Sono settimane cruciali quelle che ci aspettano, per il nostro Paese e per il futuro della Pubblica Amministrazione. Mentre, non senza qualche difficoltà, si mette a punto il Piano Nazionale di Ripresa e resilienza (PNRR) che dovrà dettare le linee guida per gli investimenti e le riforme ove saranno impiegati i famosi 209 miliardi di Next Generation EU, si fa sempre più diffusa la preoccupazione che le pubbliche amministrazioni, attraverso le quali dovranno passare tutti i provvedimenti e le azioni per mettere a frutto questo fiume di denaro, non siano affatto pronte.
La risposta può essere quella di scavalcare – o “smontare” – la PA esistente o piuttosto avviare una drastica azione per rigenerare la nostra PA dall’interno.
In questo senso va il documento di proposte concrete che hanno presentato alla Camera mercoledì 25 novembre FPA, la società del gruppo Digital360 dedicata all’innovazione nel settore pubblico, il Forum Disuguaglianza Diversità, un’alleanza di associazioni che si battono per una maggiore giustizia sociale ed ambientale coordinata da Fabrizio Barca, e MovimentA, una piattaforma di innovazione politica progressista, ecologista, femminista ed europeista coordinata da Alessandro Fusacchia.
La constatazione che, stretta tra l’urgenza della pandemia e l’opportunità dei fondi europei, la Pubblica Amministrazione italiana non è oggi nelle condizioni di attuare efficacemente le misure necessarie per la ripresa e affrontare la complessità del periodo storico che abbiamo davanti, ha indotto queste organizzazioni a porre sotto gli occhi della politica, della società civile, nonché degli stessi lavoratori pubblici un documento concreto di proposte.
Le quattro azioni chiave
Le proposte si sostanziano in quattro azioni chiave:
- Attrarre i giovani migliori: cogliere l’irripetibile occasione del rinnovamento generazionale, dato dallo sblocco del turn-over, per una radicale trasformazione delle modalità di reclutamento (nuovi profili, nuove competenze) che dia ai 500 mila giovani, che entreranno al posto dei lavoratori usciti negli ultimi anni, l’opportunità e il potere di spendere le proprie competenze ed esperienze per cambiare il Paese, da dentro.
- Far parlare i risultati: dare alle amministrazioni, nel loro lavoro quotidiano, delle chiare missioni strategiche (transizione ecologica, parità di genere, miglioramento dell’offerta dei servizi di cura, riqualificazione edilizia ed energetica del patrimonio abitativo, digitalizzazione del sistema delle PMI, ecc.), da usare per orientare quello che fanno le amministrazioni, il reclutamento e l’inserimento delle nuove leve di giovani, ricostruendo le filiere amministrative – dal ministero al comune – coinvolte da ciascuna missione, finendola con i compartimenti stagni e responsabilizzando invece i diversi livelli di governo e i diversi settori della PA sul raggiungimento di risultati comuni, chiaramente individuati.
- Sbloccare, mobilitare e valorizzare chi ci lavora: accompagnare le PA in questa fase di trasformazione investendo su una nuova, diffusa ed efficace formazione per tutti i dipendenti pubblici, sulla creazione di percorsi di crescita professionale, sulla semplificazione dei procedimenti, attraverso anche processi di ascolto dei lavoratori, facendo così in modo che i processi d’innovazione e di digitalizzazione trasformino davvero i comportamenti e permettano servizi più semplici, vicini e veloci.
- Aprire la PA alle collaborazioni: far sì che la PA sia porosa, aperta e capace di collaborare con il Terzo Settore e le organizzazioni di cittadinanza attiva, imparando a confrontarsi con i destinatari degli interventi, per acquisirne conoscenze e preferenze, dando loro l’effettivo potere di orientare le scelte ed essere parte della loro realizzazione.
Una nuova PA trasformata dal digitale: gli errori da evitare
Si tratta di azioni essenziali in grado di qualificare il nostro Paese e orientarne lo sviluppo, ma che resterebbero obiettivi totalmente velleitari se non innestati in una piattaforma di trasformazione digitale della PA. Un ripensamento profondo in chiave digitale dei servizi, delle procedure, delle relazioni tra gli enti, e degli stessi comportamenti e modi di lavorare degli impiegati pubblici. Non ci sarà una nuova PA se non sarà profondamente trasformata dal digitale.
Quando si parla di digitalizzare la PA è necessario però guardarsi da alcuni gravi errori che negli ultimi due decenni hanno fatto sì che la maggior parte dei programmi abbia ottenuto risultati ben più poveri di quelli che tutti ci aspettavamo.
