La visione estetica ideale dei servizi pubblici digitali predica un governo digitale sempre capace di replicare la velocità e semplicità cui siamo affezionati nel ruolo di consumatori di tecnologia.
Per esempio, creando sportelli digitali, oppure adibendo stanze virtuali al cui interno raccogliere gli utenti, per erogare servizi. La funzione pubblica digitale reale invece arranca rispetto agli standard dei prodotti e servizi digitali di uso commerciale. Purtroppo, la dematerializzazione della burocrazia entro scenari digitali non ha ancora risolto quasi nessuna delle carenze dell’amministrazione analogica.
Perché idea e pratica rimangono così distanti? Che cosa impedisce al servizio pubblico digitale di apparire – ma soprattutto di funzionare – come quello tecnologico commerciale? Quattro ostacoli. Il primo è di replicabilità̀. Il secondo di durata. Il terzo di reazione. Il quarto, infine, riguarda il mercato.
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La replicabilità
Il primo ostacolo impedisce all’azione pubblica digitale di replicare pedissequamente gli standard di uso corrente nella tecnologia commerciale. Diversamente dalle aziende, infatti, l’amministrazione non può̀ concentrarsi solamente sulla garanzia di un’esperienza gratificante. È vincolata al dovere di offrire un servizio di qualità̀ elevata. Che cioè̀ sia trasparente. Che faccia un uso ragionevole delle (poche) risorse disponibili. Soprattutto, che sia inclusivo. Questi vincoli si traducono in altrettante complicazioni. Alcune sono normative. Altre di design.
Un esempio di complicazione normativa, finalizzata a ridurre i disagi sofferti dai soggetti fragili, è il diritto alla delega digitale. L’ha introdotto il governo italiano nel 2021. Con la delega, l’esecutivo riconosce alle persone incapaci digitalmente la facoltà̀ di delegare l’accesso ai servizi pubblici a favore di un diverso titolare di identità̀ (digitale).
Alle complicazioni loro imposte dalle norme le amministrazioni non possono sottrarsi. Anzi, quando non le rispettano possono essere sanzionate. È successo nel caso della violazione degli obblighi di accessibilità̀ digitale. La giurisprudenza amministrativa italiana è intervenuta più̀ volte per stigmatizzare l’azione amministrativa digitale reticente riguardo i diritti dei propri interlocutori. Un caso recente, del 2020, ha visto protagonisti (e antagonisti) l’Associazione Luca Coscioni e l’Agenzia delle Entrate. L’associazione ha diffidato l’Agenzia dal rimuovere gli ostacoli presenti sull’applicazione mobile IO che impedivano alle persone con disabilità sensoriale di fruire del credito d’imposta. Peraltro l’anno seguente la stessa associazione è tornata a difendere il diritto all’inclusione sociale delle persone con disabilità lanciando una piattaforma digitale in house per la raccolta delle firme in vista dei referendum sull’eutanasia legale e sulla legalizzazione del consumo ricreativo di cannabis. L’iniziativa è nata per sopperire ai tempi lunghi delle amministrazioni coinvolte. Il risultato ha superato largamente le attese. La raccolta firme per il referendum sulla legalizzazione dell’uso ricreativo di cannabis ha raggiunto e superato le cinquecentomila firme in pochissimi giorni. Quello sull’eutanasia ha superato addirittura il milione di firme. Nei vent’anni precedenti il quorum era stato raggiungo una sola volta, nel 2011.
Guardiamo ora alle aziende. Per loro questa necessità di includere tutti, assecondando le esigenze di una vasta platea di destinatari attraverso complicazioni antipatiche, ma appunto inevitabili, non sussiste. Il digitale di uso commerciale può̀ permettersi scelte che sono precluse alle amministrazioni. Due in particolare. La prima è la scelta di essere esclusivo – e spesso lo è. Un prodotto tecnologico di ultima generazione può̀ costare centinaia o addirittura migliaia di euro. Chiaramente non è per tutti. La seconda è di sedurre la clientela per orientarne le preferenze in direzione dell’opzione più̀ favorevole all’azienda. Questa scelta è escludente nella misura in cui anziché́ orientare le scelte dei clienti in direzione di una soluzione ritenuta migliore per l’interesse comune li seduce in favore dell’opzione più̀ profittevole per l’azienda. Per cui, per esempio, il miliardo di utenti di sistemi mobili Android riceve mediamente undici miliardi di notifiche al giorno. Chi usa il servizio mail di Google riceve di default le notifiche dei messaggi in arrivo in alto a destra sullo schermo, l’angolo visuale che cattura meglio la nostra attenzione.
