Sembra che alle porte ci sia una rivoluzione per la pubblica amministrazione. Non parliamo della recente riforma Madia, ovvero la Legge 124/2015 recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” o del FOIA, il Freedom of Information Act approvato lo scorso 17 maggio dal Consiglio dei Ministri che disciplina i rapporti tra PA e cittadini in un’ottica di maggiore trasparenza, ma di un passaggio più delicato rimasto nell’ambito di discussione degli addetti ai lavori. L’ingresso ufficiale del digitale nel processo amministrativo: la data di non ritorno è fissata al 1 luglio 2016.
Un passaggio delicato perché alla giustizia amministrativa, come tutti sanno, si fa ricorso quando si è convinti di essere vittime di un errore o peggio un sopruso da parte di un soggetto pubblico. Forte è la valenza sociale del giudice amministrativo, chiamato a decidere della legittimità o meno dell’azione amministrativa nei confronti di cittadini e imprese.
E qui ci muoviamo nell’assoluta novità, rispetto a tutte le altre esperienze di informatizzazione processuale, visto che si prevede l’integrale digitalizzazione del giudizio, a partire dal suo primo incardinarsi. Il fascicolo processuale d’ufficio sarà solo ed esclusivamente informatico. Un obbligo che non cade solo su difensori o studi legali, ma anche sui Giudici, che dovranno redigere i provvedimenti esclusivamente in modalità telematica per essere, non appena sottoscritti digitalmente, pubblicati ed accessibili alle parti in causa all’interno del proprio fascicolo elettronico. Le parti, previa richiesta delle credenziali di accesso, potranno accedere in qualsiasi momento e luogo al proprio fascicolo.
Per capire la valenza del passaggio del processo amministrativo al digitale, così come è stato definito dal D.L. n.210 del 30 dicembre 2015 e dal DPCM 16 febbraio 2016, n.40, è necessario fare il quadro della situazione. Questo è presto fatto, grazie alle statistiche del Consiglio di Stato. Alla fine del 2015 i ricorsi pendenti davanti al TAR erano più di 260.000. Il numero raccoglie sia l’arretrato che i tribunali regionali e il Consiglio di Stato non sono riusciti a smaltire, sia i nuovi ricorsi proposti: più di 70.000 solo nel 2015. I problemi di organico della magistratura, inoltre, hanno portato a un leggero calo dei ricorsi definiti dai Tribunali amministrativi e dal Consiglio di Stato: da 109.478 del 2014 a 97.198 del 2015, pari all’11,22%.
Un percentuale quest’ultima ancora troppo bassa a cui il PAT promette di dare una sferzata. Così il parere (gennaio 2016) del Consiglio di Stato: “ […] la strumentazione informatica può contribuire ad assicurare la snellezza e l’effettività della tutela nonché ragionevole durata del processo e la standardizzazione delle procedure, con conseguente incremento della trasparenza e riduzione dei costi delle medesime”.
Sembrano accorciarsi le distanze tra il giudice e gli utenti. Ma è proprio così? Non è tutto bene quel che finisce bene, perché la più importante innovazione inizialmente prevista dall’impianto normativo alla fine appare disattesa. Parliamo del caricamento diretto degli atti. Il comune upload a cui la rete ci ha ormai abituati, previsto in una prima fase come modalità unica di deposito, ha lasciato il posto alla “solita” PEC. Per timore di una sua non-sostenibilità, il ricorso all’upload è stato fortemente limitato a casi eccezionali, quali eccessive dimensioni del deposito (superiori ai 30 MB) o disservizi imputabili al GA. Un peccato, perché questo forse avrebbe potuto fare la differenza; lasciamo quindi gli avvocati ancora alle prese con moduli, trasformazione di documenti cartacei in PDF e scansioni, anche se riservate ora solo ai documenti allegati all’atto processuale.
Un’ulteriore critica che si registra da parte degli addetti ai lavori è l’infrastruttura ad hoc creata. Il PAT, pur mutuando più di qualcosa dal processo civile telematico, non ne ricalca la struttura e le metodiche, ma se ne discosta: l’infrastruttura informatica del PAT sarà decisamente differente e altra da quella che sostiene il PCT. Nasce infatti il “SIGA” (acronimo per “Sistema Informativo della Giustizia Amministrativa”), definito come “l’insieme delle risorse hardware e software, mediante le quali la giustizia amministrativa tratta in via automatizzata attività, dati, servizi, comunicazioni e procedure relative allo svolgimento dell’attività processuale”.
Inoltre le regole tecniche non prevedono allo stato attuale l’interoperabilità con eventuali piattaforme adottate dalle singole amministrazioni.
E’ la scelta giusta considerando la poca confidenza, ormai nota, per i professionisti del diritto verso le nuove tecnologie? Mentre gli avvocati non hanno nascosto la quotidiana difficoltà di approcciarsi ai sistemi informatici, fin dalla nascita del processo civile telematico, solo il 20% dei giudici fa ammenda e prende parte a incontri di formazione. Sicuramente la dotazione hardware degli uffici giudiziari non si fa amare, ma sono pochini se di pensa che l’obiettivo è raggiungere almeno il 50% di partecipazione ai corsi di aggiornamento professionale entro il 2020.
Alla mancanza di competenze digitali si aggiunge una carenza di risorse finanziarie e umane, come ha dichiarato il magistrato Enrico Consolandi: “La crescita tecnologica non ha bisogno di personale “imprestato”, avventizio o non qualificato, bensì di tecnici professionali e preparati che sappiano progettare e gestire l’informatica, i relativi problemi ed acquisti, senza di che anche i cresciuti investimenti rischiano di andare sprecati”.
Come tutti i grandi cambiamenti che intervengono in un ambito dagli ingranaggi consolidati, anche il PAT ha bisogno di tempo per farsi apprezzare, ma soprattutto per valutare i propri impatti ed eventualmente ripensarsi nel modo più efficiente possibile.