Blockchain

Token senza profili giuridici e fiscali. Per ora la legge si adatta

In mancanza di regole ad hoc, in Italia si seguono gli orientamenti emersi finora. Ecco i principi generali per l’applicazione delle imposte dirette e dell’IVA. Ma serve una normativa chiara che rispetti le complessità tecniche del mondo crypto

Pubblicato il 10 Nov 2022

Davide Bertolli

Partner Studio Bertolli & Associati

Startup - criptovalute - Fintech - blockchain - regolamento MiCa

Criptovalute, stable coins, NFT e altre, sono declinazioni dei c.d. Token, ovvero “gettoni” virtuali costituiti da un insieme di informazioni inserite all’interno del sistema blockchain[1] (che ne garantisce l’unicità e immodificabilità), con diverse funzioni: conferire un diritto, realizzare una transazione o rappresentare in forma digitale un bene fisico.

Che cosa sono i Token

Crypto Coin vs Token (Differences + Examples)

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I token, per via della loro natura ibrida, non si prestano ad una rigida classificazione, benché alcune tra le più rilevanti autorità di vigilanza nel settore bancario e finanziario, tra cui la FINMA svizzera, ne abbiano elaborato una classificazione sulla base della funzione economica e dei diritti che essi conferiscono a coloro che ne siano titolari:

  • Token di classe 1, sono riproducibili in serie e svolgono la funzione di mezzi di pagamento (c.d. payment token) per scambiare valori o acquistare beni e servizi. Le criptovalute, come Bitcoin, Tether, Ethereum, ecc., rientrano in questa categoria. Esse sono generate in diversi modi, i Bitcoin ad esempio, sono il risultato di un processo di mining[2] realizzato tramite la messa a disposizione di potenza di calcolo hardware, da parte di soggetti denominati miners, per la validazione dei processi legati al funzionamento della blockchain.
  • Token di classe 2, attribuiscono al possessore diritti verso delle controparti (c.d. utility token), come, ad esempio, un diritto di credito, il diritto a ricevere un bene o usufruire di un servizio.
  • Token di classe 3, hanno una funzione mista (c.d. asset token), poiché attribuiscono sia la proprietà di un asset o di quote di partecipazione (es. poprietà di un bene fisico o di una porzione dello stesso, ovvero il possesso di quote di entità giuridiche), sia diritti diversi quali, ad esempio, diritti di voto o diritti economici futuri.

NFT, unici e non replicabili

È inoltre opportuno ricordare che i Token possono essere classificati come Fungible oppure Non Fungible, meglio conosciuti con l’acronimo di NFT per l’appunto. Questi ultimi, a differenza dei primi, hanno la caratteristica di essere unici e non replicabili; rappresentano solitamente un asset univoco, ad esempio, un brano musicale, un filmato, la riproduzione di un’opera d’arte analogica ovvero un’opera nativa digitale, ecc.

Ad ogni modo, considerata l’estrema duttilità dei token e la rapida innovazione tecnologica cui sono soggetti, è facile immaginare come nel breve termine verranno alla luce nuove tipologie, non idonee ad essere classificate secondo lo schema sopra rappresentato.

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L’importanza delle chiavi

Posto che, come detto, trattasi di insiemi di informazioni digitali catalogate all’interno della blockchain, titolarità e trasferibilità dei token sono garantite da una coppia di chiavi, una pubblica e una privata, che consentono di ricevere e trasferire i token per mezzo di servizi offerti da apposite piattaforme[3].

Le chiavi sono conservate in software chiamati wallet (portafogli), che possono avere diverse caratteristiche in base alla tecnologia del mezzo di conservazione (paper, hardware, ecc.), alla connettività alla rete dell’ambiente in cui sono conservati e al controllo o meno della chiave privata da parte dell’utente. Comunemente, i wallet vengono classificati in:

hot wallet, ovvero portafogli virtuali online gestiti da providers professionali;

cold wallet, ovvero portafogli virtuali offline conservati in un hardware di proprietà (l’hard disk di un pc ad esempio).