Il digitale orientato solo al risparmio
Un primo errore è che la spinta alla digitalizzazione sinora è stata guidata per lo più da una logica di puro efficientamento, dall’obiettivo (solo) di risparmiare tempo e risorse, non utilizzata per ridisegnare radicalmente processi, comportamenti e relazioni tra i soggetti interessati ad una politica e per soddisfare meglio i bisogni attraverso una PA veramente interconnessa e basata sui dati. Insomma, si è scelto spesso di considerare la digitalizzazione come un mero strumento tecnico per automatizzare l’esistente.
Si è scelto di portare tecnologie e strumenti nella PA, invece che di portare la PA in una era digitale in cui a cambiare devono essere non solo i processi, “il modo di fare le cose”, ma il senso stesso di una PA moderna al servizio del Paese, i rapporti, le professionalità e le competenze di chi opera con e nella PA.
Una transizione che non parte dalle persone
Questo ha portato al secondo errore: una “transizione al digitale”, come la chiama la norma, che non parte dalle persone. Spesso la digitalizzazione è stata infatti condotta dimenticando le reali necessità delle persone che si avvalgono dei servizi dell’amministrazione e gli ostacoli che cittadini e pubblici dipendenti incontrano quando viene loro richiesto di “passare al digitale”, da quelli più concreti, come l’accesso a Internet, a quelli più astratti, come l’esistenza di conoscenze adeguate per navigare le piattaforme messe in campo dalla PA, spesso troppo complesse e dettate da logiche lontane dal cittadino.
Insomma, dimenticando la centralità delle persone e tenendo in troppo poco conto la loro formazione, la loro reale opportunità di acquisire le necessarie competenze sia dal lato dei cittadini, sia da quello degli impiegati pubblici. La brusca accelerazione imposta dall’emergenza pandemica ha messo in luce che un modello diverso è possibile e che le persone, quando adeguatamente ingaggiate, sono in grado di cambiare. Cittadini e lavoratori pubblici si sono messi in gioco, hanno in massima parte dimostrato impegno, iniziativa e senso di responsabilità. Ma lo hanno fatto in molti casi non “grazie” alle loro organizzazione, ma “nonostante” l’impreparazione derivante da anni di tagli e disinteresse. In tantissimi ambiti cruciali per la vita del Paese (scuola, sanità, sicurezza, assistenza alle persone, …), i lavoratori hanno dovuto improvvisare, supplire con mezzi propri all’assenza di strumenti professionali, reinventarsi lavoratori agili e digitali. Le persone, per lo meno una gran parte di loro, hanno fatto la loro parte, ricevendo spesso in cambio sospetto, incomprensione, il perdurare di un ostinato pregiudizio.
Ma è questo lo Stato che vogliamo? Quanto minori avrebbero potuto essere i danni della pandemia se le pubbliche amministrazioni si fossero fatte trovare pronte e moderne all’appuntamento con l’emergenza? Quanto più forte e resiliente si sarebbe scoperto il Paese? E invece la pandemia ha messo in evidenza una preparazione digitale scarsa, una cultura dell’innovazione un po’ posticcia, fatta più di parole che di fatti e comportamenti reali, una infrastruttura lisa, che ha scaricato su lavoratori pubblici e cittadini molto dello stress che la pandemia ha imposto.
Certo non dappertutto è stato così: abbiamo visto amministrazioni che nel momento di necessità hanno saputo accelerare e valorizzare gli investimenti in tecnologia, in formazione e in modelli organizzativi sperimentati in tempi non emergenziali, ma si tratta purtroppo di eccezioni.
Lo sviluppo della “PA digitale” separato dallo sviluppo delle politiche
Un terzo errore è quello di vedere la “PA digitale” come un settore specifico e strumentale dell’amministrazione e quindi di definire un ufficio dedicato, fatto di tecnici “smanettoni”, del tutto separati dal vertice apicale dove si approcciano le missioni strategiche dell’ente. Dividere le politiche delle amministrazioni dall’intelligente uso delle tecnologie digitali e assegnarle a diversi livelli sarebbe però un grave fraintendimento. Le amministrazioni hanno il compito di soddisfare i bisogni di lavoro, di salute, di sicurezza, di cultura, di istruzione, di mobilità, di crescita sociale, professionale ed economica. Nessuno di questi bisogni potrà oggi essere soddisfatto senza una profonda, intelligente e pervasiva trasformazione digitale dei processi e della stessa catena di produzione del valore, sia esso valore economico o “valore pubblico”. Ma lo sviluppo del digitale e lo sviluppo delle politiche devono crescere insieme in un processo virtuoso di interdipendenza, in cui l’obiettivo politico orienta la tecnologia, ma dal canto suo la piattaforma tecnologica apre nuovi orizzonti alla politica.
