la nuova norma

Sanzioni per obbligo Pos: ecco come e i problemi

Sanzioni a chi dal 30 giugno 2022 non accetta bancomat o carte: l’attuazione potrebbe essere complessa, inoltre la limitazione all’uso del contanti potrà essere un importante strumento per il contrasto all’evasione solo se accompagnato da una politica premiale saggia, lungimirante

Pubblicato il 14 Apr 2022

Salvatore De Benedictis

dottore commercialista

sanzioni pos

L’articolo 15 dello schema di decreto-legge recante ulteriori misure urgenti per l’attuazione del PNRR anticipa al 30 giugno 2022 (prima era il primo gennaio 2023) la data in cui entrerà la norma che prevede la sanzione a partire da 30 euro a chi non accetta bancomat o carte. ma sarà di difficile attuazione. L’entrata in vigore di questa norma potrà essere un importante strumento per il contrasto all’evasione solo se accompagnato da una politica premiale saggia, lungimirante.

Sanzioni POS, cosa cambia

Lo schema di Decreto Legge per l’attuazione del PNRR porta al 30 giugno 2022 il termine, in precedenza fissato al primo gennaio 2023, per la previsione di una sanzione “pos” di 30 euro, aumentata del 4% del valore della transazione a carico degli esercenti o professionisti che rifiutano pagamenti a mezzo carte di credito, carte di pagamento, prepagate, e, in genere, mezzi di pagamento elettronici. Insomma, diventa fattuale l’obbligo Pos che c’è già dal 2015 ma finora senza sanzioni.

Questa previsione, che attua una stretta all’utilizzo del denaro contante nelle transazioni commerciali, sembra confliggere con il recente innalzamento del limite ai pagamenti in contanti, disposta a partire al 1° gennaio 2022, a € 999,99 rispetto agli € 1.999,99 in vigore sino al 31 dicembre 2021, ma riportata a € 1.999,99 dal Milleproroghe approvato a febbraio 2022 sino al 31 dicembre 2022.

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Multa di 30 euro “Pos” a chi non accetta i pagamenti con bancomat o carte di credito

Come si diceva, l’art.15 dello schema di decreto di Legge attuativo  del PNRR anticipa al 30 giugno 2022 la entrata in vigore della disposizione di legge, contenuta nell’articolo 15, comma 4-bis, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, che aveva introdotto a partire dal 1 gennaio 2023 una multa di 30 euro, aumentata del 4% del valore della transazione [1], a carico dell’esercente o professionista sprovvisto di sistemi che consentano pagamenti elettronici con almeno una tipologia di carta di credito e una tipologia di carta di debito, il che sembra escludere che non ci sia un obbligo generalizzato di accettare qualsiasi mezzo di pagamento elettronico o qualsiasi circuito richiesto dall’utente.

A chi si applica la sanzione su obbligo pos

Attenzione: la sanzione vale per tutti coloro che già dovrebbero accettare carta e bancomat con un pos. Ossia chiunque offre prodotti e servizi al pubblico. Esercenti attività d’impresa ma anche professionisti come medici e avvocati.

Nel recente passato ci sono stati vari tentativi di stabilire sanzioni per imporre l’utilizzo dei sistemi di pagamento elettronici, ma si sono arenati in quanto non c’è stata la volontà politica di creare il necessario sinallagma comando-pena, per cui la norma è rimasta priva della relativa disciplina sanzionatoria[2].

Perché le sanzioni pos non saranno di facile attuazione

Il proposito è certamente buono, ma è facile eccepire che la norma sarà di difficile attuazione, perché di fatto imporrà un obbligo di denunzia, a carico dell’utente verso l’esercente, e questo potrebbe essere censurabile sia perché trasferisce di fatto ai cittadini ruoli di “polizia”, di discutibile efficacia, sia perché la gestione delle irregolarità non potrà che essere farraginosa e complessa, non esente da complicazioni dovute anche alla infinita varietà dei casi che si potrebbero presentare, non ultimo quello dell’operatore che possiede il terminale per il pagamento ma non lo utilizza. Come sarà possibile in questo caso dimostrare il rifiuto?

