Qualità della vita digitale

Sentimenti e società al tempo del web: perché serve un cambiamento culturale

La rete si basa sulla reciprocità, ma dalle affinità elettive è facile scivolare in atteggiamenti tossici autoreferenziali, comportamento evidente talvolta sui social: l’algoritmo diventa il capro espiatorio di umani impreparati alle sfide per governare il gioco digitale

Pubblicato il 22 Ago 2022

Emiliano Mandrone

Primo ricercatore Inapp

rete innovazione

È il tempo della complessità e dell’incertezza: nuovi rischi, tecnologie che possono apparire complesse, norme sociali da riadattare, ulteriori dimensioni da considerare, codici da aggiornare, numeri da capire. Progressivamente, la rete e i social sono diventati un’ulteriore dimensione della nostra vita, per cui tutte le attività analogiche, ormai, hanno un corrispettivo digitale. “Mi parli del suo Metaverso” direbbe oggi Freud.

Il web è fatto di relazioni e affinità: chi scrive e chi legge, chi mette una foto e chi la guarda, chi compra e chi vende. Questo meccanismo psicologico è fondamentale perché rende tutti parte di un processo, creando una comunità. Proprio la reciprocità è la forza della rete: riconosce a tutti un ruolo e consente a tutti di partecipare.

Che c’è in ballo con il Metaverso di Facebook-Meta

Dalle affinità elettive alle camere tossiche dell’eco

La naturale tendenza delle persone che la pensano allo stesso modo a stabilire una relazione – affinità elettive – sui social è esasperata: seguendo qualcuno e togliendo l’amicizia a qualcun altro, si finisce per separarsi dal resto delle persone, concentrandosi in comunità dense e autoreferenziali dette stanze dell’eco (Pariser, 2012). Così rimaniamo circondati solo da punti di vista con cui siamo d’accordo, al riparo da opinioni diverse. Siamo al paradosso: l’esito della società della comunicazione rischia di essere un individuo scisso, alieno, a-sociale.

Ma gli ambienti chiusi diventano rapidamente tossici: Auden notava che “al­le persone piace leggere le proprie poesie e annusare i propri peti”. Seduce ascoltare quello che ci si vuol sentire dire, assecondare le proprie inclinazioni, proibire i vizi altrui.

Non solo ci si separa volontariamente, ma la peristalsi di certe opinioni è alimentata da algoritmi che producono percorsi predefiniti in base a preferenze commerciali, simpatie politiche, cronologia delle ricerche. Le filter-bubble creano “un universo unico di informazioni per ognuno di noi che altera radicalmente il modo in cui incontriamo idee e informazioni”.

L’algoritmo come capro espiatorio

Così, l’algoritmo ha sostituito monsieur Malaussène come capro espiatorio preferito. Grazie alla potenza di elaborazione, all’intelligenza artificiale (AI) e alla convergenza digitale, il suo campo di applicazione si è rapidamente esteso: logistica, lavoro, mobilità. Ma il perimetro della sua azione discende dalle istruzioni che riceve ovvero: è l’etica di chi governa la tecnologia che ne definisce i gradi di libertà. Come la condotta di una auto dipende da chi la guida, così l’equità algoritmica dipende da chi la controlla. Non è senziente, non gode di libero arbitrio anche se a qualcuno piace farlo credere.

La nostra società, tipicamente, è governata da relazioni verticali: c’è una gerarchia tra chi insegna e chi impara, tra medico e paziente, tra esperto e utente. Invece, nei social network c’è un rapporto orizzontale, tra pari, senza credenziali. Ciò compromette la cardinalità della conoscenza, rendendo ogni opinione legittima, ogni opzione praticabile. Così, sovente si confonde la convergenza della scienza con il pensiero unico, come se usare il Teorema di Pitagora fosse un atto di sottomissione alla dittatura scientifica.

Il web, da un lato, ha consentito uno sviluppo socioeconomico e tecnologico portentoso grazie a basi conoscitive sterminate e a una rete globale mentre, dall’altro, ha prodotto impoverimento culturale e semplificazione semantica. Una polarizzazione tra chi trae energia dalla rete e chi gliela cede.

Si sta affermando, inoltre, una fiducia selettiva nella scienza: si sentono persone in attesa dall’ortopedico dire di non fidarsi dei virologi. È come se chi va dal meccanico non si fidasse del gommista.

