Prendo spunto dal recente intervento di Paolo Donzelli (“La Roadmap”, 11 giugno 2013) con l’obiettivo di tentare una definizione di priorità all’interno della “wish list di sanità digitale”.
Dopo l’ubriacatura dei numeri, la rincorsa alla notizia sensazionale sui possibili risparmi conseguibili attraverso un’operazione di completa digitalizzazione della Sanità italiana, è il caso di tornare coi piedi per terra e – soprattutto – di “mettere le cose in fila”.
Sia ben chiaro: è vero, la digitalizzazione della Sanità genera economie di gestione, e lo può fare in misura significativa. A patto di seguire un filo logico.
Donzelli giustamente parte dalla centralizzazione dell’anagrafe degli assistiti. Operazione che, a tendere, può essere notevolmente facilitata dall’entrata a regime dell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR) di cui abbiamo avuto ampiamente modo di parlare negli ultimi tempi.
L’attuale frammentazione delle anagrafi degli assistiti, la cui “regionalizzazione” risulta pienamente operativa in non più di 10-12 regioni italiane, sconta un notevole problema di disallineamento rispetto alla dinamica demografica (decessi, cambi di residenza) per evidenti difficoltà di collegamento con le ottomila anagrafi comunali. Gli effetti sono quelli descritti da Donzelli: assegnazioni multiple di medici di medicina generale, deceduti ancora considerati viventi e – quindi – conteggiati nei compensi riconosciuti ai medici.
Partiamo dall’anagrafe, quindi. Un’operazione relativamente semplice, magari realizzabile attraverso l’adozione di una delle piattaforme regionali “migliori” (e ce ne sono) secondo una logica di riuso a costo marginale.
Donzelli, poi, parla di Fascicolo Sanitario Elettronico. Ed è qui che, a mio parere, si rischia di fare un salto in avanti di portata “eccesiva”.
E’ vero, verissimo, che il FSE è lo strumento centrale di un sistema sanitario completamente digitalizzato; è altrettanto vero che la sua piena adozione consentirà risparmi molto più che significativi come ci insegnano le esperienze internazionali di successo.
Ma, c’è un “ma”.
Il FSE non può essere fatto “per decreto”. Anche in questo caso, sono proprio le esperienze internazionali di successo a dimostrarcelo: rivedere gli “stop and go” di UK e Canada per rendersene conto.
Anche nei casi definiti “di successo” a livello italiano (Emilia Romagna e Lombardia), i numeri sono ancora “troppo piccoli”. Vale la pena di tentare di capirne le ragioni.
Ragioni che risiedono nella ancora pressoché totale incomunicabilità (interoperabilità) di alcuni mondi: i medici di medicina generale, i centri diagnostici convenzionati, le farmacie, gli ospedali, i medici specialisti, eccetera.
E’ ancora pressoché impossibile immaginare una digitalizzazione “end-to-end” di tutti i processi sottesi a un percorso di cura: qualcosa, inevitabilmente, “gira ancora su carta”.
Anche l’aver messo il paziente “al centro del sistema”, in un certo senso, è stato un errore: per evidenti ragioni fisiologiche, i “power user” del servizio sanitario si concentrano in un segmento di popolazione ancora poco confidente con le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni.
Così come di certo “non aiutano” la diffusione del FSE le norme ancora troppo stringenti in materia di tutela della privacy: anche in questo caso, le migliori esperienze internazionali dimostrano come l’aver sposato la logica del “dissenso esplicito” (“opt-out”) invece del “consenso preventivo” (“opt-in”) sia stata la mossa vincente.
Avviare un processo di “pushing normativo” per l’adozione del FSE in tutto il Paese, senza tenere conto di queste ed altre considerazioni, rischia di diventare un’operazione i cui benefici diventeranno visibili e misurabili solamente nel lungo periodo.
Meglio, probabilmente, adottare un approccio meno roboante ma sicuramente più efficace: cominciando dal “Patient Summary” (le principali informazioni di base sull’assistito) e riesumando l’ancora ampiamente inattuato “Decreto Sviluppo 2011” con riferimento al diritto da parte dell’assistito di ricevere i referti in formato digitale.
Mettendo, infine, una volta per tutte in comunicazione i mondi della sanità pubblica (Regioni, ASL e AO) con i medici di medicina generale, le farmacie, gli ospedali e i centri diagnostici convenzionati, i medici specialisti, eccetera.
Magari partendo da un ristretto numero di patologie ad elevata diffusione, adottando cioè un approccio “segmentato” finalizzato a diffondere il FSE come strumento per la gestione di un primo nucleo di pazienti quantitativamente ridotto ma nei confronti dei quali si concentra una porzione molto significativa della spesa sanitaria.
In questo caso, si potrebbe addirittura immaginare un FSE “obbligatorio” per alcune determinate patologie ad elevata intensità di cura e – conseguentemente – di costo per il SSN.
Con l’obiettivo, poi, di diffondere il FSE a tutti gli assistiti sul territorio nazionale.
Diventa essenziale, a questo punto, un vero e proprio piano industriale per la Sanità Digitale a livello nazionale: definendo puntualmente gli obiettivi, le strategie, le risorse necessarie, i tempi di attuazione, le modalità di finanziamento.
Anche in questo caso, lavorando in una logica di partenariato pubblico-privato capace di agevolare il reperimento dei fondi necessari e l’adozione di logiche fortemente orientate al risultato e al ritorno dell’investimento.
Anche questo, è “fare”.