dopo l'annuncio di Brunetta

Smart working e PA, urgente un nuovo quadro normativo

È quanto mai necessario che il Ministro Brunetta analizzi l’esperienza dello smart working nella PA ne indichi le criticità e provveda alla redazione di linee guida utili sui confini dello smart working sia dal lato del lavoratore che della PA. Ecco i temi sul tavolo

Pubblicato il 20 Set 2021

Victoria Parise

Avvocato giuslavorista in Firenze, DPO e Consigliere ASSODATA, Partner dello studio The Legal Match

brunetta semplificazione amazon pa

Il Ministro alla PA Renato Brunetta ha dichiarato che per la ripresa e crescita del paese è necessaria “una riduzione sostanziale del ricorso allsmart working tra i dipendenti pubblici”, il suo obiettivo: ridurre al 15% l’attività da remoto del settore pubblico.

Il tema è certamente fra i più dibattuti al momento, il lavoro da remoto, infatti, finora ha vissuto di regole emergenziali e ora è arrivato il momento fare un primo bilancio dei suoi effetti.

Smart working, grave errore il dietrofront: ecco invece come migliorare

Analizzando qualche dato emerge, come indicato dal Corriere della Sera Economia[1], che:“in base alle analisi elaborate da Fondazione Studi Consulenti del lavoro sulla base dei dati forniti dalla Ragioneria dello Stato e dal Formez-«Rapporto di monitoraggio sull’attuazione del lavoro agile nelle PA», a marzo 2020, su 3,2 milioni di dipendenti pubblici, 1,8 milioni erano in smart working (56,6%). A marzo 2020 però eravamo all’apice della crisi; a settembre, invece, una buona parte dei pubblici dipendenti era tornata in presenza e meno della metà (46,2% per un totale di 1,5 milioni) continuava a lavorare da remoto. Da allora però le percentuali non sono cambiate molto e il dato più recente esistente riporta che a maggio 2021, la quota di dipendenti pubblici in smart working risulta essere al 37,5%, pari ad un totale di 1,2 milioni di lavoratori. Nell’attesa di indicazioni sulla quota del 15% indicata dal ministro Brunetta (potrebbe essere riferita ai lavoratori oppure al tempo di lavoro) e ipotizzando che si riferisca al numero di lavoratori interessati, significa che lo smart working nel pubblico sarebbe consentito in tutto a 500 mila dipendenti.”

A ogni PA il suo piano organizzativo del lavoro agile (POLA)

Infatti per i lavoratori della Pubblica amministrazione è stata eliminata la soglia massima di percentuale di lavoro agile, prima fissata al 50%, e ogni pubblica amministrazione potrà decidere in autonomia come e quanti dipendenti possono usufruire del lavoro da remoto «a condizione che assicurino la regolarità, la continuità e l’efficienza dei servizi rivolti a cittadini e imprese», ha spiegato il Ministro Renato Brunetta. Dal 2022 invece ogni amministrazione dovrà presentare il cosiddetto «Pola», piano organizzativo del lavoro agile che ne fissa le modalità di attuazione e sviluppo: il lavoro agile sarà quindi consentito ma solo per un massimo del 15% dell’attività svolgibile da remoto (limite sceso dall’originario 60%). In caso di mancata presentazione, il lavoro agile potrà essere svolto da almeno il 15% del personale che ne farà richiesta.[1]

Al contrario della P.A. l’esperienza dei datori di lavoro privati sembra essere del tutto diversa e la tendenza per il futuro è quella di mantenere lo smart working, almeno per qualche giorno a settimana. Il settore privato pare aver trovato un’opportunità nel lavoro agile.

La disciplina emergenziale, finalizzata alla tutela della salute umana, ha imposto – come sappiamo – la repentina trasformazione di molte prestazioni lavorative che si sono trasferite fuori dai locali aziendali e si sono di fatto smaterializzate con la conseguenza che oggi si possono ipotizzare per le imprese nuove voci di risparmio: sulle sedi di lavoro e i servizi connessi (pulizia, energia, etc.).

