Il tema dell’informatizzazione della pubblica amministrazione è ormai antico. Basti ricordare che ad esso era dedicato un paragrafo importante del rapporto sui principali problemi dell’Amministrazione dello Stato trasmesso alle Camere il 16 novembre 1979 dal Ministro per la funzione pubblica Massimo Severo Giannini. Già in quelle pagine si dava atto che i sistemi informativi non servono più solo per fatti di gestione interna ma possono essere utilizzati “per amministrare” e si auspicava l’istituzione di un unico “centro per i sistemi informativi dell’amministrazione pubblica”. Sono poi dei primi anni ’90 i contributi della dottrina che hanno posto le basi teoriche per l’automazione dei provvedimenti amministrativi, anche discrezionali (Masucci, Fantigrossi). Se si osserva come oggi lo Stato e gli enti pubblici utilizzano le tecnologie dell’informazione balzano all’occhio la lentezza del processo di innovazione, non certo rapido come nei contesti privati e le tante mancate occasioni rispetto a quelle sollecitazioni e a quelle analisi. Valga un esempio per tutti: il caso della posta elettronica certificata ben descritto da Milena Gabanelli sul Corriere della Sera del 28 febbraio scorso (“Costi, disfunzioni e pigrizia: non è un paese per Pec”).
Scardinare il potere amministrativo, organizzativo e dei dati
Una strategia per dare una scossa alle politiche di digitalizzazione, dopo le tante “Agende” fallite, potrebbe, a mio avviso, articolarsi su tre nodi: quello del potere amministrativo, quello dell’organizzazione e quello dei dati.
Il primo nodo riguarda la questione già intuita da Giannini. Cosa si può automatizzare in un contesto di amministrazione pubblica? In questi anni non c’è dubbio che le tecnologie sono state tenute lontane, forse deliberatamente, dal nucleo duro dell’agire pubblico, rappresentato dalle decisioni discrezionali. Quindi i vantaggi dell’informatica sono stati confinati al di fuori di quel nucleo e di conseguenza limitati. Eppure la dottrina già richiamata aveva illustrato la possibilità di esercitare la discrezionalità amministrativa per classi di casi, al momento della scrittura del software, ottenendo così la possibilità di provvedimenti singoli emanati automaticamente. Con evidenti vantaggi anche e soprattutto in termini di imparzialità e quindi di prevenzione della corruzione.
Se i computer vincono le partite di scacchi contro giocatori professionisti perché non si potrebbero, ad esempio, rilasciare in modo automatico le patenti di guida (a seguito della prova pratica) oppure il passaporto? Quando esiste una situazione standardizzata la PA ha già valutato ciò che rileva e quindi l’algoritmo è assolutamente in grado di prendere in esame la situazione con i dati di ingresso ed emettere la decisione. Nessun danno per l’interesse pubblico e assoluto vantaggio per il cittadino: forse non per chi può scambiare il proprio potere, anche solo di gestione dei tempi, con altre e diverse utilità.
Il secondo nodo è quello dell’organizzazione. L’estrema e patologica frammentazione dei soggetti pubblici in Italia ha creato la parallela moltiplicazione dei sistemi informatici, rendendo vano ogni tentativo di razionalizzazione e di coordinamento. Ogni Ministero, ogni Regione, ogni ente locale, ogni ufficio, piccolo o grande, si è informatizzato per conto suo. Impera, in sostanza, questo slogan: “il dato è mio e lo gestisco io”. I sistemi si parlano poco ed il cittadino è costretto a moltiplicare le modalità di interazione (quanti PIN abbiamo!) e la fornitura di dati. Nessuna norma è stata violata in questi anni più di quella che fa divieto alle pubbliche amministrazioni di richiedere informazioni già in loro possesso o acquisibili d’ufficio. Eppure il coordinamento informatico e l’interoperabilità dei sistemi è sempre stata una missione via via affidata ad organismi a ciò dedicati, a partire dall’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione, istituita nel 1993, fino ad arrivare all’attuale Agenzia per l’Italia Digitale. Il punto è che nessun livello di governo vuole cedere potere informatico e che, di conseguenza, questi uffici di coordinamento si devono limitare, gioco forza, ad accompagnare i processi ma non li determinano né li guidano efficacemente.
Il terzo nodo è quello dei dati pubblici e del loro regime di utilizzo: la materia prima dell’informatizzazione sono i dati e il fornitore principale è lo Stato che, a vario titolo, ha tutte le informazioni dei cittadini e delle imprese, dalla culla alla tomba. Informazioni commerciali, informazioni personali, informazioni immobiliari: un vero giacimento dell’economia dell’informazione. Spesso si parla di “valorizzazione” di questo patrimonio, una prospettiva che se mal indirizzata può operare in antitesi e contrapposizione con il mercato che esiste a valle delle banche dati pubbliche.
In Italia abbiamo recepito in ritardo la direttiva comunitaria sul riutilizzo a fini commerciali dei dati pubblici (Direttiva 2003/98/CE). Sui dati immobiliari si è poi svolta una vera e propria guerra che è durata oltre dieci anni tra l’Agenzia del Territorio, che voleva estendere il proprio potere di controllo, e le imprese del settore, che invocavano il più aperto e favorevole regime europeo. Fortunatamente, per l’opera convergente della Corte di Cassazione, dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e della stessa Commissione Europea, le imprese hanno avuto la meglio. L’Agenzia del Territorio è stata incorporata in quella delle Entrate ed il fisco si accontenta di avere in pancia le informazioni a proprio uso e consumo e lascia al mercato i servizi a valore aggiunto.
Una scossa alle politiche digitali: ecco come
Se accettiamo fino in fondo l’imposizione comunitaria i dati pubblici sono di tutti e possono costituire una materia prima importante per la creazione di nuovi prodotti e nuove imprese. L’ente pubblico dovrebbe fornire, a condizioni tariffarie eque e non discriminatorie, i dati grezzi a quelle di pubblica utilità, lasciando al mercato concorrenziale la fornitura dei servizi a valore aggiunto. Si tratta di una linea di demarcazione chiara e condivisibile, ma che non trova sempre consenso ed adesione da parte dei vari Governi. Un esempio è rappresentato dalla recente istituzione presso il registro delle imprese di un nuovo registro dei “titolari effettivi”, voluto, sempre a livello di Unione Europea (Direttiva 849/2015), per il contrasto all’economia criminale e al riciclaggio. Mentre il regime dell’accesso alle informazioni sulla titolarità effettiva stabilito in ambito europeo dovrebbe rappresentare un livello minimo di trasparenza, non derogabile “al ribasso” dai singoli Stati (“a tal fine gli Stati membri dovrebbero consentire ai sensi del diritto nazionale, un accesso più ampio di quello stabilito dalla presente direttiva” – Considerando n.15), da noi, in sede di attuazione, si è previsto un registro “riservato”, con presupposti di accesso ben più restrittivi di quelli indicati dalla Direttiva stessa.
Se si vuole quindi dare una vera sterzata allo stato pietoso della digitalizzazione della PA in Italia occorrono azioni convergenti su tutti questi tre nodi: automazione delle decisioni amministrative, riduzione ed integrazione forzata dei sistemi informatici – ad iniziare dall’unificazione di quelli che si occupano dell’identità delle persone (anagrafe fiscale ed anagrafe della popolazione) – e libero accesso ai dati pubblici. Altrimenti tra altri trent’anni qualcuno si farà ancora la stessa domanda: perché la tecnologia migliora tutte le organizzazioni tranne quelle pubbliche?