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Politiche digitali ad hoc per i piccoli Comuni o sarà sempre flop: ecco come

Le attuali politiche, pensate e modellate in funzione delle grandi strutture statali o regionali, non tengono conto dei piccoli Comuni, spesso additati come colpevoli dei ritardi nella trasformazione digitale. Abbandonare l’approccio centralista è quindi essenziale per completare la digitalizzazione della PA. Vediamo come

Pubblicato il 01 Feb 2019

Sergio Sette

consulente informatico e digital trasformation

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La digitalizzazione della PA, specie quella locale, continuerà a fallire finché si farà l’errore di tentare di omologare i tanti enti, molto differenti tra loro, all’interno di una limitata quanto limitante visione centralista. Finché non si capirà che ciascun ente richiede strategie e politiche pensate ad hoc.

Un assunto che, però, continua a essere pressoché ignorato: lo dimostra l’impostazione data alle politiche di digitalizzazione fin qui concepite e che non sono state affatto tarate alla realtà del territorio italiano che, così come certifica anche l’Istat è caratterizzato da una netta prevalenza di piccoli Comuni. Quelli con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti sono circa il 70%, anche se rappresentano solo poco più del 16% della popolazione italiana. Vi sono regioni come la Valle d’Aosta dove questi sono la quasi totalità (98%) ed altre, come Piemonte, Molise e Trentino-Alto Adige dove si supera l’85%. Se si amplia la statistica ai Comuni con meno di 60.000 abitanti, in sostanza escludendo i soli capoluoghi di provincia, si scopre che questi sono oltre il 98% del totale, rappresentando il 69% (oltre i 2/3) della popolazione nazionale.

I comuni vero snodo del rapporto cittadini-PA

È più che evidente quindi che qualsiasi politica o strategia che debba essere applicata al territorio nazionale non possa ignorare questo stato di fatto, specie poi se si tratta di politiche che vanno a definire o implementare i servizi erogati ai cittadini dalle pubbliche amministrazioni perché, e la cosa è lapalissiana quanto innegabile, i Comuni rappresentano il vero sportello primario per cittadini ed imprese verso la PA, non solo locale. Oggi, con l’abolizione delle Province, unici enti territoriali davvero vicini alla popolazione.

A tal proposito non può non venire in mente il processo di digitalizzazione della PA. Processo che vede i Comuni fra gli attori primari proprio per il loro ruolo di punto di contatto primario. Le politiche finora messe in atto, il Codice dell’Amministrazione Digitale in primis, il Piano Triennale, le cosiddette Infrastrutture abilitanti ed in generale la strategia di base per raggiungere questo obiettivo, hanno davvero tenuto conto di queste realtà? Sono tarati per essere alla loro portata? Allineati alle loro reali esigenze ed obiettivi? Alla loro strutturazione ed organizzazione?

La risposta a questa domanda è semplice e non richiede né analisi approfondite né dotte disquisizioni perché è un lampante no. A parte i principi generali contenuti nel CAD (cittadinanza digitale, diritto all’utilizzo delle tecnologie informatiche, efficientamento dell’azione amministrativa) tutto il resto è chiaramente pensato e modellato in funzione delle grandi strutture Statali o Regionali/Città Metropolitane, le uniche, in teoria, e il condizionale qui è davvero d’obbligo, in grado di sostenere una simile strategia.

Strategie digitali insostenibili per i piccoli comuni

Per convincersene è sufficiente pensare a come è stata pensata dal legislatore la struttura che dovrebbe gestire la trasformazione digitale di un Ente: un’intera struttura organizzativa dedicata, con a capo un dirigente iper-specializzato, il Responsabile della Transizione al Digitale, dotato quasi di capacità divinatorie e taumaturgiche, coadiuvato da un team composto da altri super esperti di dominio come il Responsabile della Gestione Documentale, il Responsabile della Conservazione e quello dei Sistemi Informativi, che assieme pianificano, gestiscono, scrivono i manuali, ristrutturano i processi, supportano strutture tecnologiche altamente interoperabili.

Oppure pensare alla complicazione non solo della norma (utile sarebbe confrontarla con quella di altri paesi “evoluti” come la Germania) ma anche delle soluzioni tecnologiche a supporto del digitale.

Vedere declinata questa strategia a livello di un piccolo Comune è a dir poco imbarazzante: un Segretario Comunale insignito di tutte le cariche dovrebbe essere in grado di raggiungere gli obiettivi di efficientamento e implementare servizi online di qualità. Con l’aiuto di qualche sparuto dipendente e risorse ridicole. Già per un Comune di qualche decina di migliaia di abitanti è qualcosa di assolutamente impensabile.

Senza chiedersi se poi queste, per Enti di questo tipo, siano davvero le reali priorità.

Sui limiti dell’approccio al digitale nella PA italiana si è già scritto molto e non aggiungerò altro, mi limito ad osservare la totale assenza di una strategia mirata alle realtà locali, figlia a sua volta di una visione della PA come un unico soggetto uniforme, in cui i piccoli enti sono percepiti come delle semplici succursali dello Stato.

Visione molto limitata e comunque non conforme a quella che è la reale organizzazione dello Stato dettata, piaccia o meno, dal Titolo V della Costituzione. Tante PA, ognuna con obiettivi, funzioni, dimensioni ed organizzazione differenti, dotate di piena autonomia gestionale ed organizzativa in ossequio al principio di sussidiarietà.