Un bilancio, per guardare al futuro

Oggi che possiamo cominciare a pensare al futuro e a cosa ci aspetta dopo il periodo emergenziale, è opportuno analizzare i risultati di questa esperienza al fine di costruire un modello di lavoro che tenga conto di tutti i diversi interessi in gioco. I temi più sentiti sono attualmente:

  • la possibilità di mantenere lo smart working per la maggior parte dell’orario settimanale anche dopo lo stato di emergenza (questione sull’esistenza di un diritto allo smart working o sull’opportunità datoriale);
  • l’articolazione degli accordi di lavoro agile fra datori di lavoro e lavoratori dopo il periodo emergenziale, qui giocheranno un ruolo chiave le parti sociali di categoria (la questione del lavoro per obiettivi, fasi, cicli, etc.);
  • i diritti del lavoratore smart e il potere di controllo del datore di lavoro fra prescrizioni giuslavoristiche e privacy (diritti alla disconnessione; controlli a distanza, utilizzo dei dispositivi del lavoratore, etc.).

Il controllo dei lavoratori agili

Il controllo dei lavoratori agili (punto III) è forse il tema più caldo al momento, un tema fortemente connesso anche alla questione dei “furbetti del pubblico” che Brunetta si pone l’obiettivo di combattere da sempre. Forse una “più precisa” regolamentazione di tale aspetto potrebbe diventare una delle chiavi per raggiungere la soddisfazione reciproca del Ministro e delle parti sociali.

In relazione alla specifica problematica del rapporto tra potere di controllo e protezione dei dati personali del personale dipendente si possono enucleare, secondo molti (v. Andrea Sitzia – Professore associato di Diritto del lavoro nell’Università degli studi di Padova), stante il silenzio della decretazione d’urgenza, almeno due questioni.

  • La questione sul controllo tramite gli strumenti del lavoro agile o di telelavoro (strumenti e dotazioni aziendali): ossia fino a dove può spingersi il controllo del datore di lavoro sugli strumenti utilizzati dal lavoratore nell’esecuzione della porzione “agile” della prestazione.

La stragrande maggior parte dei casi si risolve con l’art. 4, Stat. Lav. e la disciplina sugli strumenti di lavoro in abbinamento alla e preventiva informazione (anche ai sensi dell’art. 13 Reg. UE 2016/679) al lavoratore cristallizzata nell’articolo della L.300/70 menzionato, tale impostazione è coerente anche con quanto previsto dall’accordo quadro nazionale sul telelavoro[2] nelle pubbliche amministrazioni, che, all’art. 5, comma 3, prevede che “fermo restando che nessun dispositivo di controllo può essere attivato all’insaputa dei lavoratori, l’amministrazione è tenuta ad informare il lavoratore circa le modalità attraverso avviene la valutazione del lavoro prestato”.

Il lavoro “a distanza” – di qualsiasi tipo sia – richiede una delicata operazione di bilanciamento fra interessi e diritti: se da un lato, infatti, il datore di lavoro, non potendo effettuare un controllo diretto sull’adempimento della prestazione, avverte l’esigenza di poter controllare l’attività lavorativa attraverso gli strumenti tecnologici utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione, dall’altro lato il legislatore non può non preoccuparsi di tutelare il lavoratore dai rischi di lesione della “personalità e libertà morale” potenzialmente derivanti dall’esercizio del potere di controllo datoriale.

Nonostante il GDPR e la sua entrata in vigore (del 2018) in Italia e nella Pubblica Amministrazione ancora non c’è una vera attenzione al problema e soprattutto c’è ancora molta ignoranza in materia di privacy.

Ancora troppo pochi i consulenti capaci di affrontare il tema sotto i suoi molteplici profili: tecnico-informatico e legal-giuslavoristico, e molti i sindacati che in questo panorama di incertezze e disinformazione hanno utilizzato la privacy come spauracchio per limitare ogni tipologia di controllo (anche previsto come possibile per legge) sui lavoratori, nell’ottica di relegare il potere datoriale. [3]

Limitazione che spesso da luogo alle temute inefficienze anche del Ministro.

