valute digitali

L’eYuan alla conquista dell’Africa: luci e ombre dell’espansione monetaria cinese

L’espansione cinese in Africa è sotto gli occhi di tutti: dal finanziamento delle infrastrutture, all’insegnamento della lingua nelle scuole elementari fino all’introduzione della propria valuta, attraverso l’eYuan. I diversi scenari che si aprono

Pubblicato il 20 Gen 2022

Mario Di Giulio

Professore a contratto di Law of Developing Countries, Università Campus Bio-Medico Avvocato, Partner Studio Legale Pavia e Ansaldo

yuan

L’introduzione della valuta digitale cinese sta creando attenzione e allarmi in vari luoghi del mondo, con inviti a elevare l’attenzione e molte minimizzazioni.

Il fatto certo è che la Cina è la prima grande economia a realizzare le potenzialità che una valuta digitale può dare, almeno dal lato dello Stato che la emette[1].

Ma quali sono le reali criticità dell’iniziativa? E cosa comporta ora la digitalizzazione dello yuan in paesi, quali quelli africani, da sempre legati, direttamente o indirettamente, all’aerea del dollaro?

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Lo strapotere del dollaro

Sino a oggi, l’economia globale ha assistito allo strapotere del dollaro USA quale valuta principale su cui si basano le riserve dei vari stati sovrani e che costituisce il principale strumento di scambio del commercio internazionale, nel quale i prezzi si esprimono in dollari (forse solo pochi ricorderanno che il dittatore Saddam Hussein iniziò a cedere il petrolio iracheno in euro, nel vano tentativo di limitare quello che considerava lo strapotere degli Stati Uniti creando un precedente che sperava fosse seguito da altri Stati).

La potenza del dollaro consente agli Stati Uniti d’America di imporre le proprie regole attraverso sanzioni che possono di fatto impedire la partecipazione al mercato degli scambi (si pensi alla facilità con la quale una regolamentazione a mero uso interno quale il FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act) sia stata di fatto adottata in tanti nazioni, a partire dall’Italia).

A contrastare, parzialmente, il dollaro, sino a oggi abbiamo avuto l’euro. Altre valute, per quanto emesse da superpotenze, quale la Cina, non hanno avuto spazio di manovra, anche per ragioni legate alla loro non convertibilità come nel caso dello yuan.

Lo yuan digitale e l’espansione cinese in Africa

L’espansione cinese in Africa è sotto gli occhi di tutti, almeno per chi abbia voglia di aprirli.

Dal finanziamento delle infrastrutture, all’insegnamento della lingua nelle scuole elementari in paesi quali Kenya, Tanzania, Rwanda, Uganda, Zimbabwe e Sud Africa (mentre l’Italia chiude o mette in “sonno” gli istituti di cultura all’estero), sino a giungere all’introduzione in forma surrettizia della propria valuta, attraverso la sua digitalizzazione e la creazione di portafogli digitali che accompagnano la propria telefonia hardware, e le reti di connessione che ormai hanno invaso vari Stati africani, anche attraverso la creazione di data center in Senegal, Camerum, Kenya e Zambia, l’Africa è sempre più cinese (vedasi per le reti di connessione e i data center le analisi del Center for Strategic and International Studies di Washington).

La cinese Huawei provvede inoltre servizi di eGoverment che vanno dalle elezioni con voto elettronico ai documenti digitali sino a giungere ai sistemi di ID digitale e pagamento delle tasse (ultimo aspetto dove l’attenzione dei governi africani è sempre più alta, laddove vogliano effettivamente garantire una crescita delle proprie economie attraverso l’azione statale, come più volte raccomandato dallo stesso Fondo Monetario Internazionale). In tali ambiti, Huawei può aiutare ad aumentare la sorveglianza statale, ma può essere vista anche quale strumento di inclusione e coesione attraverso la trasparenza che essa sistemi di digitalizzazione possono assicurare, evitando le opacità in cui la corruzione e la burocrazia hanno sempre terreno fertile.

In tal senso quindi, come spesso accade, esistono sia luci sia ombre.

Luci e ombre dell’espansione oltreconfine

La possibilità però di coniugare valuta digitale e eWallet su smartphone Huawei sta richiamando attenzione da parte della comunità internazionale, con gridi d’allarme che vanno dall’impatto che l’introduzione di una nuova valuta, non più limitata nella sua circolazione dai confini nazionali, può avere sulle politiche monetarie dei vari stati le cui economie sono pur sempre deboli e quindi sulla relativa indipendenza, e la creazione di un grande fratello che controlla le persone ogni volta che mettono mano al portafoglio.