Il ciclo vitale dell’azione amministrativa
Il secondo impedimento con cui deve misurarsi l’estetica digitale dei servizi pubblici è nel ciclo vitale dell’azione amministrativa. Quest’ultima è fondata sulla continuità̀. Il ciclo vitale della tecnologia, al contrario, non solo tende a concludersi rapidamente, ma spesso pianifica la propria obsolescenza. I costituzionalisti parlano di «clausole dell’eternità̀» per descrivere quelle disposizioni che servono per rendere alcuni emendamenti più̀ difficili, o addirittura impossibili da approvare. Il Grundgesetz è un ottimo esempio. La Legge fondamentale della Repubblica federale di Germania sottrae a qualsiasi ipotesi di revisione costituzionale i principi di sovranità̀ popolare e la natura democratica, federale e sociale della Repubblica tedesca. Dona loro l’immutabilità̀.
Il mercato invece prospera proprio in virtù̀ dell’obsolescenza dei prodotti. Nessuno produrrebbe un bene talmente resistente all’usura da non richiedere mai un aggiornamento o un cambio. Sarebbe antieconomico. Guardatevi intorno. Siamo circondati da oggetti obsoleti. Il sistema operativo che avete appena installato sul computer tra pochi mesi richiederà̀ un aggiornamento. Chi nel 2017 possedeva un iPhone 6 ricorderà̀ bene il rallentamento drammatico delle prestazioni, fino al 40 per cento in meno, seguito all’aggiornamento del sistema operativo. L’azienda riconobbe in seguito di essere stata a conoscenza del crollo che avrebbero subito le prestazioni dei vecchi modelli, senza aver fatto nulla per impedirlo. Una pratica commerciale non solo aggressiva, ma anche scorretta.
L’estetica digitale dei servizi pubblici
Il terzo ostacolo all’estetica digitale dei servizi pubblici si lega ai rapporti tra erogatori e fruitori di servizio. Per spiegarlo vi propongo un semplice esperimento. Mettetevi nei panni del consumatore. Siete in uno qualsiasi dei tanti store digitali che popolano la rete. Da consumatori i prodotti disponibili li valutiamo, li scegliamo e, se non siamo soddisfatti, li scartiamo a favore di quelli offerti dalla concorrenza. Continuiamo l’esperimento. Cambiate cappello. Calatevi nel ruolo di cittadini. Ai servizi pubblici disponibili sullo «store civico» accediamo per necessità. In alcuni casi per obbligo. Se quel servizio non ci soddisfa, quasi sempre la possibilità̀ di opt out ci è preclusa.
La conclusione di questo ragionamento non è entusiasmante. Da cittadini non disponiamo di strumenti efficaci per uscire dal «mercato» dei servizi pubblici e accedere a mercati diversi che offrono quello stesso servizio ma a condizioni più̀ vantaggiose. Se siamo fortunati c’è un privato che offre la stessa prestazione del pubblico, ma lo fa meglio.
Mercato e competizione
L’ultimo ostacolo è di natura competitiva. Le istituzioni pubbliche non operano alle condizioni del mercato. In particolare, non subiscono la pressione competitiva da parte di altri player che operano nello stesso settore. Le eccezioni esistono, ma sono poche. Per esempio, le società̀ a partecipazione pubblica che gestiscono i servizi pubblici locali. Oppure i partenariati pubblico-privato che operano sul mercato (anche) in competizione con altri operatori. In linea di massima però il fatto che le pubbliche amministrazioni agiscono in assenza di competizione fa sì che abbiano minori incentivi a garantire la massima soddisfazione dell’utente. O quantomeno che abbiano uno stimolo ridotto a innovare servizi e prodotti a favore dei cittadini. Costoro del resto, lo abbiamo appena visto, non hanno possibilità̀ di uscita dal mercato.