La questione del lavoro agile svolto con strumenti personali del lavoratore

Nel settore del lavoro pubblico l’ordinamento, fuori dall’emergenza, mostra ampie cautele rispetto al ricorso a strumenti di lavoro non forniti dall’amministrazione. Questa pratica, ammessa in via emergenziale dall’art. 87, comma 2, D.L. 17 marzo 2020, n. 18, ricade comunque sotto la prescrizione dell’art. 4, lett. A), D.P.C.M. 1° giugno 2017 (recante la Dir. n. 3/2017, contenente regole inerenti all’organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti), a mente della quale è sempre “auspicabile” che gli strumenti utilizzati dallo “smart worker” “siano configurati alla lavoratrice o al lavoratore dall’amministrazione medesima, per ragioni di sicurezza e protezione della rete”. In assenza di accordo, giusta la deroga prevista in ragione dell’emergenza, ci si dovrà attenere, ancora una volta, all’art. 4 L. 300/70 e alle previsioni di cui al Reg. UE 2016/679, che, agli artt. 6 e 9, evidenzia come il legittimo interesse del Titolare (e quindi del datore di lavoro) debba sempre essere bilanciato con gli interessi e le libertà fondamentali dell’interessato. L’Opinione n. 2/2017 del Gruppo europeo per la protezione dei dati personali (WP29), ha, a questo riguardo, evidenziato che “in order to prevent monitoring of private information appropriate measures must be in place to distinguish between private and business use of the device”(al fine di prevenire il monitoraggio delle informazioni private, devono essere messe in atto misure appropriate per distinguere tra uso privato e professionale del dispositivo).[4]

Lo smart working come diritto

La questione lavoratori in smart working è stato il tema centrale di questo settembre – soprattutto da quando è stata emanata la disposizione del Governo che obbliga tutti i lavori a munirsi di Green Pass qualora prestino l’attività lavorativa presso i locali aziendali – l’attenzione sulle sorti del lavoro agile è stata massima.

Si è così riproposto il quesito circa la qualificazione dello smart working come diritto (punto I sopra indicato). Molti lavoratori hanno sperato che l’assenza della certificazione verde potesse essere la condizione per non rientrare sul posto di lavoro in presenza.  In realtà non esiste alcun automatismo del genere e nemmeno un diritto generalizzato allo smart working in capo ai lavoratori, pubblici o privati, ma alcune previsioni di legge che riservato a specifiche categorie di lavoratori, pubblici o privati, una sorata di precedenza o preferenza per l’accesso allo smart working. Ad esempio:

  • Il comma 3-bis dell’art. 18, n. 81 del 2017, introdotto dalla legge n. 145/2018, ha disposto che i datori di lavoro pubblici e privati che stipulano accordi per l’esecuzione della prestazione di lavoro in modalità agile (modalità ordinaria e non semplificata[5]) sono tenuti a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in modalità agile formulate dalle lavoratrici madri entro i tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità. La stessa priorità è riconosciuta ai lavoratori con figli in condizioni di disabilità gravi (ex art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104).
  • Esistono poi alcuni casi di precedenza allo smart working per la sola fase emergenziale: lavoratori fragili, con figli minori disabili, etc.[6] In via generale però non esiste un diritto azionabile da qualsiasi lavoratore.

Per quanto attiene al punto II) ossia l’articolazione degli accordi di lavoro agile fra datori di lavoro e lavoratori dopo il periodo emergenziale non possiamo non soffermarci sulla circostanza che la modalità di attivazione semplificata[7] permette di collocare – senza alcun accordo – i lavoratori “a casa” e che ciò lascia sforniti di modalità di esecuzione e valutazione del lavoro entrambe le parti contrattuali (lavoratori e datori di lavoro) diversamente da quanto voluto dalla norma.

Cosa accadrà dopo? Come deve essere l’accordo

La legge sul lavoro agile identifica in una manciata di norme gli elementi che caratterizzano l’Accordo di lavoro agile lasciando, tuttavia, alle parti la libertà di regolare nel modo più coerente rispetto agli obiettivi del singolo progetto di lavoro agile ovvero del più ampio progetto organizzativo aziendale di Smart Working, gli elementi caratterizzanti le modalità di esecuzione della prestazione e le modalità di gestione del rapporto di lavoro.

L’accordo – che può essere a tempo determinato oppure a tempo indeterminato – va stipulato per iscritto, requisito richiesto dalla legge ai fini della regolarità amministrativa e della prova (ed in stretto collegamento con gli obblighi di comunicazione previsti dall’art. 23, comma 1). Esso disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore.

Entro il limite generale della durata massima dell’orario di lavoro (giornaliero e settimanale), l’accordo individua altresì i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione dello stesso dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro.

