Abbiamo definito più volte come “intelligente” una comunità in grado, poiché consapevole, di valorizzare l’infinita quantità di dati generati dai nostri dialoghi.
Questo flusso, spesso disordinato, di informazioni è talmente pervasivo di ogni aspetto della nostra esistenza che è stato coniato, per definirlo, il termine “Internet of Everything”. I dialoghi che intercorrono tra ogni cittadino e la Pubblica Amministrazione possono essere parte rilevante di questo flusso di conoscenza poiché, opportunamente trattati (codificati e georeferenziati), i dati raccontano l’efficienza del “pubblico” e la qualità delle relazioni tra il “pubblico” e il “privato”.
Secondo uno studio realizzato dalla società McKinsey la “liberazione” dei dati potrebbe generare la creazione di una massa di ricchezza pari ad una cifra che oscilla tra i 3 e i 5 miliardi di dollari.
I settori interessati sono: la scuola e l’istruzione; i trasporti; i prodotti di consumo; tutto il settore dell’energia; i servizi sanitari; i beni e i prodotti finanziari.
In particolare, l’utilizzo di dati aperti nel settore dell’istruzione, secondo McKinsey, potrebbe consentire di generare ogni anno tra gli 890 e i 1.200 miliardi di dollari di valore.
Il più grande beneficio potenziale deriva dall’uso aperto dei dati per migliorare l’istruzione, individuando le strategie e gli strumenti più efficaci per insegnare, con profitto, competenze e conoscenze specifiche. Dalla qualità dell’istruzione dipenderà larga parte del nostro “successo”, non solo lavorativo, nella vita.
Per questo motivo i genitori, fin dalle scuole elementari sono particolarmente attenti ai requisiti della scuola che viene scelta per iscrivere i propri figli. Certamente oggi possiamo scegliere in quale scuola (non solo a quale indirizzo tecnico-scientifico) iscrivere i nostri figli, è un nostro diritto.
Ma, sulla base di quali criteri oggettivi scegliamo la scuola nella quale iscrivere i nostri figli? Quasi sempre è il passa parola tra i genitori a determinare la scelta finale. Il passa parola veicola in modo informale i giudizi sui singoli insegnanti, sulle dotazioni scolastiche a disposizione, sulla “qualità sociale” degli studenti che frequentano quel plesso scolastico, e così via.
Ovviamente gli studenti, soprattutto quando crescono, sono essi stessi un veicolo di questo passa parola.
Sia gli studenti che i genitori oggi usano i social network, in primis Facebook, per commentare la qualità dell’istruzione e le performance degli insegnanti. Immaginiamo se questo passa parola potesse essere organizzato, e messo in rete in formato aperto, acquistando così una valenza sociale e una straordinaria pervasività.
I giudizi sulle performance degli insegnanti, sulle dotazioni scolastiche, sui metodi di insegnamento messi sul web in formato “open”, quindi riutilizzabili, potrebbero costituire un formidabile strumento di giudizio per una comunità sulla qualità dell’educazione.
Naturalmente, grazie a piattaforme di civic media, questi dati -giudizi- sarebbero il frutto di un contradittorio costante con il corpo docente.
Questi dati (soprattutto quelli prestazionali) diverrebbero la base per gli studenti e per i genitori per prendere decisioni più informate e consapevoli nella scelta delle scuole da frequentare, anche sulla base della valutazione di una community sulla qualità degli insegnanti.
Immaginate, in Italia, affermare nella scuola pubblica (ma, perché no anche in quella privata) il principio della libertà di scelta, da parte delle famiglie, dell’Istituto dove far studiare i propri figli, sulla base di criteri tra i quali primeggia quello della professionalità degli insegnati e della qualità delle dotazioni scolastiche.
E, immaginate una competizione tra le scuole basata sui giudizi consapevoli degli utenti. Una competizione che determina poi premi per gli insegnanti e scelte in materia di investimenti.
Forse dimentichiamo che il web ha cambiato la concezione della costruzione del sapere e che, nessuno, avrà la patente di “insegnante” per sempre.
Grazie a Internet non esiste più una gerarchia sociale dove l’insegnante (il docente universitario) ha un ruolo preminente. In questo contesto il tema degli open data assume una fortissima valenza sociale e di progresso.
Ricordiamoci che l’open data uscirà dalla sua versione “pionieristica” nel mondo “pubblico”, quale è prevalentemente oggi, se assumerà una forte valenza e diffusione sociale. Usare il dato open nell’istituzione scolastica potrebbe consentirci un grande salto di qualità.
Una stupida difesa della privacy e le superate tutele sindacali, soprattutto per i dati che attengono alle prestazioni degli studenti e degli insegnanti, limiterebbe questo processo. Il grande rischio è che tuttavia la società sia più avanzata delle istituzioni scolastiche. D’altronde il passa parola che già esiste, ha superato ogni idea di privacy, allora è meglio sistematizzarlo, metterlo in rete, attribuirgli un valore sociale ed economico.
Una stupida difesa della privacy ha generato le idiozie tipiche dell’Invalsi (visitate il sito dell’Invalsi per averne nozione), o i moduli forniti da alcune P.A. dove i genitori, in forma anonima barrano caselle ed esprimono giudizi “mediati” privi di alcun valore.
Superiamo velocemente questo “mondo morto” e diamo una valenza sociale al dato open, è la strada maestra per alfabetizzare digitalmente il nostro Paese.