Nonostante un atteggiamento inizialmente neutrale di molte autorità nazionali e sovranazionali, tra cui la UE, l’aumento costante ed esponenziale dell’utilizzo della blockchain e dei token e il diffondersi di fenomeni quali, smart contracts, criptoarte, investimenti in criptovalute, hanno reso urgente la necessità di una specifica regolamentazione volta, in particolare, ad arginare i fenomeni di abuso cui si prestano questi strumenti, in particolare frodi fiscali, riciclaggio e finanziamento al terrorismo.

I concetti di bene giuridico e di territorialità

Trattandosi di una realtà regolata da processi altamente complessi e innovativi, le attuali legislazioni scontano una parziale inadeguatezza nell’inquadrare giuridicamente questo fenomeno, con particolare riferimento all’applicazione del concetto di bene giuridico e di territorialità.

Con riferimento al primo, l’orientamento predominante è quello di considerare i token come “beni”, in quanto possono formare oggetto di diritti, mentre è esclusa la possibilità di identificarli come moneta convenzionale o come strumenti finanziari.

È appena il caso di ricordare che di recente, in senso contrario a tale posizione, lo stato di El Salvador ha dichiarato la criptovaluta Bitcoin moneta a corso legale. Trattasi, tuttavia, di un caso isolato, poco rilevante nel panorama mondiale.

Più complessa è l’applicazione del concetto di territorialità, che ha una forte connotazione fisica, ad una realtà totalmente virtuale. Fino ad ora, gli orientamenti che hanno riscosso maggior seguito a livello nazionale ed europeo puntano a determinare la territorialità dei token facendo riferimento al luogo in cui è situato il bene fisico sottostante (un immobile, ad esempio), oppure alla sede del provider sulla cui piattaforma risiedono i wallet.

Tuttavia, anche tali soluzioni sono in parte opinabili nella misura in cui, tecnicamente, i wallet contengono solo le chiavi di accesso ai token e non i token stessi, spesso conservati su piattaforme situate in Stati diversi da quello in cui ha sede il gestore del wallet.

Disciplina fiscale e obblighi di monitoraggio

Le considerazioni di cui sopra, sono utili per inquadrare correttamente i token sotto il profilo fiscale e patrimoniale. Come già accennato, gli ordinamenti giuridici attualmente vigenti nei vari paesi non prevedono una regolamentazione specifica e consentono solo di adattare le norme esistenti, per quanto possibile, in attesa dell’emanazione di normative ad hoc.

Anche il nostro ordinamento interno non dispone ad oggi di una normativa specifica per regolamentare a livello civilistico-fiscale la generazione, l’utilizzo e lo scambio di token, così come non esistono ancora solidi orientamenti giurisprudenziali e di prassi.

Niente norme ad hoc, la legge si deve adattare

Il primo intervento dell’Amministrazione Finanziaria, infatti, risale al non lontano 2016, con la Risoluzione n. 72/E del 2016, e, ad oggi, si contano sporadiche risposte ad interpelli, incluse le ultime recentissime risoluzioni n. 507 e 508 pubblicate il 12 ottobre scorso, oltre al Provvedimento n. 176227 del 23/05/2022. In ambito giuridico la situazione non è diversa, essendo i casi trattati e giudicati numericamente poco significativi.

Merita, in ogni caso, una menzione il DDL n. 2572, presentato in Senato il 30 marzo 2022, concernente “Disposizioni fiscali in materia di valute virtuali e disciplina degli obblighi antiriciclaggio”, attualmente ancora in fase di lavorazione ma che ci si attende possa contribuire a portare maggior chiarezza nella materia, disciplinando puntualmente le più comuni operazioni sui token.

Nonostante l’esiguità del materiale a disposizione e la complessità della materia, è tuttavia possibile individuare alcune linee guida per gestire la fiscalità di talune operazioni effettuate su criptovalute e altre tipologie di token.

Principi generali per le imposte dirette e l’IVA

In tema di imponibilità delle operazioni di compravendita e scambio di token, mining, staking e ICO (Initial Coin Offering), l’Agenzia delle Entrate, muovendo dai principi dettati dalla Corte di Giustizia UE con sentenza del 2015, causa C-264/14, e dagli orientamenti OCSE, ha avuto modo di fornire a più riprese alcune soluzioni parzialmente condivisibili.

