti, che non riescono ad agganciarsi al treno della transizione digitale, ma soprattutto non riescono a fare molto meno: non hanno un ufficio tecnico in grado di produrre le progettazioni esecutive necessarie ad acquisire le risorse contro il dissesto, non hanno una ragioneria capace di fare una banale operazione di PPP o di valorizzazione immobiliare, non hanno un ufficio giuridico in grado di gestire un concorso pubblico o di stilare un contratto oneroso che non diventi un nodo scorsoio in mano alla controparte, non hanno più nemmeno un segretario comunale dedicato (odioso residuo del centralismo ottocentesco un tempo inviso ai Sindaci); hanno un ragioniere, un geometra, mezzo funzionario giuridico apicale, un quarto di segretario comunale tutti condivisi con altri tre, quattro, cinque altri Comuni, che finisce per passare, quando va bene, due orette in una settimana.

Tutta Europa ha preso atto che questo “piccolo mondo antico” era divenuto insostenibile da decenni. Dalla Germania (con il sistema dei Kreise) alla Francia (con le più recenti communautée nouvelle) perfino alla Polonia, tutti i Paesi europei hanno cercato diversi livelli di minima efficienza scalare, senza rinunciare alla funzione di rappresentanza politica del Sindaco (ma solo a quella), riorganizzando in uffici intercomunali lo svolgimento delle diverse funzioni amministrative oggi pressoché del tutto scoperte; tra le quali, lo si vorrà riconoscere, quella di transizione tecnologica è tra le meno banali.

Il digitale al cuore delle decisioni istituzionali e organizzative

Scambiare il problema della transizione tecnologica con quello del mancato aggancio a PagoPA vuol dire, insomma, scambiare il dito con la luna. Nelle scorse settimane, il Commissario per il digitale ha cercato di smuovere le acque rispetto al basso tasso di adesione dei Comuni alla piattaforma indirizzando agli stessi una lettera di sollecito. Una mossa di certo apprezzabile sul piano del committment e utile su quello della attenzione dal centro. Ma c’è da dubitare dei risultati concreti: se le sedi di governo del digitale non richiameranno alle loro responsabilità le sedi di governo della dimensione istituzionale e organizzativa, non si farà un passo in avanti; per mancanza di gambe, non di volontà.

Devono essere Funzione pubblica, per quanto riguarda assunzioni e competenze digitali, e Affari Regionali, per quanto riguarda riordino dei poteri locali, a “dare gambe” alla transizione tecnologica: individuando adeguati livelli di efficienza scalare a cui porre le funzioni (intercomunali, di “rete urbana” attorno ai capoluoghi, o addirittura provinciali dove necessario); e farlo in base a indicatori concreti (orografia, popolazione, dotazioni standard delle strutture) e non in base all’amor di armonia dei giuristi.

La svolta tecnologica non può essere un impegno giuridico per l’esistente; deve, tutto al contrario, essere il motore della trasformazione, lo strumento di ridisegno del sistema di governo del territorio, rimasto al 1865 (l’anno della “unificazione amministrativa” del Paese). Perché ciò accada, però, occorre abbandonare la strada perdente dei singoli progetti, per portare il digitale e le sue potenzialità al cuore delle decisioni istituzionali e organizzative.

Fatto questo, l’adesione ai singoli verticali operativi diverrà la naturale conseguenza.

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