le misure

Reddito di cittadinanza, vantaggi e problemi della soluzione italiana

Forme di sostegno alle fasce più deboli della popolazione esistono in tutti i Paesi europei tranne Italia e Grecia. Sempre più necessarie in un’era digitale di crescenti diseguaglianze. La proposta di reddito di cittadinanza introdotta dal Governo ha qualche merito a riguardo, ma anche vari problemi. Eccoli e le soluzioni

Pubblicato il 15 Gen 2019

Fabio Giovagnoli

Laboratorio di Economia dell’Innovazione (L.E.I. “Keith Pavitt”), PIN-UNIFI

Mauro Lombardi

Scienze per l’Economia e l’Impresa, Università di Firenze

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Con l’introduzione del reddito di cittadinanza nella Legge di Bilancio 2019, al Governo va il merito di aver portato al centro della discussione tematiche già dibattute e affrontate in quasi tutto il resto del mondo – dagli squilibri (acuiti nell’era digitale) tra reddito e ricchezza alla condizione di povertà assoluta e relativa che riguarda sempre più persone.

La proposta contenuta nella bozza di d1ecreto legge su Reddito di cittadinanza e Quota 100 (quindi ancora non nella sua forma definitiva) fa emergere però anche tutte le contraddizioni tipiche del nostro Paese. Abbiamo già visto in generale cos’è e come funziona il reddito di cittadinanza. Vediamo quindi in questo articolo vantaggi e problemi della soluzione italiana del reddito di cittadinanza.

I due problemi principali

La questione più controversa riguarda l’affidamento della gestione di uno strumento tanto importante per il contrasto a “povertà, disuguaglianza e esclusione sociale” ai centri per l’impiego – mai veramente decollati fin dalla loro introduzione – e non, come logica vorrebbe, alle amministrazioni locali.

Ma non si può non fare riferimento anche alla necessità di misure concrete di rilancio dell’occupazione: bisogna, insomma, creare lavoro e poi mettere a punto una riforma che trasformi i centri dell’impiego in strumenti di attuazione delle politiche del lavoro e della sua qualificazione, fondati sul principio di integrazione tra le politiche e le strategie di crescita elaborate da una molteplicità di soggetti (Imprese pubbliche e private, Centri di Ricerca Università) e funzioni quali la formazione, l’orientamento, il sostegno nelle fasi di non lavoro, la riqualificazione e l’outplacement nel caso di crisi aziendali.

Partiamo allora dall’approccio scelto da altri Paesi che già hanno fatto ricorso a forme di reddito universale di base o di reddito minimo garantito e vediamo quali potrebbero essere le soluzioni  per rilanciare il mercato del lavoro e poi per permettere ai centri per l’impiego di svolgere al meglio il ruolo cruciale che verrebbe loro affidato con l’avvio del reddito di cittadinanza.

Perché l’economia sempre più richiede una forma di reddito garantito

Va innanzitutto sottolineato l’indiscutibile merito di aver messo al centro del dibattito politico-istituzionale italiano temi centrali per tutti i Paesi del mondo:

  • le asimmetrie di reddito e ricchezza cresciute dappertutto, seppur con differente intensità: gli Usa sono la realtà dove il fenomeno è più accentuato, i Paesi del Nord Europa sono quelli dove lo è meno.
  • La percentuale di popolazione in condizioni di povertà assoluta e relativa è parallelamente in continuo aumento a livello mondiale.

Tutto ciò non sorprende se si pensa che la tendenza generale descritta dall’OECD (Employment Outlook, 2018, Cap. 1.2), è la “stagnazione senza precedenti dei salari” anche in Paesi con disoccupazione o in quasi piena occupazione, come gli Usa. Il generale rallentamento delle produttività del lavoro e la creazione di posti di lavoro a bassa retribuzione sono ritenuti importanti fattori causali, nell’ambito sia dei processi di globalizzazione e innovazione tecnologica che della dinamica sintetizzata con l’espressione winner-takes-all.

Merita allora approfondire il tema di come si può affrontare la povertà e l’esclusione in un mondo in profonda trasformazione. Alla luce delle precedenti riflessioni non sorprende che in molte nazioni la questione del sostegno alle fasce più povere della popolazione abbia assunto un rilievo non secondario.