Non è un caso quindi se i piani di transizione digitale post pandemici, che impegnano i governi europei ad avanzare sul fronte della digitalizzazione dei servizi pubblici, rispondono soprattutto all’esigenza di incentivare le amministrazioni a farsi promotrici di innovazioni radicali – delle competenze, dei processi, dei servizi e delle strutture.
Come risolvere?
Che fare allora? Ci sono idee e strumenti che consentono di ridurre il gap percettivo tra erogazione e consumo del servizio pubblico digitale. Ed è il piano di lavoro della transizione digitale. «Digitalizzarsi o morire», sintetizza efficacemente Alec Ross. Peraltro, la crisi sanitaria globale scoppiata nel 2020 ha impresso una straordinaria accelerazione al processo di transizione digitale dei servizi pubblici. Purtroppo, però, quasi contemporaneamente, la trasposizione forzosa e repentina della burocrazia nello scenario digitale ha esposto molti, per la prima volta e in prima persona, al dramma di servizi pubblici digitali lenti, involuti e inadeguati alla funzione che dovevano assolvere.
Facciamo attenzione, gli strumenti propri della transizione digitale – da soli – non bastano ad azzerare il divario tra percepito e reale del servizio pubblico digitale. L’incidenza che la transizione digitale può̀ avere rispetto alla soddisfazione finale dell’utente è, infatti, circoscritta prevalentemente a una specifica tipologia di funzione amministrativa. La chiamerò̀ funzione «transattiva». Si tratta, per essere più̀ chiari, di quelle funzioni che l’amministrazione svolge interagendo con i cittadini e le imprese. Pensate alla firma di un modulo digitale. Oppure alla contestazione di una multa. Alla richiesta di un permesso per costruire. O, ancora, al rinnovo di un documento da fare «a sportello». Ecco, la transizione digitale è in grado di migliorare in modo radicale le funzioni transattive delle amministrazioni pubbliche. Ne abbiamo bisogno. Tuttavia, l’architettura, materiale e immateriale, su cui queste transazioni si fondano è molto più̀ articolata e complessa.
C’è quindi un secondo tavolo, che è diverso da quello della transizione digitale, su cui si gioca la sfida del divario tra ideale e reale del servizio pubblico digitale. Questo è il tavolo della modernizzazione degli apparati, dell’innovazione dei processi, dell’aggiornamento delle competenze e, più̀ in generale, dello «svecchiamento» di tutti gli approcci culturali che contribuiscono a generare le politiche pubbliche. Su questo secondo tavolo – che chiameremo «culturale» – la partita è, a sua volta, doppia.
Da una parte ci spinge a ripensare i servizi pubblici digitali. Torniamo così alla funzione transattiva di cui dicevamo poco fa. Come si disegnano interazioni virtuali tra amministrazioni e cittadini secondo dinamiche che consentano alle prime di rispondere rapidamente e senza complicazioni alle aspettative dei secondi?
La seconda partita, ancora più̀ sfidante, che si gioca sul tavolo culturale è quella narrativa. La narrazione del servizio pubblico digitale deve riappropriarsi del concetto di complessità̀, evitando di demonizzarla. L’idea di complessità̀, che il digitale ci spinge a trascurare, a fuggire addirittura, non può̀ sparire dall’immaginazione e dalla narrazione del sistema pubblico. Governare rimane un’azione complessa. Vi contribuiscono competenze diverse, su più̀ livelli. Chi governa è chiamato spesso a misurarsi con un elevato livello di incertezza. Pesano, sulle decisioni pubbliche, numerosi elementi di irrazionalità̀. Occorre tempo per recepire, valutare e poi appianare le divergenze tra interessi in gioco, per tutelare tutti i destinatari. Come tale va descritta e compresa l’azione pubblica. Non c’è dubbio: oggi difendere la complessità̀ è impopolare. Eppure, è necessario – di più̀: è essenziale – se si vuole vincere la partita sul tavolo culturale.
Di queste sfide, e del divario tra ideale e reale del governo digitale, parlo nel mio ultimo libro, edito da Egea: «Il divario».