Viviamo giorni molto difficili. La pandemia da Covid19 continua a imperversare e dopo qualche mese di apparente calma, si torna a vivere la paura della crisi sanitaria, mentre quella economica e sociale ormai da marzo si fa sempre più acuta e grave, con ricadute drammatiche su famiglie e imprese.
Oggi restiamo in attesa di vedere la curva dei contagi appiattirsi, per poi cominciare a scendere. Per farlo, la strategia dei lockdown sembra essere ineludibile, come accade in gran parte di Europa, anche se questo significa la chiusura di attività commerciali, l’interruzione delle attività scolastiche in presenza per migliaia di studenti, la sospensione di alcuni servizi alla persona – dalle prestazioni sanitarie all’attività motoria – indispensabili per il benessere fisico e psicologico.
Una strategia dolorosa che dovrebbe servire a guadagnare tempo in attesa che i vaccini e cure sempre più efficaci ci consentano un graduale ritorno alla normalità. Tra errori politici e di gestione della crisi pandemica, ritardi e criticità strutturali del Paese che emergono oggi in tutta la loro entità, i lockdown sono la soluzione più dolorosa, a partire dal rispetto delle norme sanitarie minime come precondizione per ridurre i contagi e garantire la tenuta delle strutture sanitarie.
Perché è doveroso guardare al futuro
Di fronte a una crisi, sta a ciascuno di noi fare la differenza.
Nonostante le incertezze, è doveroso però ricominciare a parlare di futuro. Perché non farlo vorrebbe dire condannare il paese a un declino inaccettabile, dopo un così lungo periodo di sofferenza.
Un futuro che sarà sempre più digitale e che metterà al centro delle economie avanzate la capacità di innovare, di scommettere sulla conoscenza e sul progresso tecnologico per una crescita inclusiva e sostenibile. Lo scorso 14 ottobre Anitec-Assinform ha presentato per la prima volta un approfondimento sui temi della ricerca e dell’innovazione nel settore dell’ICT, le basi su cui fonderemo il nostro futuro. E lo abbiamo fatto partendo da almeno due consapevolezze.
La prima: siamo in piena transizione digitale. Come ha evidenziato di recente il Governatore della Banca di Italia Visco, ci prepariamo a vivere anche in futuro una nuova normalità che porterà con sé molte delle esperienze vissute in questi mesi. Una normalità che metterà al centro le persone, facendo buon uso di tutte le opportunità che le nuove tecnologie digitali possono offrire.
Il massiccio ricorso alle soluzioni ICT durante e dopo il lockdown – dal lavoro alla didattica a distanza, all’e-commerce, allo sport praticato in casa con le piattaforme on line, al massiccio ricorso a cloud, cybersecurity, alle piattaforme per gestire da remoto interi impianti industriali – ci ha dimostrato come il digitale tocchi in maniera pervasiva quasi ogni campo della nostra vita. E molto di più può esser fatto.
Per questo, è oggi imperativo sostenere lo sviluppo di un’industria digitale, innovativa e capace di alimentare l’occupazione, attrarre talenti e modernizzare il nostro sistema produttivo che guarda ai servizi, alla manifattura, alla scuola, alla sanità, infine alla pubblica amministrazione. Dobbiamo, cioè, provare a recuperare quel gap che abbiamo verso i nostri partner europei e internazionali, sapendo di avere tutte le capacità per farlo.
La seconda consapevolezza è che siamo convinti che questa crisi possa rappresentare un’opportunità per affrontare i nodi irrisolti del paese – dalle semplificazioni amministrative a un fisco più semplice e meno invasivo – per consentire alle imprese e alla PA di tornare a investire in innovazione, vera “cura” per la nostra economia. Un vero e proprio “strumento” per ridurre le diseguaglianze e assicurare alle future generazioni una prospettiva di crescita e benessere.
Lo scenario economico 2020
Sappiamo benissimo che la strada è in salita. Non ci nascondiamo le tante difficoltà.
La pandemia ha colpito un paese già fragile e particolarmente vulnerabile. Anche prima della crisi pandemica, l’Italia registrava una crescita del PIL fiacca (0,3% 2019), agli ultimi posti in Europa, e riforme strutturali ancora largamente incompiute.
I recenti dati del Centro studi di Confindustria indicano uno scenario per il 2020 dai colori drammatici:
- – 10% di PIL
- – 1,8% l’occupazione, pari a circa 410mila persone occupate in meno rispetto al 2019.
