Anni di blocchi delle assunzioni, patti di stabilità, esternalizzazioni e politiche di riduzione, avvenute per altro quasi sempre con tagli orizzontali, della spesa pubblica, hanno prodotto una delle amministrazioni più vecchie (50,7 anni l’età media dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici, dati desunti da Conto annuale del Mef, consultabile qui), inefficienti e poco propense al cambiamento di tutto il mondo.
Finalmente il nuovo Governo sembra aver capito che è giunto il momento di una svolta e ha annunciato, per voce sia del Presidente del Consiglio Mario Draghi che del Ministro Renato Brunetta, un cambio di rotta e l’adozione di una serie di misure che, almeno sulla carta, dovrebbero porre la basi per la ricostruzione di una nuova PA, più efficiente, flessibile e competente, capace di affrontare le sfide del post pandemia.
Ma sarà davvero così, dopo anni di dissanguamento e depauperamento delle competenze interne, basteranno le massicce trasfusioni di competenze promesse per raggiungere questo obiettivo tanto ambizioso quanto strategico?
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Gli interventi del Governo: parola chiave “competenze”
L’azione del Governo sembra, perché in realtà si tratta fondamentalmente di annunci, basarsi su diverse direttrici. La prima, annunciata dallo stesso premier, sembra essere quella della formazione. Draghi ha pubblicamente citato un dato, quello della spesa media annuale per la formazione del singolo dipendente, pari a 49 euro, sottolineandone la totale inadeguatezza e annunciando che si correrà ai ripari.
Molto attivo, come suo solito, il Ministro Brunetta che si muove su più fronti. In primo luogo è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il bando per l’assunzione di 2.800 tecnici nelle amministrazioni del Sud Italia di 2.800 profili “tecnici high -skill”, così come definiti dal Ministro stesso, previsto ai commi 179 e 180 dell’articolo 1 della legge di bilancio 2021.
La “ricognizione” delle competenze
L’iniziativa, annunciata come da tradizione con definizioni altisonanti (“Piano di rigenerazione amministrativa” e “Bando Competenze”) ha come oggetto l’assunzione a tempo determinato di personale, in deroga ai vincoli sulle assunzioni attualmente previsti, della durata massima di 3 anni, da inserire nella PA del Mezzogiorno. I profili sono stati individuati attraverso una ricognizione dei fabbisogni di personale operata dall’Agenzia per la coesione territoriale e comprendono: ingegneri, esperti in rendicontazione e controllo, animatori territoriali e innovazione sociale, amministrativi giuridici e process data analyst, destinati principalmente ai piccoli comuni (943), e alle loro aggregazioni (757). Da notare come, in modo del tutto sorprendente, non siano presenti fra quelli individuati, profili specifici a supporto della trasformazione digitale in affiancamento al RTD; profili questi praticamente assenti nei piccoli enti e la cui assenza si ripercuote in modo pesante sul processo di rinnovamento/transazione digitale degli stessi. Sarebbe interessante capire come è stata realizzata questa ricognizione dei fabbisogni, visto che non è riuscita a cogliere forse quello più urgente. (Sui profili necessari per la PA digitale nel PNRR, segnalo, anche se non condivido in toto quanto scritto, l’interessante articolo di Giovanni Gentili, pubblicato poco tempo fa su questa testata che potete leggere qui)
La novità comunque sta più che altro nelle annunciate modalità di realizzazione del concorso, che avverrà attraverso una piattaforma telematica fornita da FormezPA, denominata “Step One 2019”, ma, assicura Brunetta, si tratta di un test che anticiperà un ben più consistente e strutturale intervento di acquisizione di competenze specifiche per la PA.
Il Patto per l’innovazione
Parallelamente, il 10 marzo, il ministro Brunetta e il Presidente del consiglio hanno firmato, con i rappresentati sindacali un “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale” nel quale sono contenuti fra gli altri, il nuovo sistema contrattuale, più vicino a quello privatistico con il rafforzamento, in continuità con le precedenti riforme, del sistema della valutazione/premialitá basata sulle performance e il diritto permanente alla formazione. Non è chiaro, invece, come si andranno a recuperare, sempre ammesso che lo si farà, i 300.000 posti perduti a causa del blocco del turnover (190.000 solo nel biennio 19-20) e gli ulteriori 300.000 che si perderanno nel prossimo quinquennio. Il sospetto che alcuni paventano, visto anche il succitato bando per il Sud, è che si cerchi di far passare un modello basato sulle deroghe di spesa per i contratti a tempo determinato e i contratti flessibili, introducendo in modo silente una quota di precarizzazione anche nella PA.