L’emergere dell’infodemia

La tecnologia appare ai più come una scatola nera: il funzionamento di uno smartphone o dell’intelligenza artificiale è incomprensibile. Ciò implica aver fede e una conseguente perdita di controllo.

La storia insegna che esiste una relazione diretta tra ignoranza e paura, e ciò produce una domanda di rassicurazione, spesso fornita dal trascendente, che oggi viene soddisfatta in larga parte da motori di ricerca e social media che, apparentemente, godono di vere e proprie Virtù Digitali (Mandrone, 2018).

Popov fece un test di psicometria a Cambridge nel 2015: l’intelligenza artificiale esaminando 10 like prevedeva i comportamenti di un utente meglio dei suoi amici; osservando 300 like era più precisa di sua madre. E l’affinamento delle tecniche di machine learning è in costante miglioramento.

Le interazioni tra dati – comprese le immagini e i dati-macchina – sono diventate esponenziali, creando un moltiplicatore informativo, l’infodemia, così potente che il volume di dati disponibili è superiore alla nostra capacità di elaborazione, facendoci vivere una singolarità tecnologica: all’aumentare dei dati aumenta l’asimmetria informativa percepita, non quella potenziale che rimane una risorsa appannaggio di pochi.

Da ciò deriva una riduzione del­la capacità di disambiguazione: su ogni tema ci sono evidenze di segno opposto, falsi bersagli, interferenze. Dato cattivo scaccia dato buono.

Le regole complesse del gioco digitale

In un recente contributo (Mandrone 2022) si riflette su come sia sempre più difficile comprendere i segnali di un sistema complesso. Continuamente, affrontiamo di­lemmi morali, scelte sanitarie, questioni economiche senza, per così dire, le istruzioni per l’uso e con una scatola degli attrezzi vecchia.

Il ruolo del dato sta cambiando – da parame­tro di funzionamento a costituente della realtà – diventando un aspetto cruciale nella tutela dei diritti individuali.

C’è una forte responsabi­lità sociale nei media e nei social: realizzano il trasferimento della conoscenza, orientano l’opinione pub­bli­ca, definiscono il valore delle aziende. Sono, ormai, compiutamente il quarto e quinto potere.

La pervasività della società digitale tocca le libertà personali, le istituzioni democratiche, i set valoriali. Il Cardinal Martini, già sul finire del secolo scorso, comprese la difficoltà di governare una tecnologia strabordante, esposta ad una eterogenesi dei fini così forte da renderla imprevedibile negli esiti.

Serve cautela, senso della misura, quello che ha fermato alcune propaggini della fisica o della medicina: va posto un limite etico ad alcune possibilità tecnologiche? Com’è noto un “grande potere implica grande responsabilità” (Spiderman, 1962) ma la tecnologia e la relativa etica non viaggiano di pari passo: sappiamo fare auto a guida autonoma ma non a chi dare la colpa se fanno un incidente.

Internet è stato una “zona franca”, un non-luogo che ha vissuto una libertà assoluta, sospeso sopra gli ordinamenti nazionali. Lo sviluppo è stato così veloce che la regolamentazione non gli è stata dietro.

La Commissione Europea sta legiferando (data act) per contrastare il potere degli oligopoli tecnologici e affermare diritti e sovranità digitali. Infatti, le concentrazioni economiche e tecnologiche del web sono immuni all’antitrust, un caposaldo del capitalismo del ‘900. La legge non avrà vita facile.

Conclusioni

La madre di tutte le transizioni è la cultura: necessaria per governare nuovi rischi, opportunità inedite, fenomeni immateriali, tratti socioeconomici fluidi, contaminazioni organiche e inorganiche.

“Se telefonando – o videochiamando o digitando – potessi fare qualsiasi cosa…”. L’eccesso tecnologico può avere effetti collaterali severi: virtualizza­ndo tutto, rischiamo di perdere le capacità sensoriali che regolano l’istinto di conservazione della specie; di sopire gli animal spirits che fanno agire sentimenti e princìpi; il senso d’appartenenza che alimenta il senso civico. Per lasciarsi condurre dagli stimoli socio-emotivi e riappropriarsi della propria umanità occorre, dunque, una rieducazione sentimentale?

Una versione più ampia di questa analisi sarà pubblicata a Ottobre su Oikonomia

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