- – 11,1% i consumi
- – 15,8 % gli investimenti
E la ripresa che arriverà nel 2021 resta comunque incerta nell’entità e appesa alle dinamiche della pandemia.
Il protrarsi dei contagi in Italia aumenterebbe la percezione di incertezza e una conseguente propensione al risparmio da parte delle persone, con una stretta dei consumi con effetti negativi per la crescita. Ben più grave il quadro se un andamento analogo dovesse verificarsi anche all’estero, in particolare nei paesi nostri partner commerciali, con il rischio di rallentare la ripresa dell’export su cui si regge una buona fetta della nostra industria manifatturiera.
La preoccupazione c’è, è forte e palpabile tra noi imprenditori, tra le persone e sappiamo bene esserlo anche nelle Istituzioni.
Non sprecare tempo e risorse
Al Governo va dato atto di aver introdotto risorse fino a poco tempo impensabili per consentire a imprese e lavoratori di far fronte ai mesi più duri del lockdown, prima tra tutte la cassa integrazione Covid19. I tanti decreti approvati, al netto della copiosa produzione normativa e di alcune incertezze applicative, hanno consentito ai lavoratori di non perdere il posto di lavoro e alla grande maggioranza delle imprese di rinviare pagamenti e accedere a una straordinaria liquidità.
Ma soprattutto, il dialogo incessante con Bruxelles ha permesso ai paesi più in difficoltà e in primis l’Italia d rinnovare la fiducia nelle Istituzioni europee, la nostra casa, e di trovare un accordo sul piano “Next Generation EU”, per la ripresa dell’economia dell’Unione.
Un accordo prezioso per l’Italia. Prezioso perché, al netto dei risultati diplomatici, pone l’accento sul futuro, sulle prossime generazioni. Prezioso perché ci sfida a fare meglio, a fare di più, a uscire dalle logiche dei singoli decreti o dei “bonus” della legge di bilancio, e ci chiama a un senso di responsabilità collettivo.
Oggi però l’impegno è a non sprecare tempo e risorse. Quando scadranno le misure di maggior tutela del lavoro, la crisi occupazionale rischia di colpire le fasce più deboli della popolazione ed è necessario indicare da subito la via per portare il paese fuori dalla crisi.
A nostro avviso, il piano nazionale per la resilienza e il rilancio – unitamente alle risorse dei programmi europei – dovrà destinare le ingenti risorse disponibili a quei settori dove è più alto il ritorno degli investimenti e dove più si contribuisce ad accrescere il capitale di conoscenza, qualità e innovazione di persone, istituzioni e imprese in modo da garantire una dinamica di crescita del PIL stabile e durevole nel tempo.
La transizione digitale al cuore del recovery plan
Siamo convinti che il lavoro prezioso del Ministero dell’Università e della Ricerca per definire il nuovo Programma Nazionale per la Ricerca 2021-2027vada nella giusta direzione. Il PNR, che individua sei grandi ambiti di azione ed è allineato per tempistiche e formati ai nuovi programmi europei, punta su una solida sinergia tra ricerca e sistema produttivo mediante la costituzione dei partenariati pubblico privati e di iniziative congiunte di ricerca e sviluppo.
La transizione digitale sarà il cuore del recovery plan italiano ed europeo. Nella lista dei progetti – più o meno consolidata – presentata da tutte le amministrazioni la parola digitale è (fortunatamente) onnipresente. Ma perché dalla declaratoria si passi ai fatti, occorre una strategia per la R&I e innovazione in ambito ICT chiara che individui priorità, percorsi, strumenti di monitoraggio e valutazione.
È necessario indirizzare sia la domanda che l’offerta, abilitare il trasferimento della conoscenza e il passaggio delle innovazioni al mercato, sia favorendo maggiori interazioni tra utilizzatori e sviluppatori di tecnologie sia creando maggiori sinergie tra le diverse politiche a livello europeo, nazionale e regionale.
C’è bisogno, in altri termini, di una politica industriale per il digitale che sappia stimolare l’addizionalità degli investimenti delle imprese, non tema di affrontare i costi della ricerca e dell’innovazione di tecnologie alla frontiera, abbia a cuore le persone in tutte le fasi dell’educazione e della formazione professionale.