Una visione ancora troppo centralista delle politiche digitali

Ma l’aspetto forse peggiore di tale approccio è che invece di evidenziare l’inadeguatezza e l’insostenibilità del modello per queste realtà, e agendo di conseguenza ad esempio diversificando opportunamente le strategie e supportandole attraverso le modalità indicate dal succitato principio di sussidiarietà (il grande aiuta il piccolo mettendo a disposizione, non imponendole ma concordandole nel rispetto dell’autonomia di quest’ultimo, infrastrutture, risorse e strumenti utili al perseguimento dei fini istituzionali) in questi ultimi anni si sono invece invertiti causa ed effetto puntando l’indice sui piccoli Comuni considerati inabili, inadeguati ed incapaci di sostenere “IL” digitale.

Per poi usare questa argomentazione come grimaldello per introdurre un modello ancora più centralista, che ha il suo perno nel pur per molti versi buon Piano Triennale per l’Informatica voluto da Piacentini e fortemente sostenuto anche dal suo successore Attias, che in nome della standardizzazione, della razionalizzazione della spesa e delle risorse e del (discutibilissimo, visti i risultati) primato dello Stato, impone a tutti di adottare infrastrutture, strumenti e strategie andando di fatto ad azzerare l’autonomia organizzativa e gestionale non solo dei piccolissimi, ma anche dei comuni medio grandi. Certo un gran bel modo di intendere la sussidiarietà!

Modello che è certamente destinato a fallire in primo luogo per manifesta incapacità di chi dovrebbe fornire queste infrastrutture a farlo in modo efficace e con tempi compatibili, in secondo luogo perché non introduce strategie ad hoc per le realtà locali limitandosi ad imporre un modello unico e tarato su ben altri parametri. Con effetti collaterali funesti, specie per quelle realtà, e sono tante, che nel frattempo si erano organizzate al meglio, a volte rappresentando vere eccellenze.

Il caso della fibra ottica a Bolzano

D’altronde non sono solo il CAD o il Piano Triennale ad essere intrisi di questa visione centralista. Un esempio emblematico e certamente degno di nota è il caso della fibra ottica posata dal Comune di Bolzano.

Il Comune di Bolzano in anni in cui ancora la fibra era concetto sconosciuto ai più, decise di sfruttare il fatto di dover manutenere le proprie strade per posare non appena fosse possibile la fibra ottica. Lo fece con tanto di autorizzazione ministeriale per operare, come dice la legge, “su proprio fondo”. Utilizzò questa fibra in due modi: la offrì in affitto ai gestori di telecomunicazioni e la utilizzò per creare una rete privata per connettere gli edifici comunali. Ciò portò vantaggio a tutti, gestori compresi. E permise al Comune di creare un’infrastruttura IT all’avanguardia creando un unico datacenter quando quasi tutti erano ancora infarciti di server dipartimentali nei diversi edifici (ironia della sorte, Datacenter che stando al Piano Triennale dovrebbe essere dismesso…) ed abbattendo a quasi zero i costi per le tlc.

Successe che anni dopo il MISE stesso, tramite la Polizia Postale, interpretando in modo “zelante” la norma, sanzionò il Comune per uso non autorizzato della rete privata (che ricordiamo è non soggetta ad autorizzazione se effettuata su proprio fondo, e le strade comunali sono di proprietà del Comune che ne deve pure curare la manutenzione) chiedendo anche il versamento di 10 anni di arretrati. Finì in Consiglio di Stato visto che il TAR diede ragione al Comune e il MISE non si rassegnò, dove con una sentenza a dir poco strabiliante la spuntò quest’ultimo.

Da notare che la stessa legge, il Codice delle Telecomunicazioni, nota anche come “Legge Gasparri”, consente proprio allo Stato, ma non alle Amministrazioni Locali, di posare liberamente infrastrutture.

Cosa serve per completare la digitalizzazione della PA locale

Per portare a buon fine il percorso di digitalizzazione della PA, specie quella locale servono, dunque, a mio avviso, strategie e politiche pensate ad hoc. Così come sono convinto che ciò richieda un approccio opposto a quello centralista, un approccio di tipo collaborativo, capace di coinvolgere tutte le parti, in maggiore armonia sia con il dettato Costituzionale, sia con quella che è la natura propria della tecnologia che si intende sfruttare e che l’ha resa vincente. Internet e il suo ecosistema devono infatti il loro successo proprio al modello distribuito sorretto da standard aperti, e anche altre tecnologie emergenti, come ad esempio blockchain, poggiano la loro forza proprio sulla mancanza di un “centro”.

Le realtà locali, spina dorsale del nostro sistema, vanno conosciute e soprattutto ascoltate. Ad oggi sono di fatto prive di reale rappresentanza visto che le due strutture che dovrebbero implementare l’Agenda Digitale, Agid ed il Team Digitale, hanno ai loro vertici due ex dirigenti di strutture Statali privi forse della necessaria sensibilità all’argomento (come dimenticare la facile ironia che proprio Attias usò contro la “surreale carica dei 12.000 RTD”).

Introdurvi degli uffici appositamente dedicati ai rapporti con le piccole PAL, in mano a persone dotate di approfondita conoscenza delle realtà locali, potrebbe essere un primo promettente inizio.

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