Sarà il bisogno di salute e la necessità della sostenibilità del sistema sanitario universalistico, che trascinerà il bisogno di sanità digitale, ma sarà il digitale che suggerirà nuovi modelli organizzativi, ad esempio alla sanità territoriale. Sarà l’obiettivo di una scuola di qualità che renda i giovani cittadini liberi, consapevoli, coscientemente partecipi della società, che trascinerà il piano di scuola digitale; ma sarà la didattica digitale che suggerirà nuove metodologie più partecipate ed interattive e aprirà a contenuti prima impossibili da raggiungere. Sarà la convinta adesione alla transizione verde e all’economia circolare che spingerà il digitale ad essere più sostenibile, meno affamato di energia, più attento a non sviluppare disuguaglianze che mettano in pericolo la sostenibilità sociale, ma sarà il digitale e permettere le smart grid, l’efficientamento energetico degli edifici e dei trasporti. E così via, innescando circoli virtuosi di innovazione e imprenditorialità che possono essere alla base del rilancio della nostra PA.
Il ricambio generazionale non è garanzia di innovazione
Un ultimo errore ci riporta alle proposte per una PA adeguata all’attuale momento ed è quello di immaginare che si possa avere un’innovazione significativa nelle amministrazioni grazie al naturale e “automatico” ricambio generazionale che avverrà nei prossimi anni. Siamo in effetti alle porte di un massiccio turnover che però, se non adeguatamente orientato e gestito, rischia di essere non solo una “occasione persa”, ma anche un pesante macigno sulla possibilità di evolvere nei prossimi decenni. Dovranno essere le missioni strategiche il punto di riferimento per orientare il reclutamento e l’inserimento delle nuove leve di giovani, la stesura dei piani dei fabbisogni di personale, i criteri e le procedure di selezione e inserimento, trasformandoli da mero adempimento a reale strumento di programmazione. Si tratta poi di rompere la logica della continuità, ampliando il ventaglio delle competenze disciplinari richieste, specificando le funzioni (ad esempio project manager, service-designer, data scientist, ma anche esperto in gestione dell’energia, facilitatore di confronto pubblico, giurista ambientale, meccatronico green, specialista in contabilità verde, ecc.) e prestando molta attenzione alle capacità e competenze organizzative (pianificazione, ordine e precisione, mediazione, reazione a imprevisti, coesione di gruppo, leadership, etc.) e alle competenze e attitudini legate all’innovazione digitali (capacità networking, comunicazione multicanale, capacità di interpretare e utilizzare i dati, pensiero laterale…). Occorre poi, anche con un sapiente utilizzo del digitale, assicurare efficienza e trasparenza al lavoro delle commissioni di selezione, unica garanzia di tempi celeri e quindi di “competitività” con il privato nella guerra dei talenti.
Infine, per evitare di spegnere e frustrare l’entusiasmo e l’attitudine all’innovazione dei nuovi assunti, occorre curare il loro ingresso con misure che consentano di non isolarli, ma di consentir loro di rimanere connessi in comunità digitali orientate all’innovazione e all’apprendimento continuo. Occorre costruire le migliori sinergie con le generazioni più anziane e al contempo favorire relazioni orizzontali, bilanciando così sapientemente integrazione nell’amministrazione “esistente” e spinta all’innovazione. È quindi necessario curare l’inserimento dei nuovi talenti trasformando in mentor le figure più capaci e sensibili all’innovazione delle vecchie generazioni, mantenendo scambi di conoscenza trasversali, e consentendo ai neoassunti di acquisire velocemente spazi di autonomia e di responsabilità. Solo con questo insieme di azioni si eviterà di sprecare l’irripetibile occasione dello sblocco del turn-over, finendo per reiterare l’amministrazione esistente o disegnandone una indifferente agli obiettivi strategici perseguiti.
In conclusione
Ed eccoci così tornati alla centralità delle persone e di un corretto uso del digitale per valorizzare i talenti e promuovere imprenditorialità e meritocrazia.
Perché senza una trasformazione digitale non ci sarà una nuova PA, ma senza l’impegno, l’entusiasmo, la passione delle donne e degli uomini che lavorano e lavoreranno nelle amministrazioni, senza una dirigenza in grado di rispettare e far crescere le persone, non ci sarà alcuna possibilità di quella rigenerazione della PA di cui abbiamo, ora più che mai, un grande bisogno.