Le diverse forme di reddito universale

Naturalmente le forme possono essere le più diverse, partendo da una dicotomia di base:

  • reddito universale di base incondizionato, attribuito per il solo fatto di essere cittadini. Si è a questo proposito costituita una rete mondiale di economisti (BIEN, Basic Income Earth Network), che nello scorso Agosto ha organizzato un incontro a Tampere (Finlandia), nel corso del quale il relatore dell’ONU sulla povertà (il professore australiano Philip Allston ha sottolineato il nesso tra povertà e diritti umani, nonché la natura multidimensionale della prima: chi vive in condizioni di estrema indigenza non accede a basilari prestazioni sociali: istruzione, servizi sanitari, acqua potabile, servizi igienici di base, ecc. Il basic income incondizionato è presente in Danimarca (820 euro al mese per i cittadini con più di 17 anni, che “non incide sul reddito eventualmente percepito e non comporta la rinuncia agli attuali sussidi previsti dal welfare che eccedano la somma erogata” (Andrea di Stefano, Valori, 28-8-2018). Il costo viene finanziato dall’imposizione fiscale, con aliquote fino al 57,8%, da una carbon tax, insieme alla riduzione della spesa per prestazioni sociali e all’abolizione degli sgravi fiscali. Un esperimento di universal basic income è in corso in Finlandia, ma non verrà ripetuto alla scadenza (fine 2019). Esso prevede l’erogazione di 560 euro mensili ad un campione casuale di persone, senza alcun obbligo di cercare o accettare occupazione e senza interruzione in caso di occupazione.
  • Reddito minimo garantito, ovvero erogazione condizionata all’accertamento sul reddito e sul patrimonio del percettore, con obblighi a seguire processi di formazione e avviamento al lavoro. Il reddito di cittadinanza recentemente approvato in Italia è quindi a tutti gli effetti un reddito minimo garantito, come ha argomentato Chiara Saraceno su Lavoce.info (10-3-2018). Esso è soggetto a condizioni ben precise, ma forse sarebbe più opportuno dire che in questo caso si tratta di un eufemismo, visto che al 7-1-2019 non è ancora nota la versione definitiva, a parte qualche anticipazione su Il Messaggero (31-12-2018) e commenti da parte di autorevoli giornalisti (Feltri, Il fatto, 3-1-2019), che hanno preso visione delle bozze disponibili a quella data.

E’ evidente la stranezza del nostro Paese, nel quale si presenta con un nome non appropriato un’ipotesi tutta da specificare, la quale è poi soggetta ad una serie di revisioni in corso d’opera (si pensi al passaggio da 5 a 10 anni per gli stranieri residenti).

Il reddito minimo garantito in Europa

Comunque sia, il reddito minimo garantito esiste in tutti i Paesi europei tranne Italia e Grecia.

  • In Germania ha una durata illimitata (per tedeschi, europei, rifugiati politici) con un compenso di 400 euro mensili, maggiorato in presenza di figli e connesso alla ricerca attiva di lavoro e alla partecipazione a corsi di formazione professionale (vedi Giannetto et al., Lavoce.info, 6-10-2018).
  • Una forma analoga esiste in Francia, ma è limitata nel tempo (3 mesi rinnovabili) ed è prevista l’erogazione di 400 euro mensili, anche nel caso in cui il percettore trovi un’occupazione remunerata in misura non sufficiente.
  • In Inghilterra il supporto al reddito è concesso a disoccupati e occupati per meno di 16 ore alla settimana con un importo di 228 sterline, aumentate in caso di famiglia a carico. Anche qui si richiede una ricerca attiva di lavoro, con visite periodiche determinate a un Centro per l’impiego.
  • In Danimarca, infine, l’importo dell’assegno condizionato è di 1300 euro al mese, ma questo Paese –com’è noto- si distingue per l’elevata efficacia delle politiche del lavoro e delle strutture operative in questo campo (vedi la famosa flexicurity).

Le contraddizioni della proposta italiana

E’ opportuno mettere innanzitutto in evidenza la contraddizione fra l’ipotesi di uno strumento che dovrebbe sostenere le fasce di povertà assoluta e che, quindi, dovrebbe spettare a tutte quelle persone in quella condizione, indipendentemente dalle situazioni occupazionali, e la sua gestione attraverso i centri per l’impiego, tipici strumenti delle politiche attive del lavoro diretti a favorire l’occupazione e non a coprire i vuoti delle politiche sociali.