Trattando le operazioni di cambio tra valute tradizionali e criptovalute, l’Agenzia delle Entrate, con Risoluzione n. 72/E del 2016, ha evidenziato come le compravendite effettuate a titolo oneroso da operatori del settore, il cui compenso è costituito dal margine generato dalla differenza tra il prezzo di acquisto delle valute e quello di vendita, costituiscano prestazioni di servizio a titolo oneroso relative a “divise, banconote e monete con valore liberatorio” esenti da Iva ai sensi dell’art. 10, comma 1, n. 3) del DPR 633/1972.

Ai fini reddituali, non vi è dubbio che i compensi generati dall’attività di intermediazione sono ricavi soggetti ad imposizione al netto dei relativi costi.

Utility Token come i voucher?

In merito alle operazioni di emissione e vendita al pubblico mediante ICO di utility token, l’Agenzia delle Entrate, con la risposta n. 14 del 2018, ha affermato che trattasi di operazioni assimilate alla vendita di voucher, quali strumenti che conferiscono al detentore il diritto di acquistare beni o servizi.

Pertanto, analogamente a quanto avviene per i voucher, sarà il successivo acquisto del bene o servizio mediante utilizzo del token a costituire operazione imponibile ai fini Iva.

Parimenti, ai fini reddituali, l’emissione e vendita dei token non genera un ricavo, ma una mera movimentazione finanziaria, posto che la rilevanza ai fini delle imposte dirette si verificherà con l’effettiva cessione dei beni o dei servizi a fronte dell’utilizzo dei token.

Tuttavia, con la recente risposta n. 507 del 12 ottobre 2022, l’Agenzia ha parzialmente mutato orientamento, adeguandosi all’interpretazione espressa dalla Commissione Europea nei Working Papers n. 983 del 2019 e n. 993 del 2020, secondo cui non sarebbe possibile assimilare ai fini Iva un utility token ad un voucher in ragione della facilità con cui può mutare natura, trasformandosi in criptovaluta, titolo o prodotto finanziario.

Criptovalute, gli Usa spingono sulla regolazione: le iniziative e le mosse delle istituzioni finanziarie

I dubbi dell’Ocse

L’OCSE[4] stessa ha rilevato detta criticità, in quanto, dopo l’emissione, il token può facilmente assumere una natura mista, ossia venire utilizzato sia come titolo (voucher) sia come strumento di investimento o di pagamento. Ai fini della corretta applicazione dell’Iva, pertanto, è necessario valutare caso per caso, in base alla documentazione disponibile predisposta dall’emittente, quando il token sia assimilabile a un documento di legittimazione (quindi un voucher) e quando possa invece avere altre finalità.

In base a tali ultime considerazioni va da sé che anche ai fini reddituali avrà rilevanza l’eventuale diverso utilizzo di utility token quali prodotti finanziari o mezzi di pagamento, in luogo della spendita degli stessi per l’acquisto dei beni o servizi sottostanti.

Mining irrilevante ai fini dell’Iva

Per quanto concerne l’attività di mining, l’Agenzia delle Entrate, con la Risposta n. 508 del 2022, ha chiarito che la generazione di criptovalute da parte dei c.d. “minersnon costituisce prestazione di servizi in ragione dell’assenza del rapporto sinallagmatico tra committente e prestatore ed è, pertanto, irrilevante ai fini Iva.

Nel processo di mining, infatti, i miners non hanno modo di conoscere l’identità gli uni degli altri o quella dei soggetti che richiedono la validazione delle informazioni, in ragione della struttura “distribuita” dell’ambiente in cui avviene il processo, con l’ovvia conseguenza di rendere impossibile l’individuazione di un soggetto committente e la sottoscrizione di un contratto che identifichi la prestazione.

La remunerazione in criptovalute per mining alza l’imponibile

Da tali considerazioni, deriva la preclusione del diritto di detrazione dell’imposta pagata sugli acquisti afferenti l’attività di mining[5].

