La critica

Sanità: e se il problema fosse l’offerta Ict?

Soprattutto a livello di PA locale e Sanità, l’offerta è troppo frammentata. Centinaia di piccole aziende che non riescono a uscire dal tunnel del “business model del bel tempo che fu”. Con tanto di seccanti lock-in del cliente. All’estero va meglio

Pubblicato il 03 Giu 2013

Paolo Colli Franzone

presidente, Osservatorio Netics

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Partiamo subito con una precisazione: il titolo è (volutamente) provocatorio.

Il mercato IT del Public Sector soffre prevalentemente di insufficienza della domanda e di regole del gioco completamente da rivedere.

In ogni caso, una riflessione sullo stato dell’arte dell’offerta non fa male, anzi aiuta a capire meglio come venirne fuori una volta che (speriamo!) la domanda esprimerà valori degni di un Paese moderno, ricordando che siamo all’undicesimo posto nella classifica UE27 per spesa ICT del public sector.

E’ evidente (e anche “normale”) che le aziende ICT focalizzate sul public sector soffrano una situazione di costante carenza di ossigeno, acuita per altro dai tempi biblici di pagamento e dalle labirintiche logiche del public procurement.

Ma fermarsi a questo livello di analisi è riduttivo. C’è qualcosa d’altro, che non funziona.

Soprattutto a livello di PA locale e Sanità, l’offerta è caratterizzata da una eccessiva frammentazione. Centinaia di piccole (a volte, piccolissime) aziende che non riescono a uscire dal tunnel del “business model del bel tempo che fu”: campare di licenze e canoni di manutenzione, piazzando qua e là le “trappoline del lock-in” con la speranza di mantenere inchiodati i clienti. Pochi (pochissimi) investimenti, quasi nessuna capacità di essere proattivi e di “far sognare i clienti”.

Il tutto in un contesto in cui la domanda (la poca domanda che “si muove”) esprime ormai da qualche anno una tendenza alla semplificazione del quadro dei fornitori. Il che non significa necessariamente “cambiare fornitori”, ma anche solo “avere un prime contractor di riferimento”.

Centinaia di piccole aziende, soprattutto, convinte del fatto che “basta avere un bel prodotto per vincere”: non serve un management strutturato, parole come “posizionamento” o “business model” vengono interpretate come “perdite di tempo e soldi”.

Ricerca e sviluppo? “No grazie, non abbiamo tempo da perdere”.

Nella migliore delle ipotesi, la ricerca assume un discreto fascino soltanto quando viene interpretata come “strumento per pagare meno tasse” grazie ai meccanismi assurdi del credito di imposta garantito per attività di ricerca del tutto improbabili, visto che basta essere “molto bravi a rendicontare” per passare all’incasso.

C’è una chiave di lettura molto interessante, per chi volesse approfondire l’argomento: se andiamo a vedere i Paesi “big spender” nell’ICT pubblico, possiamo notare come sia “straordinariamente coincidente” la presenza – in quegli stessi Paesi – di un’offerta fortemente strutturata. Grandi aziende capaci di creare filiere virtuose, diventando prime contractor capaci di garantire (e “tranquillizzare”) la domanda senza “uccidere” le PMI subfornitrici.

Soprattutto, in quei Paesi anche le PMI (anche le più piccole) si muovono avendo ben chiara in mente la necessità di guardare attentamente la domanda, conoscerne le logiche e le dinamiche, prevederne i bisogni facendosi parte proattiva.

Nel mio lavoro quotidiano, incontro decine di imprenditori ICT che mi chiedono: “fammi incontrare i miei potenziali clienti”. Inevitabilmente, rispondo loro: “OK, ma poi una volta che li incontri cosa gli dici, cosa gli offri?”. Le risposte, le lascio alla vostra immaginazione.

E non è un caso, se quando si intervistano i CIO della PA e della Sanità inevitabilmente viene fuori il tema dell’impreparazione dei loro fornitori allorquando si chiede loro di uscire dal solito schemino imparato a memoria.

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