Nel caso del reddito di cittadinanza dovrebbero essere a rigor di logica le amministrazioni locali, come i Comuni, a gestire le azioni. I centri per l’impiego dovrebbero invece gestire gli ammortizzatori sociali, gli interventi formativi e di orientamento in corrispondenza con determinate politiche attive del lavoro. La commistione fra centri per l’impiego e reddito di cittadinanza appare pertanto un azzardo e con rischi di irrazionalità sul piano operativo.

Di fondo, c’è da evidenziare che come spesso accade nel nostro Paese, le grandi questioni finiscono per diventare oggetto di dibattiti, la cui ampiezza è inversamente proporzionale alla chiarezza del nucleo essenziale di proposte da cui tutto ha inizio.

Fattori ricorrenti provocano questo stato di cose:

  • le ipotesi di soluzioni a questioni complesse sono presentate dopo inadeguati periodi di riflessione e approfondimento. Di conseguenza, pur avendo il merito di mettere al centro dell’attenzione collettiva temi rilevanti, finiscono per mostrare debolezze e aspetti contraddittori.
  • Il rischio di disegni e strumenti erroneamente semplificatori diviene alto e la sostanza vera del contendere è annegata in un oceano di “frasi a effetto vuoto”.
  • L’idea che operazioni complesse siano riducibili a disegni operativi con effetti immediati, oggetto di dichiarazioni esagerate, si scontra con la dura realtà.

Come riformare i centri per l’impiego

La lotta contro la povertà si fa rilanciando il ciclo economico, mediante interventi diretti a creare opportunità occupazionali per le fasce sociali impoverite dalla mancanza di lavoro o dall’obsolescenza delle loro competenze. Balza quindi in primo piano la questione dei centri per l’impiego. Come riformarli per dare ad essi la capacità di incidere sui processi occupazionali? Per rispondere a questa non facile domanda è necessario analizzare i motivi per cui queste strutture, introdotte con la riforma della fine degli anni 90, hanno nella generalità dei casi svolto un ruolo assolutamente insoddisfacente rispetto alle aspettative iniziali. Alcune variabili economiche, sociali e amministrative hanno negativamente condizionato la loro azione. La prima grande macroeconomica contraddizione è quella rappresentata dal disallineamento tra le tendenze reali dell’occupazione e gli strumenti di politica attiva. Quando l’occupazione non cresce. o non è in grado di essere riconvertita, per ragioni strutturali, le politiche attive, ancorché encomiabili, rischiano di essere deboli e inefficaci. Quante volte abbiamo sentito cose del tipo: ….”ho fatto mille corsi ma non è servito a niente, anzi…” Nella situazione di stagnazione della crescita e di indebolimento delle prospettive occupazionali il ruolo dei centri per l’impiego è assolutamente marginale.

Il lavoro si crea se cresce l’economia e se il sistema economico cresce in maniera adeguata. Questo processo non può essere surrogato dall’azione dei Centri per l’impiego, a cui peraltro si addebita una marginale azione di collocamento. Ma se la domanda di lavoro è debole o viziata (come nelle situazioni di supersfruttamento, di caporalato e di malaffare) qualsiasi politica del lavoro, anche la più seria e accreditata, è perdente. La sentenza finale in base alla quale i centri per l’impiego collocano solo il 3% della forza lavoro risulta è tragicamente superficiale, né le attività di mediazione privata hanno una reputazione migliore.

Quali risorse per le politiche attive del lavoro

La seconda questione riguarda le risorse che lo stato mette a disposizione per queste funzioni. In generale sono poche e, con la riforma delle Province, non razionalmente allocate fra regioni e ministero. Gran parte delle risorse utilizzabili per le politiche attive derivano dai fondi comunitari, in particolare dal FSE, utilizzato a geometria variabile dallo Stato e dalle Regioni attraverso specifici piani operativi i quali, non sempre, anzi quasi mai, si adattano ai processi reali. Le procedure a bando, pur con alcune flessibilità introdotte negli ultimi esercizi, si adattano con difficoltà alle dinamiche della domanda di lavoro delle imprese, soprattutto di quelle di piccola e media dimensione, che rappresentano la componente fondamentale della domanda nazionale di lavoro.