Per questo, gli assi di intervento che abbiamo individuato sono:
- Le risorse: nel 2018, le imprese hanno investito oltre 2,6 miliardi di euro in R&I in ICT e oltre l’86% sono investimenti autofinanziati dalle imprese. Ciononostante, se rapportata all’intera economia, la spesa in R&I delle aziende del settore ICT presenta valori e proporzioni inferiori (0,15% rispetto al GDP) a quelli raggiunti in Germania o EU 27 (0.21% e 0.22% rispettivamente). Quando guardiamo agli investimenti pubblici, nonostante l’aumento dei trasferimenti al settore ICT nel 2018 (+26,7%), più contenuto è il trasferimento a settori non ICT, con l’effetto che il rapporto tra stanziamento pubblico per R&I ICT e PIL in Italia sia pari a 0,045% contro 0,054% in Germania. C’è bisogno di accrescere tanto la quantità aumentando nel complesso la spesa per attività di R&I in ICT nelle imprese di 3,5 miliardi in tre anni per arrivare al livello della Germania, quanto di migliorare la qualità, attraverso un maggior coordinamento dei fondi pubblici, una semplificazione delle procedure di accesso e di spesa dei finanziamenti, non da ultimo utilizzando la domanda pubblica come attivatore di innovazione.
- Il procurement innovativo affida alla PA il compito di scegliere l’innovazione, di guidare il mercato adottando per l’erogazione di beni e servizi da parte della PA nuove tecnologie e nuove soluzioni. Il volume delle risorse è ingente – 176 milioni di euro nel complesso, di cui oltre il 30% in attività di R&I in ambito ICT – e potrebbe essere aumentato riallocando parte delle risorse destinate al procurement tradizionale fino a 400 milioni di euro annui. È un ruolo cruciale che va indirizzato a partire da un potenziamento delle competenze delle PA, a ogni livello di acquisto, consapevoli che è la PA uno dei motori dell’economia del Paese.
- Il capitale umano. Le competenze sono alla base della ricerca e dell’innovazione, in tutti i campi e in particolare in ICT dove le dinamiche sono veloci e agili. L’innovazione altro non è che il frutto di uno stock di conoscenza che ci consente di progredire, anno su anno, passando da persona a persona, in una logica incrementale. Negli ultimi due anni, si è assistito a un’accelerazione nella crescita del personale R&I, sia per i ricercatori che per gli addetti totali, a conferma l’importanza che le imprese del settore danno alla R&I. Tuttavia, il personale addetto alla R&I nelle imprese ICT in Italia ha ancora una numerosità limitata in confronto ad altri paesi europei, specialmente se si considerano i soli ricercatori, causa e effetto della carenza di esperti soprattutto nell’ambito delle tecnologie KET. Affrontare la sfida del futuro vuol dire dare fiducia a giovani e ricercatori, allargando l’offerta formativa sulle Key Enabling Technologies e finanziando più borse di ricerca per sostenere la produzione di “conoscenza” e, soprattutto, promuovendo una stretta collaborazione università-imprese, sia in termini di progetti di ricerca che di vero e proprio inserimento di queste figure all’interno della compagine aziendale.
- Le reti. Un sistema di ricerca e innovazione efficiente si fonda sulla condivisione della conoscenza e sull’apertura, su uno scambio tra “Italia e estero” di eccellenze ed esperienze, nonché sulla capacità di mettere in rete le migliori pratiche di pubblico e privato. Oggi la rete dell’innovazione è ancora troppo frammentata. Paghiamo “il costo di un mancato” di coordinamento tra livelli di governance – centrale e territoriale – e, soprattutto, un ruolo ancora marginale delle imprese come soggetti capaci di coordinare e concorrere alla definizione delle strategie di innovazione.
Anche se il quadro è migliorato nel tempo – pensiamo alla nascita dei competence center o dei poli tecnologici presso le università – va detto che per consentire una maggiore diffusione lungo tutte le diverse filiere produttive dei risultati dell’innovazione ICT c’è bisogno di un deciso potenziamento dei partenariati, nell’ambito di strategie di specializzazione intelligente che concentrino le risorse su settori in cui esiste un potenziale di assorbimento azienda sul modello delle migliori best practice europee.
Sono quattro assi di intervento, che ovviamente non esauriscono il ventaglio di aree in cui l’Italia deve orientare il recovery plan, ma che crediamo debbano guidare le scelte del governo nell’allocazione delle risorse nella consapevolezza che la competizione tecnologica è la competizione per il futuro, per la crescita e per la sicurezza di imprese, persone e istituzioni.
Oggi abbiamo l’opportunità di fare un salto in avanti. Di provare a recuperare un gap di performance rispetto ai nostri competitor europei. Farlo bene, e farlo insieme, è un dovere che abbiamo verso i nostri giovani e verso i loro sogni.