La disciplina sul processo civile telematico, stratificatasi sin dal 2001 (DPR 13 febbraio 2001 n.123), ha delineato un quadro normativo a tutt’oggi confuso e lacunoso, viziato ab origine dall’idea di poter digitalizzare il processo rattoppando qua e là il Codice di procedura civile (tuttavia pensato – ovviamente – per atti, documenti, copie, depositi, comunicazioni e sottoscrizioni su carta).
In effetti, il PCT oggi risulta:
– ancora rigido e poco “usabile” da chi non ha consuetudine con i mezzi informatici;
– strutturato su un sistema informativo (e non su un sistema documentale);
– basato essenzialmente sulla PEC, che costituisce uno strumento articolato e poco flessibile, piuttosto che – ad esempio – sul semplice upload dei file contenenti atti e documenti da depositare, previa autenticazione del soggetto, e sul rilascio allo stesso della ricevuta di avvenuto caricamento del file da parte del sistema[1];
– non idoneo a garantire la verifica dell’autenticità dei documenti immessi nel fascicolo informatico (si dovrebbe rendere quanto meno obbligatorio il sigillo elettronico di provenienza, previsto dal Regolamento 910/2014/UE, magari proprio a cura del cancelliere, anche alla luce del potere di estrazione di copia conferito agli avvocati);
– non garantito da un sistema di conservazione a norma.
Al contrario di altri ambiti, dunque, dove si è già provveduto a un adeguamento per assicurare la conformità alle norme sulla conservazione[2], ad oggi non risulta che qualcuno si stia occupando della conservazione a norma degli atti processuali digitali e dei fascicoli processuali informatici del PCT. In effetti, non è dato sapere nemmeno se il Ministero della Giustizia abbia già provveduto ad istituire archivi digitali centralizzati a disposizione di Tribunali e Corti e abbia nominato un Responsabile della conservazione (figura espressamente prevista dall’art. 44 del CAD) per il PCT.
Sul punto, in base a quanto stabilito dalla normativa primaria dettata dal CAD e dalle Regole tecniche ivi richiamate è evidente che i documenti non consolidati e i fascicoli non opportunamente conservati non sono validi e rappresentano una evidente inosservanza anche di norme europee e di standard internazionali[3].
Ignorare queste disposizioni espone dunque a un grave rischio di nullità gli atti processuali e i fascicoli processuali informatici, ai quali potrebbe non essere riconosciuto il valore probatorio proprio degli atti di tale natura, mettendo evidentemente a repentaglio la certezza del diritto in ambito processuale.
In effetti, la disciplina del Processo Civile Telematico – lungi dall’essere “autosufficiente” – risulta del tutto carente di specifiche disposizioni sulle modalità di conservazione a norma dei documenti informatici notificati e depositati telematicamente[4], a norma degli artt. 43 e ss. del D.Lgs. n. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione digitale) e delle regole tecniche ivi richiamate, di cui al DPCM 3 dicembre 2013: le norme sul PCT si limitano, appunto, ad affermare che la tenuta e la conservazione del fascicolo informatico equivalgono alla tenuta e alla conservazione del fascicolo d’ufficio su supporto cartaceo, operando un generico rinvio all’art. 41 del Codice dell’Amministrazione digitale[5].
Ci si chiede, dunque: nell’ambito del processo telematico, chi si sta occupando della conservazione a norma degli atti processuali digitali e dei fascicoli processuali informatici? Il Ministero della Giustizia ha istituito archivi digitali centralizzati a disposizione di Tribunali e Corti? Ha nominato un Responsabile della conservazione (figura espressamente prevista dall’art. 44 del CAD) per il PCT? Ed è opportuno che sia eventualmente nominato un solo Responsabile oppure sarebbe più opportuno che ogni Tribunale ne individuasse uno al suo interno? Su questi punti non si può che riscontrare un pericoloso, incredibile ritardo.
In ogni caso, lo scarso interesse verso queste importanti tematiche relative alla formazione, gestione e conservazione del documento informatico e delle sue firme è purtroppo innegabile ed è invece auspicabile che si possano attivare anche per la categoria forense corsi specifici di formazione sul diritto dell’informatica, in quanto le tematiche del PCT e del documento informatico sono troppo stesso trattate da formazione di scarso rilievo portata avanti dai fornitori IT che sviluppano questi servizi, piuttosto che da specialisti della materia (salvo valide eccezioni, ovviamente).
[1] Ciò avrebbe consentito di evitare il rischio concreto che non sia possibile depositare molti documenti nel nuovo processo telematico, come ad esempio le immagini diagnostiche ad alta risoluzione o un video in HD che superino il limite di 30 magabyte della busta telematica previsto dal comma 3 dell’art. 14 del Provvedimento del 16 aprile 2014 del Ministero della Giustizia.
[2] Si pensi, ad esempio, agli atti notarili digitali, per i quali i Notai hanno a disposizione un sistema di conservazione (a cui ha pensato il Consiglio Nazionale di appartenenza).
[3] In argomento, poi, non si può trascurare che anche il Regolamento (UE) n. 910/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 luglio 2014 in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno (che abroga la direttiva 1999/93/CE) definisce il documento elettronico come qualsiasi contenuto adeguatamente conservato in forma elettronica.
[4] Sia nel Decreto del Ministero della Giustizia del 21 febbraio 2011 n. 44 (recante le regole tecniche per l’adozione del processo telematico), sia nel D.L. n. 179/2012, sia nel provvedimento dello stesso Ministero della Giustizia emanato in data 16 aprile 2014, nonché nel recente D.L. n. 90/2014.
[5] Si vedano, in particolare, l’art. 9 del D.M. n. 44/2011 e l’art. 11 del Provvedimento 16 aprile 2014 del Ministero della Giustizia.