La gestione dei centri per l’impiego

La terza questione riguarda la gestione istituzionale dei centri per l’impiego. La riforma della fine degli anni 90 individuò le Regioni quali organi di programmazione e le Province quali soggetti competenti alla gestione. Lo Stato riservava a sé le funzioni ispettive e prevedeva un settore privato complementare per le azioni di somministrazione nel mercato regolato. Oggi, la riforma delle Province, indipendentemente dal giudizio di merito costituzionale, ha modificato sostanzialmente la funzione e il ruolo dei centri, ricondotti con modalità non uniformi alle competenze delle Regioni. Il risultato, fatta eccezione per casi molto marginali, è stato quello di un’accentuazione burocratica marcata e inefficiente. Le funzioni ispettive sono ridotte ai minimi termini, salvo casi speciali indotti dalla cronaca. Non è mai decollata una organica banca dati sul lavoro coordinata fra i vari soggetti pubblici e privati. E’ mancata l’integrazione funzionale con le azioni di sostegno al reddito (CIG, DS, ecc. ) in capo all’INPS o, negli ultimi anni , ai fondi bilaterali. L’intreccio e l’integrazione con le politiche attive di derivazione comunitaria è divenuto sempre più formalizzato e astratto.

A tutto questo si aggiunge una diffusa “italica” linea di comportamento dei datori di lavoro i quali, sia per scarsa fiducia storica nelle istituzioni pubbliche, sia per una radicata e inestirpabile propensione verso forme non ufficiali di selezione del personale da assumere, sia per eccessiva fiducia nei rapporti parentali, di amicizia o di mal verificata fiducia, si rivolgono nella maggioranza di casi ad agenzie di fatto (parrocchie, partiti politici o semplicemente uomini politici, associazioni di appartenenza, ecc.) per trovare persone adattabili alle spesso non programmabili esigenze aziendali. Per non parlare poi dell’illecita intermediazione, che colpisce interi comparti e vaste aree geografiche del Paese. Le stesse grandi imprese, comunque, soprattutto per personale di alta professionalità, si avvalgono di specialistiche agenzie di scouting o di selezione saltando, salvo obblighi, i centri per l’impiego. Il ricorso alle funzioni di questi ultimi diventa allora del tutto marginale. Vi si ricorre, in linea generale, se obbligati, come il collocamento delle fasce deboli, o per figure di bassa professionalità. A tutto questo si deve aggiungere un indebolimento storico della domanda di lavoro, basti pensare alla condizione degli immigrati, che porta proporzionalmente ad un abbassamento della remunerazione del lavoro generale e condizioni di svalorizzazione del lavoro, difficili da ricondurre a gestioni istituzionali. Da rimarcare inoltre è la tendenza, soprattutto concentrata nelle fasce più giovani, di utilizzare forme individualizzate di ricerca e promozione collegata a social network più adatti ad una visione flessibile delle opportunità occupazionali.

Partecipazione alle scelte di politica del lavoro

Ultima questione riguarda il processo partecipativo alle scelte di politica del lavoro. La riforma precedente aveva introdotto due momenti partecipativi costituiti dalle commissioni tripartite sociali e da quelle istituzionali. Come avvenne per la riforma del 1949 con le commissioni per il collocamento, anche questa volta la partecipazione attraverso le commissioni si è inaridita e non ha garantito quell’azione congiunta fra istituzioni pubbliche e rappresentanze sociali che la materia richiederebbe come priorità. A fronte dei rilievi appena sollevati è illusorio e autolesionistico pensare a una bacchetta magica in grado di rilanciare strutture in difficoltà per ragioni di fondo.

Partendo da questa panoramica sugli aspetti critici sarebbe necessario definire un quadro strategico in grado di superare gli ostacoli consolidatisi durante le riforme del dopoguerra e certamente non facilmente superabili con una semplice infornata di personale e l’intervento di qualche super esperto, costretto a misurare i propri assunti scientifici e metodologici con una realtà decisamente ostica e non facilmente riconducibile a modelli astratti. Da anni vengono prodotte e pubblicate tesi sulla efficienza ed efficacia dei servizi per l’impiego. Da anni analisi comparative ci mettono di fronte situazioni difficilmente raggiungibili in Italia. Da anni ricercatori e analisti cercano di spiegarci le cause degli insuccessi. Non sono carenti le metodologie e l’approccio tecnico alla gestione dei servizi. Il problema fondamentale è che da noi carente e difficile è il mercato del lavoro.

Quali soluzioni adottare

Da qui è necessario quindi partire per capire quali soluzioni adottare.