L’accordo disciplina anche l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali nel rispetto di quanto disposto dall’art. 4, L. 20 maggio 1970, n. 300 e individua le condotte, connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari. Quest’ultimo è un aspetto particolarmente delicato della nuova disciplina che va opportunamente regolato sulla base delle prescrizioni dell’art. 7, L. n. 300/1970 e della contrattazione collettiva – ove applicata – nonché tenendo conto delle implicazioni derivanti dall’applicazione del principio di proporzionalità stabilito dall’art. 2106 c.c. in materia di sanzioni disciplinari.

Sul punto va ricordato che l’art. 7, comma 1, L. n. 300/1970 stabilisce che “le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano”. Nell’orientamento giurisprudenziale prevalente si afferma che la prescrizione in parola può considerarsi rispettata anche se il codice disciplinare non contiene una analitica e specifica predeterminazione delle infrazioni e, in relazione alla loro gravità, delle corrispondenti sanzioni secondo il rigore formale proprio del sistema sanzionatorio penale (Cass. Civ. 10 luglio 2015, n. 14446). Sul punto in effetti, la giurisprudenza ritiene sufficiente che il codice sia redatto in forma tale da rendere chiare le ipotesi di infrazioni, pur dandone una nozione schematica e non dettagliata delle varie, prevedibili o possibili azioni del singolo e recando, in corrispondenza con la condotta, l’indicazione delle previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze (cfr. sul punto Cass. Civ. 25 ottobre 2011, n. 22129).

La fattispecie del tutto nuova del Lavoro agile e delle condotte che potrebbero dare luogo a sanzioni disciplinari, quando non riconducibili alle infrazioni (e relative sanzioni) previste dal CCNL di riferimento, rende oggi rilevante la parallela implementazione del codice disciplinare, mediante confronto con le OOSS, al fine di predisporre la documentazione a supporto dei rinvii che a tale codice è opportuno inserire all’interno dell’accordo di lavoro agile. Ciò è auspicabile soprattutto nell’ipotesi in cui una determinata condotta dovesse costituire anche ipotesi di “giustificato motivo”[8] di recesso dall’accordo di lavoro agile[9] e, sulla base di questo anche ipotesi di recesso dal contratto di lavoro.

 Il nodo della retribuzione

Inoltre per far tacere le voci su una possibile riduzione[10] di stipendio per chi lavorerà da casa in futuro si ricorda che la legge si preoccupa di sancire il diritto per il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’art. 51, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda(sul punto, in merito alla corresponsione dei buoni pasto v. Trib. di Venezia decreto 8 luglio 2020, n. 3463; mentre sul trattamento economico del buono pasto v. Cass. 28 luglio 2020, n. 16135 e Ag. Entrate Risposta a Interpello n. 123 del 22 febbraio 2021; quanto invece alla fruizione oraria dei permessi ex L. n. 104/1992 v. INL, Nota n. 7152/2021).[11]

 Conclusioni

Appare evidente che è quanto mai necessario che il Ministro Brunetta esamini l’esperienza dello smart working nella P.A. ne analizzi le criticità e provveda alla redazione di linee guida utili sui confini dello smart working sia dal lato del lavoratore che della P.A. , sentite le parti sociali. E anche in ambito privato per evitare squilibri dettati da posizioni dominanti vi sia cooperazione dei sindacati per affrontare il futuro del lavoro nei limiti delle leggi e delle previsioni collettive[12].

Ebbene i prossimi mesi saranno decisivi: i datori di lavoro privati oltre a dover organizzare i controlli sui lavoratori e accordarsi individualmente con essi per gli obiettivi da raggiungere dovranno progettare gli scenari per il 2022 ossia per il lavoro agile post pandemia (da attivare con modalità NON semplificate); la pubblica amministrazione dovrà dotarsi di linee guida – come anticipato dal Ministro Brunetta – per il ritorno in presenza e controllo del Green Pass (oltre che ad un piano che tenga in considerazione le assenze di chi non ne sia munito). I sindacati hanno ora avanti a sé nuove e importanti sfide:

  • regolamentare a seconda delle diverse categorie imprenditoriali i diritti e doveri delle parti dei lavoratori in smart working, che si prevede saranno la maggioranza (es: controlli a distanza, diritto alla disconnessione, orari, rendimenti, etc.);
  • la spinosa questione circa l’utilizzo di dispositivi del lavoratore e i relativi controlli;
  • la necessità di sostituire [13]i lavoratori sospesi (quando non muniti di green pass) e i loro diritti e molto altro in un’ottica di efficienza anche per la realizzazione al meglio degli obiettivi del PNRR.