Indipendentemente da ciò, ritengo che per gli esercenti potrebbe esserci strumenti maggiormente persuasivi all’utilizzo di mezzi di pagamento tracciabili, magari offrendo in cambio maggiore tranquillità fiscale e non perseguendo le solite politiche sanzionatorie, che sappiamo tutti quali risultati hanno realizzato e quale clima di diffidenza abbiano generato.

Appare anche censurabile sotto il profilo della equità la previsione secondo cui la irrogazione della sanzione avvenga su istanza di un privato e non in maniera automatica: sarebbe stato più opportuno che l’utilizzo di un dispositivo di pagamento elettronico constasse da una comunicazione da rendere alla Amministrazione Finanziaria, in modo da attuare un censimento “democratico” ed immediato; insomma la norma non appare ben ponderata, e sembra il frutto della solita partita tra fazioni politicamente opposte, in cui alla fine prevale il compromesso, a scapito della ragionevolezza e della praticità.

Quindi, anche a costo di voler apparire nemico del buono e fautore dell’ottimo, ritengo che la norma vada meglio strutturata e integrata, cogliendo magari l’occasione per rivedere le premialità previste per chi dimostra compliance rispetto agli obiettivi programmatici attesi dalle norme.

Non solo sanzioni Pos

Negli ultimi anni abbiamo assistito alla produzione di molteplici misure che hanno incentivato – quando non imposto – l’utilizzo di mezzi di pagamento tracciabili.

  • Si pensi all’accorciamento di ben due anni dei termini per la notifica degli avvisi di accertamento in favore di coloro che utilizzano sistemi di pagamento tracciabili per gli importi superiori a 500 €,
  • oppure all’obbligo di pagamento degli stipendi, introdotto dalla Legge n. 205/2017, che ha stabilito che le retribuzioni o i compensi dei lavoratori , sia subordinati che parasubordinati (collaboratori), debbano essere corrisposti esclusivamente con mezzi tracciabili.
  • O al bonus pos.
  • Per non parlare ovviamente degli obblighi di fatturazione elettronica.

Eppure le misure restrittive sono viste da taluni come una limitazione alla libertà dell’individuo, come un tentativo di tracciare qualunque operazione e di entrare nella sfera privata dei cittadini. Probabilmente un elemento che ne rende poco accettabile l’inserimento nel corpus normativo è la non adeguata premialità per i titolari di partita IVA che se ne sono i destinatari; sarebbe auspicabile pertanto una revisione per adeguarli al mutato contesto economico-sociale e direi anche tecnologico rispetto all’epoca in cui sono state emanate.

L’accorciamento di due anni dei termini per l’accertamento

Invece, un provvedimento che probabilmente è stato poco valorizzato ed apprezzato è quello che prevede l’accorciamento del temine di due anni per l’accertamento per i titolari di partita IVA che documentano le operazioni poste in essere tramite fatturazione elettronica e/o memorizzazione elettronica ed invio telematico dei dati dei corrispettivi giornalieri via Sistema di Interscambio ed effettuano operazioni in contanti per importi non superiori a 500 euro, come previsto dall’articolo 3 del Decreto Legislativo 127/2015.

Il peccato originale di questa norma è, a mio modesto avviso, di carattere etico. Vero è che il cittadino non può essere esposto sine die ai controlli della Amministrazione Finanziaria, ma il cittadino onesto non dovrebbe temere l’avvio di attività, se poste in essere in maniera imparziale e professionale. In sostanza, il premio per il contribuente “collaborativo” non dovrebbe essere quello che potrebbe essere apprezzato solo se non fosse stato onesto. Quindi l’accorciamento del termine per l’accertamento potrebbe apparire come un premio per i furbetti e non per gli onesti.

A mio avviso sarebbe stato molto più corretto ipotizzare un premio sotto forma di esclusione dagli ISA o dalle presunzioni nei casi di accertamento fiscale, considerato che le mostruosità insite nell’attuale impianto normativo consentono agli Uffici pericolose inversioni di onere della prova, coperte spesso da una magistratura tributaria distratta.