Gli scenari

Sul rischio che tale utilizzo possa comportare, si aprono diversi scenari.

Il primo profilo sarebbe dato dall’utilizzo di una valuta sovrana al di fuori del territorio nazionale. Se da un lato, infatti, spesso anche il turista è solito utilizzare il pagamento con dollari o euro in Africa, questo è sempre avvenuto con moneta cartacea e perciò in volumi limitati: una valuta digitale apre ovviamente orizzonti più ampi.

Di contro molti tendono a minimizzare il fenomeno con la considerazione che gli eWallet sono legati (preinstallati) a smartphone molto costosi (il Mate40) e, come tali, non alla portata di tutti, ragione per la quale le possibilità di utilizzo dello yuan digitale sarebbe di fatto limitata a pochi danarosi in affari diretti con la Cina.

Tale constatazione lascia perplessi per chi conosce la rapidità con la quale la tecnologia mobile avanza in Africa (con il 50% degli smartphone prodotti in Cina) e come gli interscambi Cina e Africa crescano sempre più intensamente (fonti cinesi parlano di circa 118 miliardi di euro nei primi 7 mesi del 2021, con una crescita del 40% rispetto all’anno precedente – entrambi anni di pandemia).

Il rischio di sorveglianza di massa

Altro timore è legato alla possibilità che l’utilizzo della moneta digitale emessa dalla Cina possa consentire alla Cina di profilare e sorvegliare le masse.

Sostanzialmente si teme quel rischio di profilazione e controllo che ognuno di noi corre con l’utilizzo delle carte di credito e con l’uso dei social e dei software forniti dalle Big Tech ogni giorno da parte delle grandi corporazioni le cui economie hanno assunto dimensione gigantesche (è di pochi giorni la notizia che Microsoft e Apple capitalizzano in borsa più del PIL del Regno Unito) e che spaventa ancor di più se a esercitarlo è uno stato non propriamente democratico.

Del resto, la Cina ha insegnato che la tecnologia, da molti osannata quale lo strumento per raggiungere la piena libertà, perché in grado di promuovere il dibattito e la circolazione delle idee, può essere controllata e dominata a propri scopi (interessante al riguardo la lettura di The Rise of Digital Authoritarianism di Adrian Shahbaz pubblicato da Freedom House che tra l’altro segnala un declino autoritario dell’uso del digitale in moltissimi paesi, inclusi gli Stati Uniti).

Tutto ciò colpisce ancor di più se si pensa che solo alcuni fa si teorizzava l’apertura alla democrazia della Cina attraverso la rete (non realizzata previsione dell’allora presidente Bill Clinton nell’anno 2000); i fatti dimostrano come non sia così[2].

Conclusioni

La domanda che si pone ora tra allarmismi e minimizzazioni è allora: what next?

Una domanda non facile da rispondere, in un momento in cui da un lato Stati africani iniziano a pagare il costo di un approccio superficiale alla facile (fino a poco fa) finanza cinese (vedi la vicenda dell’aeroporto di Entebbe ancora in corso di definizione) e altri che sembrano capire che ci sono differenze tra gli affidamenti facili e affidamenti più prudenti (vedi il Kenya provato dai finanziamenti cinesi ottenuti per un’alta velocità ferroviaria non realizzata che non riesce a rinegoziare il debito contratto con la Cina a tale scopo ma ottiene respiro dagli stati occidentali che rinegoziano i propri finanziamenti concessi per altri scopi).

La partita è lunga; di certo c’è da considerare la visione di lungo periodo propria della Cina rispetto a quella dei paesi occidentali e dei rispettivi governi, spesso più impegnati a seguire gli umori dei social che politiche di lungo respiro, con un solo risultato scontato: se lo sviluppo non riuscirà davvero a creare in Africa un’economia sostenibile, chi godrà i frutti di questo neocolonialismo non sarà certo colui che ne pagherà il dazio stante la diversa prossimità territoriale e il rischio di sempre crescenti migrazioni economiche in aggiunta a quelle causate da guerre e carestie.

 Note

  1. Per le potenzialità dell’utilizzo di una valuta virtuale, non sovrana, da parte di economie deboli, rinvio al bell’articolo di Federico Gabbricci “Il riconoscimento statale delle criptovalute: i casi Cuba e El Salvador” su Blockchain4innovation
  2. Da leggere The great firewall of China: Jinping’s internet shutdown di Elizabeth C Economy sul The Guardian, 29 giugno 2018, sempre di attualità sebbene sia trascorsi tre anni

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