Con il decreto-legge 132/2021 approvato in Consiglio dei Ministri, si risolve una questione democratica, apparentemente minima, che avrebbe messo a rischio le firme digitali di migliaia di cittadini per alcuni referendum. L’innovazione, votata all’unanimità in commissione, non deve mettere in discussione l’istituto referendario, ma deve anzi essere una leva per una maggiore digitalizzazione di tutto l’ecosistema amministrativo-elettorale.
Nella notte del 20 luglio scorso le commissioni Affari Costituzionali e Ambiente della Camera hanno votato all’unanimità l’emendamento presentato dal collega Riccardo Magi al decreto-legge semplificazioni (77/2021) per consentire la sottoscrizione dei referendum e delle proposte di legge di iniziativa popolare con firma digitale o tramite Spid. È stata una vittoria del Parlamento perché il governo, dubbioso sulla norma per voce di alcuni ministeri, si era rimesso alla commissione dopo aver proposto una riscrittura di quel testo che produceva più complicazioni che semplificazioni.
Sostenuta anche dal ministro Vittorio Colao, questa innovazione porterà dal 1° gennaio 2022 a una piattaforma pubblica per la raccolta firme digitale, anche con carta d’identità elettronica, mentre dal 1° luglio i comitati promotori sono stati abilitati a raccogliere in proprio le firme.
Le firme digitali e il dibattito sullo strumento referendario
L’estate referendaria ha confermato le convinzioni di chi come noi ha sempre creduto nella tecnologia come acceleratore della partecipazione democratica, non solo attraverso il voto. Migliaia di firme sono state raccolte in poco tempo su alcuni temi e quesiti, come il fine vita e la depenalizzazione della coltivazione della cannabis, da anni oggetto di infinite discussioni parlamentari senza soluzione.
È bene dunque che se il Parlamento non è in grado di decidere, siano i cittadini a farlo. Lo possono fare oggi abrogando, totalmente o parzialmente, alcune norme. Spero che dal 2023 potranno farlo anche attraverso lo strumento del referendum propositivo, già approvato in prima lettura alla Camera, per porre temi in maniera più compiuta e organica.
In questo mese l’Italia ha assistito a un concreto e storico esempio di e-democracy su scala nazionale. L’esperienza ha portato alcuni a proporre l’aumento del numero di firme necessario per chiedere un referendum o del quorum. Un giudizio condizionato da una incomprensibile paura verso l’istituto referendario, mentre io credo che in questa fase a fare la differenza siano state le questioni oggetto di raccolta firme e non la più agile modalità di adesione.
La chiusura delle diverse campagne referendarie e l’esame della Cassazione ci aiuteranno a tracciare un bilancio più equilibrato di quest’innovazione, ma alcuni elementi sono già emersi con innegabile forza.
Il divario digitale tra Stato e cittadini
Dall’inizio della pandemia è più che quadruplicato il numero di identità digitali Spid erogate, passate dai 6 milioni del febbraio 2020 ai 24,4 milioni di oggi. Uno dei più importanti progetti di trasformazione digitale del Paese ha facilitato la vita di milioni di cittadini e il loro rapporto con le pubbliche amministrazioni.
È dunque positivo che questo strumento venga utilizzato anche come canale per la partecipazione politica alla vita del Paese e mi piace pensare che ci siano stati cittadini che hanno richiesto Spid proprio per poter firmare un referendum e non solo cittadini che hanno firmato il referendum solo perché bastava Spid.
La pandemia ha con tutta evidenza dato impulso alla domanda di digitalizzazione, ma la vicenda risolta con decreto-legge dal governo ha messo a nudo un’altra distanza tra Stato e cittadini.
L’incapacità dei comuni di assicurare il rilascio dei certificati elettorali nei termini previsti dalla legge non va scaricata sugli enti e sui sindaci, ma deve essere risolta anche con una maggiore digitalizzazione dei servizi delle pubbliche amministrazioni, dove per digitale non intendiamo certo il mero invio di una Pec.
La firma digitale insomma richiede una maggiore e più convinta innovazione di tutto l’ecosistema amministrativo-elettorale.
Curiosamente, proprio due articoli prima della norma sulla firma digitale, il DL semplificazioni ha previsto una maggiore digitalizzazione del procedimento elettorale preparatorio, consentendo, ad esempio, già a partire da queste elezioni amministrative il deposito dei simboli su supporto digitale e la designazione dei rappresentanti di lista via Pec.
Tale norma, frutto del lavoro fatto in commissione Affari Costituzionali al Senato, trasferita nel DL grazie a un emendamento della collega Baldino, sconta sicuramente qualche timidezza dopo le interlocuzioni col governo, ma testimonia l’esigenza di snellire procedure apparentemente tecniche e burocratiche, comunque essenziali per il gioco democratico.
Le nuove frontiere del digitale
L’eredità immediata dei cosiddetti Spid referendum impone uno Stato ancora più innovatore e un cambio di mentalità delle macchine amministrative coinvolte, nell’interesse non solo dei cittadini, ma anche dei processi organizzativi interni.
In attesa della sperimentazione del voto elettronico, bisogna ad esempio far partire un progetto di digitalizzazione di alcune procedure che si svolgono nei seggi, come l’ammissione e identificazione dell’elettore al seggio attraverso Spid o Cie, mentre anche in chiave dematerializzazione sarebbe importante il passaggio a registri e verbali di seggio elettronici in luogo di quelli cartacei.
Sono piccoli tasselli, certamente incrementali, che devono cambiare il volto di tutto l’ecosistema amministrativo-elettorale. Su questo chiederemo un impegno in aula al governo mercoledì prossimo.
I cittadini sono già pronti a quella che alcuni, troppo sbrigativamente, hanno chiamato “democrazia del clic”. Ora è tempo che a spingere non sia solo il Parlamento, ma anche lo Stato in tutti i suoi livelli e articolazioni.