Un’altra pecca di questa misura premiale sta nel fatto che, così come è strutturata, pone sui contribuenti un obbligo sul quale non hanno alcun potere di intervento, se non a costo di assumere una condotta anti- imprenditoriale, quasi masochista. Infatti l’articolo 3 è destinato a coloro che “… garantiscono, nei modi stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, la tracciabilità dei pagamenti ricevuti ed effettuati relativi ad operazioni di ammontare superiore a euro 500”. Come si può imporre ad un cliente di effettuare pagamenti per importi al di sotto del limite legale alla circolazione del contanti (€ 1.999,99 sino al 31 dicembre 2022, successivamente € 999,99) mediante mezzi tracciabili, quando il cliente potrebbe anche non disporne o non volerlo effettuare ? E’ sino troppo chiaro che la norma è strutturata in modo da porre un enorme conflitto di interessi in capo al soggetto che dovrebbe avvalersene. Chi è quel professionista che rifiuterebbe di incassare 800 euro in contanti da un cliente che magari potrebbe non ripresentarsi più ?

È quindi evidente che anche sotto questo profilo vi sono buone ragioni perché la norma vada ripensata in modo da consentirne una applicazione logica e non conflittuale.

Le presunzioni e gli accertamenti induttivi: un anacronismo incompatibile col contesto storico-economico attuale

Il sistema tributario italiano è stato terreno di scorribande legislative che hanno inserito progressivamente norme che, invertendo l’onere della prova, si trasformano facilmente meccanismi di distruzione per i contribuenti soggetti a verifiche. Qualche volta a ragione, ma purtroppo spesso a torto. Le esigenze degli Uffici di raggiungere gli obiettivi di risultato è uno strumento di distorsione del clima di collaborazione e buona fede che è sancito dallo Statuto del Contribuente.

Non è questa la sede per redigere l’inventario delle mostruosità normative, ma basti pensare alle presunzioni di cessioni e di acquisto (regolamentate dal DPR 441/1997), le presunzioni recate dagli articolo 32 del DPR 600/1973 e 51 del DPR 633/1972 in relazione ai versamenti e ai prelievi sui conti bancari sottratti alla contabilizzazione e dei quali il contribuente non riesca a dimostrare l’assoggettamento ad imposta o la non rilevanza al suddetto fine, oppure non indichi il beneficiario del pagamento[3], per non parlare delle varie leggi che nel tempo si sono succedute e che hanno introdotto i parametri, gli studi di settore, gli Indici Sintetici di Affidabilità, attuando una lenta ma costante compressione del diritto dei contribuenti ad essere tassati in base alle risultanze delle scritture contabili. E che dire delle diavolerie coniate dagli Uffici e spesso avallate dalla giurisprudenza di legittimità in tema di “antieconomicità” della gestione per cui un contribuente che abbia accettato una prosecuzione “un perdita” solo perché fiducioso e ottimista viene ritenuto un “evasore” ? Si è arrivati al paradosso che di fronte ad una annualità chiusa con un risultato fiscale negativo il contribuente sia chiamato a spiegare le ragioni del mancato guadagno, a fornire probatio diaboliche, con una procedura che ricorda molto da vicino la storia del Lupo e l’Agnello di Fedro.

Tutte le norme sopra citate, inserite sempre col pretesto di trovare strumenti di contrasto alla evasione, sono state accompagnate da un progresso tecnologico, culturale e scientifico che ha di fatto relegato la c.d. evasione ad ambiti e a fattispecie sempre più complesse e articolate, progettate proprio per superare le maglie delle liste selettive di controllo, nelle quali invece incappa il povero artigiano o commerciante, che altra colpa non ha se non quella di non volersi arrendere di fronte all’incipienza delle varie crisi e di voler difendere il diritto dei suoi lavoratori e della sua famiglia a continuare a percepire un sia pur modesto salario. Norme nate in un periodo in cui il contante era un mezzo di pagamento assolutamente normale e prevalente. Da grafico sottostante si vede in maniera drastica come l’inasprimento delle norme abbia ridotto enormemente i margini di manovra degli evasori e come l’avvento dei mezzi di pagamento elettronici abbia di fatto reso il denaro contanti un mezzo assolutamente inadeguato e scomodo.