Note

[1] https://www.corriere.it/economia/lavoro/21_settembre_16/smart-working-chi-ne-ha-diritto-cosa-succede-il-green-pass-f73f7d6e-1728-11ec-8284-145049fd3f8d.shtml

[2] Sulla disciplina del “lavoro agile” e del “telelavoro” si innesta la questione interpretativa relativa alla sorte dei controlli difensivi “occulti”. L’obbligo (apparentemente) incondizionato di adeguata informazione al lavoratore quale espressa condizione di utilizzabilità dei dati sembra eliminare qualsiasi residuo spazio di legittimità per i controlli eseguiti in forma occulta. La questione, oggi, va letta alla luce della sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa al caso Lόpez Ribalda c. Regno di Spagna del 17 ottobre 2019 che impone di esaminare l’obbligo di informazione preventiva nella prospettiva del giudizio di bilanciamento convenzionale tra diritto alla protezione della riservatezza (art. 8 CEDU) rispetto al contrapposto, ma pari-ordinato, diritto alla protezione della proprietà (art. 1 del Protocollo addizionale del 20 marzo 1952).

[3] Il vero timore dei sindacati, a parere di chi scrive, risiede nei potenziali risvolti della raccolta dati – inevitabile – durante le prestazioni svolte da remoto o comunque per il tramite di strumenti informatizzati ossia una misurazione del rendimento medio che porta con sé la possibilità di delineare la c.d. “prestazione minima” dovuta e dar luogo – per chi vi rientri – a licenziamenti per scarso rendimento. La prova della fondatezza di un tale licenziamento diverrebbe per parte datoriale certamente più semplice. (Forse un’arma in più per Brunetta che non dovrebbe farsi sfuggire.)

[4] Lavoro nella Giur., 2020, 5, 495 (commento alla normativa) “Coronavirus, Controlli E “Privacy” Nel Contesto Del Lavoro” di Andrea Sitzia – Professore associato di Diritto del lavoro nell’Università degli studi di Padova

[5] L’azienda può disporre durante il periodo emergenziale – attualmente previsto fino al 31.12.21 – il lavoro agile d’emergenza (c.d. smart working semplificato ossia senza accordi) per tutti i suoi lavoratori, dunque senza disciplinare la prestazione come invece prevede la legge sul lavoro agile, L. n. 81 del 2017 (ove si precedono regole, diritti e doveri per il datore di lavoro e i lavoratori). Lo smart working semplificato: l’azienda può decidere di far lavorare da remoto tutti i suoi dipendenti anche a rotazione oppure al 100%. In alcune grandi aziende come Enel, Vodafone, Telecom, Bnl, American Express, dove quasi la totalità dei dipendenti lavora ancora da remoto non si porrà il problema del Green Pass fintanto che il lavoratore non dovrà accedere ai locali aziendali.

[6] Il comma 2bis dell’art. 26 d.l. 18/2020, introdotto dal D.L. 14 agosto 2020, n. 104, a seguito della L. 30 dicembre 2020 n. 178 c.d. legge di bilancio prescrive che a decorrere dal 16 ottobre 2020 e fino al 28 febbraio 2021 “i lavoratori fragili

di cui al comma 2 svolgono di norma la prestazione lavorativa in modalità agile”. La disposizione, riferibile sia ai lavoratori pubblici che privati, attribuisce ai lavoratori fragili (i.e. i lavoratori immunodepressi o a rischio ad esito di patologie oncologiche, o sottoporti a terapie salvavita, o i disabili gravi ex art. 3, co. 2 l. 104/1992) il diritto di svolgere la prestazione lavorativa in smart working, Come da ultimo disposto dal d.l. 41/2021.

Poi, l’art. 2 co. 1, D.L. 30/2021 riconosce al lavoratore dipendente, pubblico o privato, genitore di figlio convivente minore di 16 anni, alternativamente all’altro genitore, la possibilità̀ di svolgere la prestazione di lavoro in modalità̀ agile per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della sospensione dell’attività̀ didattica o della quarantena del figlio disposta dalla ASL territorialmente competente a seguito di contatto ovunque avvenuto.

l’art. 2, co. 1-bis, D.L. 30/2021 riconosce il diritto al lavoro agile cumulativamente ad entrambi i genitori, a prescindere dall’età in caso di figli disabili, con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) o BES (bisogno educativi speciali) in DAD, quarantena o affetti da Covid o in caso di chiusura dei centri assistenziali diurni.

