Il Centro Studi Catalis, iniziativa di Federsanità ANCI col contributo scientifico di CNR e Netics ha di recente pubblicato alcune anticipazioni di una ricerca finalizzata a classificare e quantificare i possibili risparmi sulla spesa pubblica sanitaria derivanti da un’operazione di digitalizzazione massiva dei processi amministrativi e di erogazione di servizi nelle Aziende Sanitarie Locali e nelle Aziende Ospedaliere italiane.
Le principali voci di costo dedotte dai conti economici 2010 (ultimi dati ufficiali disponibili alla data di effettuazione della ricerca) sono state analizzate con l’obiettivo di stimare il saving possibile attraverso una profonda razionalizzazione dei processi attuata attraverso la completa dematerializzazione e – laddove applicabile – la revisione al ribasso dei costi unitari di acquisizione di beni e servizi (in una logica di “costi standard”).
La quantificazione del “cost saving” è stata effettuata utilizzando valori di benchmark raccolti da “buone pratiche” nazionali e internazionali.
Il risultato della ricerca è decisamente significativo: partendo dai valori correnti di spesa sanitaria (stime 2012, pari a 112 miliardi di Euro), il valore complessivo del cost saving raggiunge i 15 miliardi di Euro all’anno. I dati di dettaglio, per ciascuna delle macrovoci di costo prese in considerazione, saranno pubblicati dal Centro Studi Catalis in febbraio.
Netics, in collaborazione con una decina di Top Vendor IT a dimensione sovranazionale e nazionale, ha stimato un investimento pari a 4-4,5 miliardi di Euro, somma necessaria (in tre anni) per procedere a una completa digitalizzazione dei principali processi amministrativi e di erogazione dei servizi sanitari: dematerializzazione end-to-end del ciclo passivo (parallelamente al ricorso obbligatorio ai “marketplace elettronici” per l’acquisto di beni e servizi), fascicolo sanitario e cartella clinica elettronica, e-prescription, adozione di sistemi per la logistica del paziente e del farmaco, reti di patologia, digitalizzazione delle attività territoriali e di continuità assistenziale, razionalizzazione del ricorso alle strutture di emergenza e pronto soccorso.
Aggiungiamo 1,4 miliardi da allocare per investimenti “collaterali” (formazione/riqualificazione del personale, attività di comunicazione finalizzate a sensibilizzare i cittadini e incentivarli all’utilizzo dei servizi on-line) e 0,6 miliardi da destinare a incentivi per i medici di medicina generale (10.000 Euro a medico); e siamo a 6,5 miliardi di Euro in tre anni.
I conti tornano, quindi: un investimento di 6,5 miliardi in tre anni capace di generare risparmi per 15 miliardi all’anno.
Dov’è, quindi, il problema?
Facile: il problema è che non ci sono i soldi. Se parliamo di soldi pubblici.
La partita, però, è interessante: l’ammontare del saving conseguibile è una cifra di tutto rispetto. Inoltre, 6,5 miliardi di investimenti equivalgono – più o meno – a 21-22 mila posti di lavoro creabili (o, se vogliamo essere più pessimisti, “salvaguardabili”).
Viene quindi la tentazione di soffermarsi per tentare di trovare una soluzione. Che non può che essere rappresentata dal modello di “PPP” (partenariato pubblico-privato) e da tutte le sue possibili varianti in termini operativi: dal project financing a forme di “performance contracting” , dove il privato affronta l’investimento venendo poi remunerato per un “tot” numero di anni sulla base di una percentuale sul cost-saving ottenuto.
Il vantaggio è duplice: da una parte, si risolve il problema del “chi paga” (e già, non è poco); dall’altra, l’entità committente si garantisce rispetto alla qualità della soluzione che il privato metterà a disposizione, considerando che non si può ovviamente permettere di andare in perdita col suo investimento.
Già da diversi anni, questa forma di coinvolgimento del fornitore (molto spesso rappresentato da un raggruppamento di fornitori affiancati da una banca o da un altro soggetto finanziario) secondo un paradigma di “accollamento esclusivo del rischio associato a una condivisione dei benefici economici futuri” rappresenta un modello piuttosto frequente adottato da aziende industriali e/o di servizi a capitale privato. E, soprattutto nei Paesi di matrice anglosassone, non mancano casi di adozione anche da parte di committenti pubblici, ivi comprese organizzazioni pubbliche erogatrici di servizi sanitari (a partire dal “National Health System” del Regno Unito).
In sanità italiana, casi di questo genere si contano ancora – purtroppo – sulle dita di una mano, a partire dal contratto stipulato da Regione Molise relativamente al “sistema di gestione unica del farmaco”.
Lato offerta, molti vendor (soprattutto a dimensione sovranazionale) sono più che attrezzati per rispondere a una domanda di questo genere.
Ma è proprio la domanda, a rimanere praticamente inespressa: per mancanza di consapevolezza (“non sapevo che si potesse fare”) ma, soprattutto , per mancanza di linee guida e riferimenti normativi precisi.
Nel decreto “Crescita 2.0”, convertito in legge e quindi pienamente operativo, si fa riferimento esplicito a forme di partenariato pubblico-privato finalizzate a finanziare “opere strategiche”, rinviando la definizione del “PPP” e l’elencazione delle diverse forme contrattuali ad esso riconducibili all’art. 3, comma 15-ter del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (“Codice dei contratti pubblici”).
C’è da sperare che l’intento del legislatore (nel caso del “Crescita 2.0”) non sia solamente riferito all’idea di utilizzare il “PPP” per il “piano banda larga e ultralarga”: quella del “PPP”, ribadiamo, è probabilmente l’unica strada percorribile per una rapida e piena modernizzazione (in chiave “digitale”) della sanità italiana.