Ai fini delle imposte dirette, al contrario, l’Agenzia ritiene applicabile la normativa propria delle prestazioni di servizio di cui all’art. 109, comma 2, lettera b) del TUIR, affermando che la remunerazione in criptovalute ricevuta dai miners concorre alla formazione del reddito imponibile nel periodo in cui l’attività di mining può ritenersi ultimata.

I miners, tuttavia, non sempre vengono remunerati per l’attività svolta, poiché il compenso spetta esclusivamente al primo che riesce a completare con successo la validazione e registrazione delle informazioni nel “blocco”. Il processo è quindi assimilabile ad una competizione nella quale tutti i concorrenti sostengono dei costi di partecipazione, ma solo uno di essi ottiene la ricompensa per i propri sforzi.

In relazione a tale aspetto, l’Agenzia si spinge a una considerazione, a parere di chi scrive azzardata e non condivisibile, secondo cui a fronte della mancata remunerazione dell’attività di mining si realizza una perdita su crediti deducibile in base alla sussistenza di elementi certi e precisi, ai sensi dell’art. 101, comma 5 del TUIR.

In primo luogo, infatti, il processo di mining è regolato da una logica di “success fee”, che comporta inevitabilmente il sostenimento di costi senza garanzia di ottenere una remunerazione; tali costi, pertanto, devono necessariamente concorrere a formare la base imponibile secondo la loro natura. In secondo luogo, non esistendo alcun rapporto sinallagmatico, non si vede come poter giustificare fiscalmente l’emersione di una perdita su crediti.

Reddito di capitale da staking

Per quanto attiene lo staking di criptovalute, ovvero il processo utilizzato dalla blockchain per raggiungere il consenso sulla generazione di un nuovo “blocco” attraverso il meccanismo di validazione POS (Proof of Stake), l’Agenzia ha chiarito che la messa a disposizione (mediante deposito vincolato su apposite piattaforme) di una certa quantità di criptovalute da parte di un soggetto (c.d. staker), a fronte di un compenso in criptovalute o altra forma di token (accreditato dal gestore della piattaforma nel wallet dello staker), produce un reddito di capitale, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera h), del TUIR, o d’impresa, a seconda che tale attività sia posta in essere da una persona fisica al di fuori dell’attività d’impresa o, viceversa, da un soggetto passivo imprenditore.

Criptovalute, come funziona l’imposta sullo staking: i chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate

Qualora il soggetto gestore della piattaforma sia un operatore residente in Italia, sarà tenuto ad applicare la ritenuta del 26% sui compensi accreditati nei wallet, ai sensi dell’art. 26, comma 5, DPR 600/1973, indipendentemente dal Paese di residenza dei titolari di questi ultimi. Come detto in precedenza, infatti, secondo l’orientamento prevalente la rilevanza territoriale dipende dal luogo di residenza del gestore della piattaforma su cui i wallet sono conservati.

Stesse norme per le operazioni in valuta estera

Trattandosi di remunerazioni in criptovalute, l’Agenzia ha affermato a più riprese che per determinare l’importo della remunerazione alla data del realizzo, debbono ritenersi applicabili le norme che disciplinano le operazioni in valuta estera, ex art. 9 e art. 110, comma 2, del TUIR. Secondo le quali i proventi e le spese in valuta sono valutati in base al cambio del giorno in cui sono percepiti o sostenute o del giorno antecedente più prossimo oppure, in mancanza, al cambio del mese in cui si sono stati realizzati.

Con riferimento alle operazioni effettuate da soggetti privati al di fuori dell’attività d’impresa, l’Agenzia ha affermato che i componenti positivi generati dalla cessione di valute virtuali devono rientrare nella categoria dei redditi diversi, in base al comma 1, lettera c-ter, ovvero al comma 1-ter, dell’art. 67 del TUIR, a seconda che si tratti di cessioni a termine o a pronti, equiparando il prelievo di criptovalute dal wallet ad una cessione a titolo oneroso.

