Tra gli effetti della guerra in Ucraina, a cavallo fra economia e tecnologia va annoverata la recente impennata del prezzo di numerose criptovalute, con Bitcoin ed Ethereum che hanno registrato un aumento di valore del 22% a partire dal 28 di febbraio.
Dopo un periodo di significativa discesa dei prezzi per l’acquisto delle principali criptovalute, questo aumento repentino è senz’altro da ricondurre alla situazione di guerra in Ucraina.
Perché il boom del bitcoin e cripto è collegato a Ucraina
L’effetto che la guerra sta avendo su Bitcoin & Co. è quadruplice:
- in primo luogo, le criptovalute sono viste come uno strumento di investimento slegato dalle economie nazionali (sono nati proprio per questo motivo, prima di diventare strumento speculativo) e pertanto dagli alti e bassi della politica, quindi alcuni investitori stanno acquistando criptovalute (pur paradossalmente data la tradizionale volatilità di queste tipologie di investimenti) come una sorta di “bene rifugio” facilmente accessibile;
- in secondo luogo l’impennata delle transazioni ha visto un corrispondente aumento di transazioni dal rublo alle criptovalute e verosimilmente questo aumento deriva dall’obiettivo di aggirare le sanzioni occidentali ed evitare di incappare nella esponenziale svalutazione del rublo (per ora calmierata dalla chiusura dei mercati, dall’innalzamento dei tassi e dal divieto di acquistare valuta straniera, divieto che però è ben difficile da “estendere” alle criptovalute, sia in via di fatto che in via di diritto);
- in terzo luogo, gli ucraini stanno investendo in bitcoin per ottenere una “valuta di riserva” spendibile in caso di collasso del sistema economico e/o del sistema bancario del paese (e anche qui ne è testimone l’aumento considerevole delle transazioni dalla valuta ucraina grivnia a criptovalute). L’Ucraina è del resto da anni uno dei Paesi che più usa le criptovalute;
- in ultimo luogo le criptovalute si sono rivelate un utile strumento per raccogliere fondi da ogni parte del mondo per sostenere la popolazione ucraina, con l’account Twitter ufficiale del governo ucraino che ha diffuso gli indirizzi a cui effettuare donazioni in criptovalute e raccolto oltre 37 milioni di dollari (al cambio attuale).
L’impegno del Governo ucraino
Quest’ultimo punto è di estremo interesse perché si tratta di un’evoluzione storica nella gestione degli aiuti ad un paese in guerra. È la prima volta che uno stato nazionale cerca di finanziarsi chiedendo soldi in criptovalute, anche se ci sono stati tentativi (come El Salvador) di farlo in modo indiretto.
Il governo ucraino ha poi programmato un “airdrop” delle criptovalute ricevute (pochi i dettagli, alcuni parlavano di una generazione di token in favore della popolazione ucraina, altri di generazione di token in favore dei donatori), airdrop poi cancellato come comunicato dal Ministro della Trasformazione Digitale del paese, Mykhailo Fedorov, con un tweet del 03 marzo in cui afferma che “dopo attenta considerazione” il suo governo ha rinunciato al progetto di generare token fungibili come inizialmente previsto.
Con lo stesso tweet il Ministro ha però annunciato che il governo ucraino ha intenzione di creare e vendere invece token non fungibili NFT per sovvenzionare le proprie forze armate.
Lecito dubitare dell’affidabilità del sistema messo in piedi dal governo ucraino per gestire queste campagne di raccolta fondi, basate sul fatto che un account verificato su Twitter indica determinati account a cui donare. È evidente, infatti, che ove un attaccante prendesse possesso dell’account del governo ucraino potrebbe pubblicare un indirizzo di un wallet proprio a cui ricevere fondi, così come è evidente che se i russi dovessero prendere Kiev sarebbe possibile che riescano ad accedere ai wallet destinatari delle donazioni se non adeguatamente conservati dal governo ucraino, la raccolta fondi potrebbe così finire per essere sfruttata dall’invasore piuttosto che dall’invaso!
Stiamo parlando, in sostanza, di attività rischiosa, anche se i tempi in cui stiamo vivendo portano le persone desiderose di aiutare l’Ucraina ad assumersi qualche rischio pur di portare aiuto immediato a questo paese in guerra.
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Sanzioni anche su criptovalute?
Il quadro, come sempre, si presenta in chiaroscuro: se da un lato le criptovalute si dimostrano utili per il sostegno dell’Ucraina, dall’altro lato servono ai russi per aggirare in qualche misura le sanzioni occidentali, e gli exchange che garantiscono queste transazioni in alcuni casi hanno sede proprio in paesi che quelle sanzioni le hanno irrogate.
Se le aziende “tradizionali” si sono dimostrate reattive di fronte alle sanzioni e il sistema bancario ha risposto prontamente escludendo la Russia, gli exchange di criptovalute hanno invece assunto un atteggiamento molto più “prudente”, profittando di fatto dell’aumento di transazioni da valuta russa.
È evidente quindi che l’interesse del legislatore europeo e statunitense debba ora rivolgersi a queste valute digitali, per garantire un’efficacia il più possibile a trecentosessanta gradi delle sanzioni economiche, imponendo agli exchange di bloccare gli account di cittadini russi.
Il settore delle criptovalute, infatti, lasciato in una zona grigia normativa, sfugge per ora alle interdizioni attuate dai paesi occidentali e fa così da valvola di sfogo rispetto alle sanzioni alla Russia (sebbene l’acquisto di criptovalute sia paradossalmente malvisto anche da Mosca, perché indebolisce il rublo, è pur sempre un trasferimento di potere economico in capo alla popolazione russa che nel medio periodo potrebbe finire per mitigare l’incisività delle sanzioni).
Il ruolo degli exchange
Il presidente Ucraino ha chiesto agli exchange di bandire gli utenti russi; ma senza successo. Sempre possibile però che le sanzioni occidentali chiedano lo stesso, formalmente, e gli exchange dovrebbero ubbidire. Almeno quelli ufficiali. Sarebbe un contraccolpo economico e reputazionale per gli exchange e in generale per il mondo cripto. Perché sarebbe la negazione dei principi stessi alla base delle criptovalute e del web3, ossia la decentralizzazione. In altre parole, l’azione dei governi confermerebbe il sospetto che il web3 non è così decentralizzato come affermano i suoi protagonisti.
Se però i governi occidentali possono bloccare alcuni exchange, è anche vero che queste criptovalute nascono anonime, disintermediate e non legate ad un territorio, è quindi sempre possibile che un exchange non “registrato” possa accettare transazioni in criptovalute che poi circoleranno liberamente se il proprietario è sufficientemente attento a non rivelare la propria nazionalità.
Quello che è innegabile è però il cambiamento epocale che la tecnologia delle criptovalute sta comportando per il settore della politica economica e del finanziamento delle nazioni belligeranti, forte da un lato del suo riscontro economico immediato (e disintermediato) e dall’altro sfuggendo alle sanzioni internazionali proprio per la potenziale mancanza di intermediari e globalità di questo strumento.
La guerra può cambiare il peso geopolitico delle cripto, in ultima istanza, e il modo in cui sono percepite dai governi, che già da tempo spingono per una maggiore regolazione del fenomeno.
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