[7] L’azienda può disporre durante il periodo emergenziale – attualmente previsto fino al 31.12.21 – il lavoro agile d’emergenza (c.d. smart working semplificato ossia senza accordi) per tutti i suoi lavoratori, dunque senza disciplinare la prestazione come invece prevede la legge sul lavoro agile, L. n. 81 del 2017 (ove si precedono regole, diritti e doveri per il datore di lavoro e i lavoratori). Lo smart working semplificato: l’azienda può decidere di far lavorare da remoto tutti i suoi dipendenti anche a rotazione oppure al 100%. In alcune grandi aziende come Enel, Vodafone, Telecom, Bnl, American Express, dove quasi la totalità dei dipendenti lavora ancora da remoto non si porrà il problema del Green Pass fintanto che il lavoratore non dovrà accedere ai locali aziendali

[8] Il recesso regolato dall’art. 19, comma 2, L. n. 81/2017 è solo un recesso dall’accordo di lavoro agile, che non influisce sul recesso dal contratto di lavoro. La norma prevede, a questo riguardo che in caso di contratto a tempo indeterminato, il recesso può avvenire con un preavviso non inferiore a trenta giorni. In presenza di un giustificato motivo, ciascuno dei contraenti può recedere prima della scadenza del termine nel caso di accordo a tempo determinato, o senza preavviso nel caso di accordo a tempo indeterminato. La norma però non indica cosa intende per “giustificato motivo”. Ciò determina la opportunità di prevedere, all’interno dell’accordo (così come avviene in termini di sanzioni disciplinari) quali eventi le parti considerano come ipotesi di “giustificato motivo”, tipizzandole in relazione alle esigenze connesse alla prestazione lavorativa e alla necessità di conciliare vita e lavoro dal lato del lavoratore e, in relazione alle esigenze dell’organizzazione dal lato del datore di lavoro.

[9]In questo ambito si ricorda che l’art. 30, comma 3, L. n. 183/2010 consente di “tipizzare” le ipotesi di recesso su accordo tra le parti mediante il contratto collettivo ovvero mediante l’assistenza delle Commissioni di certificazione di cui all’art. 76 e segg., D.Lgs. n. 276/2003: “Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni. Nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, il giudice tiene egualmente conto di elementi e di parametri fissati dai predetti contratti e comunque considera le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento”.

[10] https://www.corriere.it/economia/lavoro/21_agosto_08/smart-working-accetteresti-taglio-stipendio-non-tornare-piu-ufficio-624aa366-f534-11eb-be09-a49ff05c6b25.shtml

[11] https://www.inpratica.leggiditalia.it/#id=10DT0000029773ART13,highlight=1,__m=document

[12] E’ bene poi ricordare che molte e categorie di lavoratori hanno infatti beneficiato di questo tipo di organizzazione, il tema sugli aspetti positivi dello smart working è vasto e tocca tanti aspetti importanti del lavoro moderno: il ruolo delle donne e la necessità di conciliare vita e famiglia, l’assistenza agli anziani, il mobbing e alcune forme di abuso psicologico di molestie sui luoghi di lavoro, etc. Inoltre, non è meno importante l’effetto sulla produttività dei singoli, ragione sottesa come detto in apertura alle scelte di Brunetta. Infatti, molti lavoratori sembrano essere divenuti più produttivi lavorando “per obiettivi” da remoto, un aspetto forse psicologico da indagare soprattutto nell’ambito delle risorse umane.

Nuove tipologie di lavoro portano a nuove forme di controllo (ad esempio realizzazione degli obiettivi, etc.), forse è l’occasione per rivedere alcune dinamiche del lavoro pubblico indagando soprattutto gli effetti positivi del lavoro agile e dettando le linee guida più idonee alla realizzazione degli obiettivi della P.A. . E’ altrettanto vero che lo smart working per molti servizi (in particolare per i cittadini) della Pubblica Amministrazione significherebbe “non efficienza” e che solo l’emergenza da Covid ha giustificato questa scelta.

[13] https://www.corriere.it/economia/finanza/21_settembre_17/chi-senza-green-pass-puo-essere-sostituito-aziende-meno-15-dipendenti-c20b48e6-17c6-11ec-b2b6-639c253d3354.shtml

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