Sembra incredibile ma c’è un ambito del web, tradizionale, dove le norme sono puntualmente violate e i diritti dei più deboli ignorati: quello dell’accessibilità.
Accessibilità dei siti: perché troppe aziende e PA ignorano la legge e i diritti dei disabili
E a questo proposito, occorre da subito sgomberare il campo da un errore ricorrente che porta a ritenere che rendere un sito o una applicazione accessibile sia solo una scelta etica quando invece corrisponde ad un preciso obbligo di legge.
Un obbligo sancito a livello nazionale rispetto ai siti web ed alle applicazioni e poi ribadito a livello europeo in ordine a prodotti e servizi web.
Quel diritto all’accessibilità negato ai disabili
Al momento, dunque, è inibito il diritto dei diritti, ossia quello all’accesso a servizi – necessari o voluttuari – offerti attraverso piattaforme ed applicazioni web. Questo, nell’era della digitalizzazione, equivale a dire la quasi totalità dell’offerta del mercato e dei servizi essenziali.
Ancora una volta occorre uno sforzo di realismo utile a cogliere come dalle grandi ambizioni di innovazione siano rimaste fuori le storie dell’umana quotidianità fatta di soggetti non digitalizzati.
Soggetti talora non connessi o, peggio, non dotati di tutte quelle abilità necessarie poiché affetti da disabilità.
Disabilità che, come accade nel caso di quelle che affliggono la vista, nella loro molteplicità di forme trasformano il grande varco della tecnologia in una porta sbarrata che priva della autonomia presupposto delle esperienze più scontate: effettuare un bonifico, acquistare on-line, pagare una bolletta, fare la spesa.
Ciò a maggior ragione nelle fasce di adulti ove l’incidenza delle disabilità legate alla vista è incidente ed aggravata dalla mancata acquisizione di tecniche alternative di lettura ed una scarsa abilità digitale.
Più semplicemente, un adulto divenuto (e non nato) non vedente non riesce ad avvalersi dei benefici inclusivi e facilitativi della tecnologia e non ha acquisito una serie di competenze specifiche legate alla sua disabilità (si pensi alla capacità di leggere in brail).
E ciò che sorprende è l’incoerenza di un sistema che declina il valore della trasparenza in ogni testo normativo imponendo obblighi idonei ad assicurare un’esperienza d’uso o consumo consapevolmente informata.
Che sia il GDPR o il Codice al Consumo o il TUB, ancor prima, il Codice civile, quella preoccupazione per l’informazione e la comprensibilità, buca fonti di ogni rango e tipo normativo perché geneticamente sfornite della condizione di partenza: l’usabilità.
Cosa prevede la legge (ma è puntualmente disatteso nei fatti)
Il 5 novembre 2022 è la data entro la quale i soggetti interessati dalla normativa sarebbero chiamati ad adeguarsi alle disposizioni della cosiddetta Legge Stanca.
Il 28 giugno 2025 sarà il termine per adeguarsi alla normativa italiana che applica la direttiva UE in ordine ai nuovi prodotti immessi sul mercato.
Ciò dovrebbe significare precise verifiche di conformità ed adeguate e tempestive iniziative, per chi ricopre il ruolo di Consulente legale, Responsabile della Compliance (o una funzione ad essa assimilabile) o di Responsabile dell’Ufficio Acquisti per conto di uno dei seguenti soggetti (indicati peraltro a titolo esemplificativo e tenendo conto di tutti i soggetti direttamente o indirettamente richiamati dal D.L. 82/22):
- Pubblica Amministrazione;
- Enti pubblici economici;
- Aziende private concessionarie di servizi;
- Aziende municipalizzate regionali;
- Enti di assistenza e riabilitazione pubblici;
- Aziende di trasporto e di telecomunicazione a prevalente partecipazione di capitale pubblico;
- Aziende appaltatrici di servizi informatici;
- Organismi di diritto pubblico;
- Soggetti che usufruiscono di contributi pubblici o agevolazioni dei servizi tramite sistemi informativi o internet;
- Soggetti giuridici che offrono servizi al pubblico attraverso siti web o applicazioni mobili con un fatturato medio, negli ultimi tre anni di attività, superiore a cinquecento milioni di euro.
Un punto di partenza: l’art.1 della Legge n. 4/2004
“La Repubblica riconosce e tutela il diritto di ogni persona ad accedere a tutte le fonti di informazione e ai relativi servizi, ivi compresi quelli che si articolano attraverso gli strumenti informatici e telematici.
È tutelato e garantito, in particolare, il diritto di accesso ai servizi informatici e telematici della pubblica amministrazione (nonché alle strutture ed ai servizi aperti o forniti al pubblico attraverso i nuovi sistemi e le tecnologie di informazione comunicazione in rete) e ai servizi di pubblica utilità da parte delle persone con disabilità, in ottemperanza al principio di uguaglianza ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione”.
Questo, l’incipit della Legge n. 4 del 9 gennaio 2004 che introduce, nel nostro ordinamento, dei principi che vorremmo poter dire “innovativi per il tempo in cui sono stati stabiliti” ma che purtroppo la prassi ci restituisce tutt’ora (questi si) innovativi e per lo più disattesi.