Altro tassello della strategia è la proposta, volta ad agevolare l’acquisizione e la permanenza delle cosiddette “alte professionalità”, di introdurre, anche nella PA, la figura dei quadri, che consentirebbe di garantire livelli salariali più adeguati ai lavoratori in possesso di speciali competenze/qualifiche. Nelle PA locali in realtà una figura simile esiste, sono le cosiddette PO (posizioni organizzative) ma non sono legate alle specifiche professionalità quanto a mansioni di coordinamento e assunzione di responsabilità altrimenti in carico ai dirigenti.
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I dirigenti a chiamata
Ultimo, ma non perché nella strategia considerato meno importante, è l’annuncio del Ministro Brunetta, di un raddoppio della quota di dirigenti cosiddetti a “chiamata” o “contratto”. Si tratta di dirigenti che sono acquisiti dall’esterno (o da altre PA) con un contratto a termine della durata massima di alcuni anni (dai 3 ai 5) o, come nel caso dei Comuni, legati al mandato di Sindaco e Giunta comunale.
Anche in questo caso la “ratio” è quella di acquisire competenze specifiche dall’esterno, specie laddove, come spesso accade, non presenti all’interno, ma anche di rafforzare il cosiddetto “spoil system” da molti e da molto tempo ipotizzato ma mai introdotto realmente. Ad oggi le quote esterne previste sono per i dirigenti delle amministrazioni centrali del 10% e 8% rispettivamente per i dirigenti di prima e seconda fascia (art. 19, comma 6 del Dlgs 165/2001) mentre per le PAL si tratta di numeri più consistenti. Il TUEL, infatti, all’art. 110, commi 1 e 2, prevede che il 30% dei dirigenti in pianta organica possa essere a contratto, aggiungendo un ulteriore 5% extra pianta organica.
Nel contesto della PAL quindi, un raddoppio porterebbe, volendo, a una maggioranza di dirigenti a contratto. Con tutte ciò che ne consegue, sotto vari aspetti.
Quello che manca: l’idea di un nuovo assetto della PA
Se i il fattore comune dei singoli interventi è chiaro, almeno nelle parole, cioè il portare o meglio il riportare, competenze nella PA, quello che manca in realtà è l’idea di fondo.
Non si capisce dove si voglia davvero arrivare, a quale modello di PA si punta. Ma soprattutto, non sembra emergere dai ragionamenti e le dichiarazioni fin qui succedutesi, un’analisi delle cause che hanno portato allo stato in cui la PA oggi si trova. Quando, e a causa di quali scelte si è concretizzato il depauperamento delle risorse umane che è, da tempo, sotto gli occhi di tutti?
Le misure prese e da prendere si possono valutare solo in relazione alla loro capacità di eliminare quelle cause, di tracciare un nuovo assetto della PA capace di valorizzare non solo le professionalità che andranno immesse ma anche, anzi forse soprattutto, quelle già esistenti, che ci sono, e in buon numero, e che oggi non trovano, nell’attuale assetto, le opportunità per emergere e incidere.
Perché è innegabile che non di un problema di persone si tratti, ma di assetto, di idea di PA, che è quella che seleziona le persone che nella PA operano, determinandone l’inprinting, prima di tutto nella dirigenza (ne avevo scritto qui, già nel 2016 alla vigilia dell’approvazione del nuovo codice dei contratti fortemente voluto da Matteo Renzi). E che è quella che, a oggi, non si riesce a decifrare a partire dalle misure prospettate che vanno poco oltre gli slogan.
In altre parole, iniettare, oggi come oggi, in questa PA, competenze, certamente non sortirà i risultati attesi, perché nell’attuale PA, sarebbero rapidamente fagocitate, corrotte, nel vortice delle norme e della burocrazia, finendo per non riuscire a incidere minimamente, come ben insegnano le esperienze pregresse.
Una volta per tutte bisogna decidere quale PA vogliamo davvero avere e operare quindi di conseguenza. Vogliamo una PA che operi, come da anni si sente dire con insistenza, con l’efficienza, l’efficacia e la flessibilità del privato? Senza entrare nel merito sulla sensatezza o meno della cosa, è chiaro che se così vogliamo, dobbiamo costruire, per questa PA, un substrato normativo più simile a quello del privato. Se il privato lavorasse con le norme che la PA deve seguire, siamo certi che sarebbe più efficiente della PA?
Oppure, più semplicemente, vogliamo una PA più “europea”? Allora è necessario avere il coraggio di allineare le norme, tutte (anche il Codice Appalti, per esempio), non solo quelle che fanno comodo, a quelle europee.
Insomma, prima di definire le competenze, che non sono uguali per ogni modello, va definito il modello stesso; oggi pare si sia scelta la strada opposta.