Conclusione

In ambito aziendale l’utilizzo del denaro contante è un handicap. Comporta rischi intrinseci di gestione, soprattutto nelle aziende strutturate, obbligandole ad una organizzazione diversa finalizzata anche a fronteggiare i rischi interni di sottrazioni o di ammanchi. Una impresa sana non può che optare per effettuare pagamenti con metodi tracciati, e tentare di indurre la clientela a comportarsi allo stesso modo.

Se l’utilizzo del contanti fosse ridotto, l’utilizzo illegale in ambito imprenditoriale e di lavoro autonomo verrebbe a galla: sarebbe sufficiente effettuare dei controlli automatizzati tra ricavi dichiarati e versamenti sui conti bancari per avviare accertamenti selettivi e seri, che sarebbero tanto più efficaci quanto più ridotta fosse la platea dei controllati.

Il sistema economico nazionale ha bisogno di fiducia e di tranquillità. Fiducia in una stabilità normativa che consenta agli imprenditori di fare una pianificazione fiscale di medio lungo periodo, e tranquillità che dovrebbe essere assicurata da un fisco equo, che non possa contare su armi in grado di distruggere una attività economica solo perché la combinazione degli strumenti normativi consente ai verificatori di formulare congetture, elevarle al rango di presunzioni, e generare atti aventi efficacia esecutiva immediata. Vero è che esiste sempre la tutela giurisdizionale, ma le Commissioni Tributarie non sempre danno l’impressione di rappresentare un argine allo strapotere degli Uffici, e ciò anche per una ragione funzionale: di fatto e di diritto esse dipendono dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, la cui longa manu è l’Agenzia delle Entrate. Per non parlare della Corte di Cassazione, che talvolta produce sentenze che sembrano privilegiare la ragion di Stato più che il rispetto della Legge e della Costituzione.

Ecco quindi che la limitazione all’uso del contanti potrà essere un importante strumento per il contrasto all’evasione solo se accompagnato da una politica premiale saggia, lungimirante, frutto non solo della pur apprezzabile buona volontà di qualche parlamentare, ma di obiettivi strategici e programmatici condivisi con gli imprenditori e con i professionisti e che siano espressione di una maturità collettiva. Ma ad una condizione: il legislatore deve decidere da che parte vuole andare.

Note

[1] La idea non è nuova. Le sanzioni per professionisti e commercianti furono introdotte nel 2019 con il governo Conte II che, con l’articolo 23 del Decreto Legge n.124, stabiliva che dal 1° luglio 2020 si poteva incorrere in una sanzione pecuniaria di 30 euro più il 4 % dell’importo rifiutato, analoga a quella attualmente proposta. Tuttavia, a seguito della conversione in Legge del DL n. 124/2019, l’art. 23 è stato abrogato.

[2] l primo tentativo di introdurre l’obbligo POS professionisti e commercianti risale al 2012 con il Decreto Crescita 2.0 (Decreto-legge 179/2012, articolo 15, comma 4) del governo Monti. La norma prevedeva, a partire dal 1°gennaio 2014, l’obbligo per commercianti, artigiani, imprese e liberi professionisti di dotarsi di un POS per poter accettare anche i pagamenti effettuati attraverso carte di debito.

[3] La Consulta ha decretato l’illegittimità della seconda parte del co. 1 n. 2) dell’art. 32 del DPR n. 600/1973, eliminando la ipotesi secondo cui i prelevamenti operati dai lavoratori autonomi possono essere automaticamente riclassificati dall’Ufficio quali più elevati compensi, sulla falsariga di quanto si verifica per i contribuenti assoggettati al reddito d’impresa. Ma questo non è sufficiente, perché  per gli imprenditori si potrebbe verificare che i pagamenti in “nero” siano costi, a la loro trasformazione in ricavi realizza una sanzione impropria, una doppia imposizione, sul ricavo (in quanto non documentato fiscalmente) e sul costo.

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