Nonostante siano assurti al rango di norma di Legge.
Quali siano questi princìpi, è presto detto, se si parte dalla definizione di “accessibilità” che la Legge Stanca prende in considerazione e, cioè: “la capacità dei sistemi informatici ivi inclusi i siti web e le applicazioni mobili, nelle forme e nei limiti consentiti dalle conoscenze tecnologiche, di erogare servizi e fornire informazioni fruibili, senza discriminazioni, anche da parte di coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie assistive o configurazioni particolari”.
Da questa base, è quindi necessario garantire:
a) accessibilità al contenuto del servizio da parte dell’utente;
b) fruibilità delle informazioni offerte.
Anche il concetto di fruibilità è ben delineato dalla norma di legge, che richiede:
1) facilità e semplicità d’uso, assicurando, fra l’altro, che le azioni da compiere per ottenere servizi e informazioni siano sempre uniformi tra loro;
2) efficienza nell’uso, assicurando, fra l’altro, la separazione tra contenuto, presentazione e modalità di funzionamento delle interfacce, nonché’ la possibilità di rendere disponibile l’informazione attraverso differenti canali sensoriali;
3) efficacia nell’uso e rispondenza alle esigenze dell’utente, assicurando, fra l’altro, che le azioni da compiere per ottenere in modo corretto servizi e informazioni siano indipendenti dal dispositivo utilizzato per l’accesso;
4) soddisfazione nell’uso, assicurando, fra l’altro, l’accesso al servizio e all’informazione senza ingiustificati disagi o vincoli per l’utente.
Garantire i diritti di tutti
La questione è: garantire a chi? La risposta è semplice: a chiunque, anche, anzi soprattutto, a chi è portatore di una disabilità.
La normativa impatta anche sugli uffici acquisti, come si comprende bene leggendone l’articolo 4, che prevede che i requisiti di accessibilità siano considerati necessari nelle procedure di acquisto al punto da incorrere in serissime conseguenze.
Per maggiore chiarezza si riporta direttamente l’intero comma 2, che bene aiuta a comprendere la portata della disciplina: “i soggetti di cui all’articolo 3, commi 1 e 1-bis, non possono stipulare, a pena di nullità, contratti per la realizzazione e la modifica di siti web e applicazioni mobili quando non è previsto che essi rispettino i requisiti di accessibilità stabiliti dalle linee guida di cui all’articolo 11, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 3-ter. I contratti in essere alla data di pubblicazione delle linee guida di cui all’articolo 11, in caso di rinnovo, modifica o novazione, sono adeguati, a pena di nullità, alle disposizioni della presente legge circa il rispetto dei requisiti di accessibilità, con l’obiettivo di realizzare tale adeguamento entro dodici mesi dalla medesima data di adozione delle predette linee guida”.
Le conseguenze per chi non è in regola
Quali conseguenze, dunque, se non si è in regola?
La norma chiarisce anche questo, ed oltre alle sanzioni amministrative e alle questioni di validità, aggiunge che:
‘L’inosservanza delle disposizioni della presente legge (da parte dei soggetti di cui all’articolo 3, comma 1) è rilevante ai fini della misurazione e della valutazione della performance individuale dei dirigenti responsabili e comporta responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare ai sensi degli articoli 21 e 55 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ferme restando le eventuali responsabilità penali e civili previste dalle norme vigenti.’
Il sistema agevola il processo di conformità tanto è che sul sito di AGID si trovano indicazioni utili a mettersi in regola con i parametri normativi e dunque contribuire ad allinearsi a quello che dovrebbe essere un universale habitat accessibile, fruibile, usabile.
Linee guida AgID per l’accessibilità dei siti web: i nuovi obblighi per le grandi aziende
Aderire alla legge in modo sostanziale, non solo formale
Ma qui sopravviene un ulteriore aspetto, a nostro parere essenziale: la conformità normativa non può e non deve essere affrontata in modo formalistico.
Occorre una adesione sostanziale.
Non può bastare la compilazione e l’invio di una dichiarazione di accessibilità o l’inserimento di clausole contrattuali variamente denominate o ancora, peggio, l’adesione di policy impersonali e performanti (ma sconosciute all’azienda e non coerenti con il modello organizzativo).
È necessario un approccio concreto e fattivo che, unito ad una diffusione della cultura aziendale dell’accessibilità, ponga al centro dell’attenzione i diritti.
Diritti che, qui, non fanno capo alle categorie ormai tanto care alla riflessione quale quella di consumatore, interessato, cittadino, malato o cliente.
Qui – esattamente come nella disciplina del GDPR – l’epicentro è la persona, a cui l’intero sistema normativo, sin dalle fonti costituzionali, dedica una delle forme più intense di esaltazione e tutela.
Occorre allora, in questo caso più che in tanti altri, fare un esercizio collettivo di autoanalisi e, qualora l’esito confermi un dato invero già assodato, avere il coraggio di “fermare la corsa del bus” per permettere anche a chi sinora non ha avuto la possibilità, di salire insieme agli altri.