Il cambiamento è una costante del mercato digitale, per il ritmo sostenuto delle innovazioni che coinvolgono le infrastrutture e i sistemi desktop, e a intervalli più o meno regolari hanno un impatto diretto su tutti gli utenti, compresi quelli meno tecnici, che – per il loro atteggiamento passivo – considerano la tecnologia un problema piuttosto che un’opportunità, e rappresentano ancora oggi la maggioranza in tutte le organizzazioni.
Il cambiamento per gli utenti
Quindi, il cambiamento non dovrebbe più spaventare, visto che la maggioranza degli utenti lo ha già sperimentato più volte, con la sostituzione del PC oppure la nuova versione di un software, che in alcuni casi costringe a un adattamento delle proprie abitudini, così com’è avvenuto – per esempio – quando l’interfaccia utente di Microsoft Office nel 2007 è passata dal modello tradizionale a menù a quello attuale basato su una logica di tipo visuale, completamente diversa.
E invece, il cambiamento continua a sorprendere e in qualche caso addirittura a spaventare, in modo completamente diverso nel caso dell’hardware e del software, e della popolarità dei marchi delle aziende. Sembra quasi che la sostituzione del PC, che normalmente comprende anche una nuova versione del sistema operativo e dei programmi applicativi, sia meno problematica rispetto all’aggiornamento di un singolo software, e decisamente meno problematica rispetto alla sostituzione dello stesso programma con un software open source.
Sembra quasi che la sostituzione del PC venga accettata come un male necessario di fronte al quale è necessario mettere in conto uno sforzo di adeguamento, mentre lo stesso non avviene nei confronti dell’aggiornamento di un software (anche se si tratta della nuova versione dello stesso software), che spesso è causa di proteste anche abbastanza sostenute.
Quella che invece non viene proprio accettata è la sostituzione di un programma consolidato come Microsoft Office con un software open source, anche se questo offre le stesse funzionalità di base, e spesso anche le stesse funzionalità avanzate. Per esempio, se facciamo un confronto tra Microsoft Office e LibreOffice, oltre il 90% delle funzionalità è praticamente identico, anche se in alcuni casi le funzionalità stesse sono accessibili attraverso voci di menù o icone posizionate in modo diverso, visto che i due applicativi sono nati da team di sviluppatori diversi e quindi riflettono due diverse impostazioni nello sviluppo e nella gestione della interfaccia utente.
Problemi e approcci alla migrazione al software open source
Il caso della funzione Formato Pagina è eclatante. Storicamente, il comando è nel menù File di Microsoft Office e nel menù Formato di LibreOffice, dove dovrebbe essere logico andarlo a cercare nel caso in cui non lo si trova al primo colpo. Ebbene, il numero degli utenti che continua a cercarlo nel menù File – sostenendo che è sempre stato in quell’area – è molto più grande di quelli che invece fanno lo sforzo di andarlo a cercare in un altro menù. C’è addirittura chi arriva a dire che LibreOffice non consente di definire il formato della pagina, che è una delle funzionalità di base di qualsiasi suite per la produttività individuale.
Ovviamente, parliamo di un caso limite, anche se l’esperienza maturata con la migrazione al software open source di circa un milione di desktop Windows ci ha fatto scoprire centinaia di casi in cui la cattiva gestione della migrazione stessa ha provocato reazioni completamente inattese ma assolutamente giustificate, come nel caso di un comune tedesco dove la migrazione è avvenuta durante il weekend di Pasqua senza nessun tipo di comunicazione da parte del management, per cui i dipendenti – lasciati al loro destino senza nessun tipo di formazione o supporto – per lavorare hanno acquistato copie pirata del software proprietario e non hanno nemmeno cercato di imparare a usare il software open source.
O gli atteggiamenti completamente opposti delle assistenti alla presidenza di due enti pubblici: la prima che, una volta scoperto che LibreOffice poteva emulare una formattazione tipica da macchina da scrivere che lei voleva mantenere, è diventata una strenua sostenitrice del software open source, al punto da forzare i colleghi ad accorciare i tempi della migrazione, e la seconda che, fallita l’apertura del primo documento (noto per essere incompatibile, a causa della presenza di una macro di enormi dimensioni), ha fatto di tutto per bloccare la migrazione e, ovviamente, è riuscita a farlo.
Come superare la resistenza al cambiamento nella migrazione
La resistenza al cambiamento, in psicologia, è considerata parte integrante dell’istinto di sopravvivenza delle persone: una naturale propensione a preferire quello che si conosce, e quindi è sicuro, rispetto a quello che non si conosce, e che potrebbe rivelarsi problematico. È evidente che, di fronte a un cambiamento di cui non si conoscono tutti i dettagli, le persone adottano atteggiamenti che – in modo conscio o spesso inconscio – ostacolano il processo di cambiamento.
A livello organizzativo, la resistenza al cambiamento è un problema noto da tempo, perché cambiare il modo in cui le persone lavorano implica la modifica di abitudini che si sono rafforzate nel corso degli anni, e che sono talmente familiari da essersi trasformate in automatismi capaci di garantire una certa efficienza e un significativo risparmio in termini di impegno emotivo. Questo, a sua volta, riduce lo stress che, invece, caratterizza le situazioni in cui le persone devono gestire situazioni completamente nuove.
La migrazione dal software proprietario al software open source, che i tecnici tendono a considerare come un processo del tutto naturale per le forti analogie tra i programmi, viene invece percepita come un cambiamento importante dagli utenti e, in quanto tale, scatena tutto il processo di resistenza studiato dagli psicologi e, in particolare, da Elisabeth Kübler Ross con il modello a cinque fasi, che si applica a qualsiasi tipo di cambiamento che rifiutiamo di accettare.
Per quanto assurdo possa sembrare, l’abbandono di un software utilizzato da anni a favore di un altro meno conosciuto, e spesso percepito come di scarso valore per il fatto di essere gratuito (anche se questo non è vero, ma non viene comunicato), ci fa passare da una fase di rifiuto (“non è possibile”) a una fase di rabbia (“perché proprio a me?”) a una di contrattazione (“così non posso lavorare”) seguita da una di depressione (“non c’è nulla da fare”) e infine da una di accettazione (“se non si può fare in altro modo”), che ovviamente non sono foriere della buona riuscita della migrazione.
Ovviamente, questo tipo di resistenza al cambiamento si sviluppa in modo diverso a seconda del profilo e delle competenze degli utenti ma è comunque una costante di tutti i progetti di migrazione, e l’unico modo per contrastarla – e per ridurla – è quello di comunicare in modo trasparente e di fare formazione, per facilitare la comprensione del processo di cambiamento e chiarire i suoi obiettivi.