Infatti, l’Agenzia, con le risposte n. 788 del 2021 e 397 del 2022, effettua una distinzione tra le cessioni a termine, sempre imponibili ai sensi del predetto art. 67, comma 1, lettera c-ter), in quanto aventi finalità speculativa, e le cessioni a pronti, generalmente non imponibili poiché prive di tale finalità, salvo che le criptovalute non siano prelevate da un wallet che abbia registrato una giacenza media pari a Euro 51.645,69 per almeno sette giorni consecutivi nel periodo d’imposta. La giacenza media, specifica l’Agenzia, deve essere verificata facendo riferimento all’insieme dei wallet di cui il soggetto è titolare, a prescindere dalla loro tipologia.

I redditi diversi di cui sopra, dovranno essere dichiarati nel quadro RT della dichiarazione annuale dei redditi.

A parere di chi scrive, l’approccio metodologico seguito dall’Agenzia che conduce all’assimilazione delle criptovalute, alternativamente, alle valute estere e agli strumenti finanziari, non pare attualmente condivisibile, poiché privo di fondamento giuridico, nel primo caso, e in contrasto con l’art. 1, comma 1, lett. u), commi 2 e 2-bis e l’art. 18, comma 5, del TUF[6], nel secondo.

Detenere valute virtuali e trasferirle non è rilevante per il Fisco

Infine, per quanto concerne la mera detenzione di valute virtuali in wallet e il trasferimento delle stesse da un wallet ad un altro, l’Agenzia ha adottato il condivisibile orientamento secondo cui tali operazioni non costituiscono fattispecie fiscalmente rilevanti.

Obbligo di monitoraggio fiscale e IVAFE

In tema di monitoraggio fiscale, il D.L. n. 167 del 1990, art. 4, afferma che le persone fisiche, le società semplici e gli enti non commerciali, residenti in Italia, che detengono nel periodo d’imposta investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria, suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia, sono tenuti a darne indicazione nella dichiarazione dei redditi, mediante compilazione dell’apposito quadro RW.

Stesso principio vale per le attività finanziarie estere detenute in Italia al di fuori del circuito degli intermediari residenti.

L’Agenzia, con le già citate risposte n. 788/2021 e 397/2022, ha ritenuto sussistere, in modo non condivisibile, l’obbligo di monitoraggio per le valute virtuali, in quanto attività estere di natura finanziaria, a prescindere che la chiave privata fosse detenuta dal provider della piattaforma o direttamente dal soggetto titolare del wallet, escludendone in ogni caso l’assoggettamento a IVAFE, in quanto applicabile esclusivamente a depositi e conti correnti di natura bancaria.

Tuttavia, con la risoluzione n. 437 del 2022, ha avuto modo di correggere il tiro, chiarendo che, se il wallet è detenuto presso un provider residente in Italia, le criptovalute ad esso riferibili non sono soggette alcun obbligo di monitoraggio.

Per quanto gli orientamenti di cui sopra possano fornire un primo aiuto per la comprensione e il corretto trattamento fiscale di alcune operazioni aventi ad oggetto i token e, in particolare, le criptovalute, restano ancora molto dubbi e incertezze, che solo la produzione di una normativa chiara, rispettosa delle notevoli complessità tecniche del mondo crypto, e una giurisprudenza consolidata potranno contribuire a chiarire.

Note

  1. È una tipologia di applicazione della distributed ledger technology (DLT), ovvero “tecnologia dei registri distribuiti” che consente di avere un database di informazioni crittografate, completamente decentralizzato e disintermediato, mediante la messa a disposizione delle informazioni all’interno della rete composta da dispositivi informatici chiamati “nodi”.
  2. Attività che consiste nella ricerca e individuazione della soluzione a un problema di tipo algoritmico mediante la messa a disposizione di un’elevata capacità di calcolo (hardware e software), volta a validare e registrare nella blockchain le informazioni relative a determinate transazioni.
  3. E-Toro è tra le più conosciute e utilizzate.
  4. OCSE “Taxing Virtual Currencies: An Overview of Tax Treatments and Emerging Tax Policy Issues”, 2020.
  5. Tale attività richiede ingenti investimenti in strumentazione hardware e software, oltre che di energia elettrica, percui, l’indetraibilità dell’Iva è un aspetto fortemente penalizzante.
  6. Il TUF fornisce una rigida elencazione degli strumenti finanziari, che non si presta ad essere estesa per analogia.

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