La prima scelta strategica diventa allora quella di azioni per creare lavoro, andando oltre le politiche neo liberiste (completa deregolamentazione, “i lavori”, la flessibilità assoluta) in modo da innescare moltiplicatori di nuova crescita. A tale fine sarebbero cruciali strategie pubbliche di investimenti in settori chiave quali l’edilizia (si pensi alle politiche per la casa, la ricostruzione, la difesa contro i terremoti), l’ambiente, le grandi infrastrutture viarie e tecnologiche (riassetto idro-geologico e la riprogettazione strategico funzionale delle città).

Per questa via potrebbe essere creata nuova occupazione di tipo quantitativo e qualitativo, quindi con un maggior ruolo dei servizi per l’impiego che potrebbero indirizzarsi di più verso le politiche attive diminuendo le attività prevalentemente amministrative relative alla gestione degli ammortizzatori sociali.

Nella visione appena delineata i nuovi servizi per l’impiego, oggi riduttivamente chiamati solo con i centri per l’impiego, possono essere riformati sulla base di alcuni assunti generali:

  • Forte integrazione con le politiche di sviluppo economico. A livello nazionale e regionale le politiche del lavoro dovrebbero seguire le linee strategiche di investimento programmi specifici per il lavoro. La visione integrata potrebbe avvalersi di accordi con Università e Centri di ricerca, ad esempio per il recupero ambientale e territoriale in relazione soprattutto alla rivalutazione delle economie montane dell’appennino o delle aree soggette a spopolamento e abbandono, insieme al recupero e qualificazione urbana, alla modernizzazione logistica e infrastrutturale. Questo modello integrativo multilivello dovrebbe avvalersi in modo razionale della gestione dei fondi strutturali, sia di competenza governativa che regionale, a partire dalla programmazione 2020-2026. E’ altresì chiaro che parallelamente occorrerebbe una revisione degli schemi di programmazione e dei piani operativi (nazionali e regionali) che riduca l’impatto burocratico e amministrativo e si concentri su progetti generali integrati di area o settore, evitando la competizione irrazionale di progettifici di varia natura.
  • Riconduzione ai centri per l’impiego delle funzioni di formazione e riqualificazione professionale extracurriculare, dell’orientamento professionale, delle funzioni di collocamento e gestione delle azioni speciali (come il collocamento delle fasce deboli), dell’outplacement e del reimpiego. Queste funzioni, pur presenti sulla scena dei servizi per l’impiego, sono spesso scomposte e suddivise fra attori e competenze diverse non sempre comunicanti e dialoganti. L’obiettivo dovrebbe essere quello di una maggior organicità e complementarietà delle azioni. Questo impianto si può realizzare solo se si costruisce una rete fra soggetti di varia natura, pubblica, privata e privato-sociale, coordinati da istituzioni pubbliche.
  • Costruzione di una banca dati unificata del lavoro che metta insieme le competenze del ministero, delle regioni, dell’INPS, dell’ INAIL e si avvalga delle potenzialità previsionali dell’ISTAT. Dalla fine degli anni 90 tale impegno è sempre stato evocato, mai, però, è diventato una realtà operativa. Oggi l’attuale livello dell’offerta tecnologica ci consente, almeno sul versante tecnico, di poter riaprire la questione.
  • Un nuovo ruolo attivo delle parti sociali anche nella gestione operativa di questi processi. La partecipazione sociale è stata collocata nelle commissioni tripartite la cui attività, spesso, si è trascinata come stanca relazione burocratica, in alcuni casi addirittura conflittuale con interessi specifici nella gestione degli interventi. E’ necessario dar corso ad un riconoscimento di fatto del ruolo che le rappresentanze di impresa e dei lavoratori possano avere nei processi che riguardano la crescita e la qualificazione del lavoro. Questa nuova fase partecipativa attiva si può realizzare in primo luogo attraverso una ridefinizione del ruolo degli enti bilaterali costituiti fra OO.SS. e Associazioni Datoriali, magari istituendo partnership strategiche.
  • Coinvolgimento, attraverso convenzioni, di istituzioni pubbliche e privare come università, centri di ricerca, agenzie specializzate che permettano di svolgere una particolare azione strategica nel processo di accelerazione innovativa in atto nella dinamica tecno-economica. Il che rende necessari la nascita servizi innovativi e specialistici di orientamento, specializzazione formativa e soprattutto rapporti diretti con le imprese.

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