La tematica della regolamentazione delle lobby e del loro apporto ai processi decisionali pubblici è di scottante attualità.
Il 28 settembre, la Commissione Europea ha formulato una proposta di accordo interistituzionale tra Commissione, Parlamento e Consiglio dell’Unione Europea per l’istituzione di un “mandatory transparency register” che dovrebbe rendere obbligatorio quanto già da tempo è in uso su base volontaria presso alcune istituzioni comunitarie.
Come noto, infatti, l’accordo interistituzionale tra il Parlamento europeo e la Commissione europea, firmato nel giugno 2001 e rivisto nell’aprile 2014, ha fissato le norme e i principi del registro per la trasparenza delle organizzazioni e dei liberi professionisti impegnati nell’elaborazione e nell’attuazione delle politiche dell’Unione.
Non sono mancate analoghe iniziative in ambito nazionale: il 26 aprile di quest’anno, ad esempio, la Giunta per il regolamento della Camera dei Deputati ha approvato una “regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi nelle sedi della camera dei deputati”, affinché l’attività di rappresentanza di interessi svolta nei confronti dei membri della Camera dei deputati sia basata sui principi di pubblicità e di trasparenza.
Anche il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali e il Ministero dello Sviluppo Economico si sono dotati di analogo strumento.
Da ultimo, Roma Capitale ha inserito l’istituzione di un registro dei rappresentanti degli interessi privati tra le azioni da realizzare nell’ambito del terzo piano d’azione nazionale sull’Open Government.
Minimo comun denominatore di tali iniziative è la consapevolezza che i responsabili politici non agiscono e non possono agire in maniera avulsa dalla società civile: al contrario, devono mantenere un dialogo aperto e regolare con le associazioni, le imprese e gli stakeholder.
Orbene, se questo dialogo esiste ed è ineliminabile (nel duplice senso che non può e non merita di essere eliminato), allora esso deve essere trasparente cosicché il cittadino possa conoscere se e in quali termini una scelta pubblica sia stata influenzata da interessi privati.
Sotto tale profilo, il rapporto pubblicato dal Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali, costituito ad aprile 2013 dall’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nell’evidenziare che “i gruppi di interesse particolare svolgono una legittimo, ma non sempre trasparente, attività di pressione sulle decisioni politiche”, suggeriva, tra l’altro, l’adozione di misure concrete per disciplinare l’attività di lobbying.
Il rapporto proponeva la creazione di un albo dei portatori d’interessi presso il Parlamento e le Assemblee regionali, l’attribuzione a tutti i professionisti registrati del diritto d’intervento nell’istruttoria legislativa nonché l’obbligo per le istituzioni di rendere esplicite le motivazioni delle decisioni che compiono, dando conto dell’interazione con i soggetti privati, con l’obiettivo di eliminare conflitti di interesse potenziali o attuali.
Non è mancata, anche di recente, l’iniziativa legislativa sul tema: ad esempio, all’inizio dell’attuale legislatura, la regolamentazione delle lobbies è stata oggetto di attenzione da parte del Governo Letta che aveva avviato l’esame preliminare di un disegno di legge di istituzione dell’elenco dei portatori di interessi particolari, che non ha avuto poi seguito.
Successivamente, il 30 luglio 2014, è iniziato presso la Commissione Affari costituzionali del Senato l’esame di alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare e di due petizioni popolari.
Chi scrive è dell’idea che, preso atto dell’esistenza del fenomeno e della sua persistenza nel tempo, sia necessaria una disciplina organica che garantisca la trasparenza dei processi decisionali e che si applichi ad ampio raggio (Governo, Ministeri, Parlamento, Regioni, Autorità Indipendenti nell’esercizio dell’attività di regolazione), prevedendo altresì sanzioni severe per chi provi ad aggirare o violare la regolamentazione.