Attenzione, fermiamo la ritirata dallo smart working. Sarebbe un gravissimo errore.
Brunetta e la ritirata sbagliata dallo smart working
Ne parliamo perché in questi giorni il Ministro Brunetta ha annunciato l’intenzione del Governo di ridurre drasticamente lo Smart Working, facendo rientrare tutti i dipendenti pubblici in ufficio già a partire da fine settembre. Il “lavoro agile” sarebbe ridotto solo al 15%.
- Due le motivazioni addotte, la prima è quella di contribuire ad accelerare la crescita all’economia, grazie all’impulso che deriverebbe da questa misura a settori come ristorazione collettiva, caffetteria, abbigliamento e altre attività indotte.
- La seconda motivazione sarebbe quella di migliorare i servizi pubblici, rimuovendo l’inefficienza dovute all’assenza del personale dagli uffici.
Perché sarebbe un gravissimo errore tornare agli uffici
Questa misura rappresenterebbe, a parere di chi scrive, un gravissimo errore che, in controtendenza con quanto sta avvenendo in tutto il mondo, imporrebbe alla PA un modello di organizzazione del lavoro rigido ed arretrato che, oltre a limitarne la possibilità di modernizzazione ed efficienza del lavoro pubblico, ne pregiudicherebbe gravemente l’attrattività nei confronti delle persone di talento.
Smart Working nella PA, verso la “nuova normalità”: ecco le ultime norme
Lo smart working nella PA, le leggi in Italia
Per comprendere le ragioni di questa tesi occorre innanzitutto fare un passo indietro.
Smart working nella PA, dalla riforma Madia
A partire dalla riforma Madia, lo Smart Working è stato spinto come strumento di modernizzazione e managerializzazione della PA. Un’adozione matura dello Smart Working, infatti, oltre a favorire benessere e conciliazione, spinge i lavoratori ad una maggiore autonomia e responsabilizzazione, consentendo un migliore orientamento alle performance. Nonostante gli obiettivi posti e le misure di accompagnamento, e nonostante anche gli ottimi risultati conseguiti nelle Amministrazioni che per prime lo hanno adottato, prima della pandemia lo Smart Working nella PA restava confinato ad una percentuale di lavoratori tra l’1 e il 2%, assai inferiore a quella del settore privato.
La Pandemia ha marcato una forte discontinuità: nei mesi terribili del lockdown lo Smart Working ha consentito alla Pubblica Amministrazione di continuare ad operare. Durante l’emergenza sanitaria circa la metà dei lavoratori pubblici hanno sperimentato forme più o meno forzate di Smart Working. È del tutto naturale che in questo percorso si siano create sacche di inefficienza e rallentamenti, ma l’alternativa in quel momento non era “la normalità”, bensì la paralisi dei servizi pubblici o la messa a repentaglio della salute dei dipendenti pubblici e della collettività. Sebbene improvvisata ed estrema quest’esperienza ha insegnato che, anche nella PA, si possono riorganizzare i processi e le attività all’insegna della flessibilità e della digitalizzazione, creando modelli di servizio più resilienti, sostenibili ed efficienti. La stragrande maggioranza di lavoratori e dirigenti e della PA ritiene che lo Smart Working sperimentato in emergenza rappresenti un’esperienza preziosa, un punto di partenza imprescindibile per progettare il futuro del lavoro nella PA. Alla luce dei risultati la Ministra della PA era giunta a definire lo Smart Working non più “sperimentazione” o misura di emergenza, bensì normale modalità di organizzazione del lavoro nella Pubblica Amministrazione, chiedendo ad ogni Ente di formulare un Piano Annuale per il Lavoro Agile e costituendo un Osservatorio Nazionale per il Lavoro Agile nella PA.
Lavoro agile col Governo Draghi
Con il cambio di Governo e il progressivo miglioramento della situazione sanitaria, le misure per forzare l’applicazione dello Smart Working sono state progressivamente “allentate”. Lo scorso aprile, l’articolo 1 del D.L. n. 56/2021 ha rimosso l’obbligo di applicazione del lavoro agile ad almeno il 50% del personale in forza all’interno dello stesso ufficio. I dipendenti pubblici sono stati chiamati a continuare a lavorare da casa “laddove il perdurare dell’emergenza sanitaria da Covid-19 lo renda necessario a condizione che l’erogazione dei servizi rivolti a cittadini e imprese avvenga con regolarità, continuità ed efficienza e nel rigoroso rispetto dei tempi previsti dalla normativa vigente.”
Questa scelta, sebbene potesse essere letta come una diminuzione di spinta politica nei confronti dello Smart Working, è stata salutata da molti positivamente, in quanto l’imposizione di percentuali minime di lavoratori uguali per ogni Amministrazione rischiava di deresponsabilizzare i dirigenti della PA, andando contro allo spirito spesso dello Smart Working che mal si concilia con una logica di omologata e di “adempimento”.
Perché sarebbe un gravissimo errore la retromarcia
Oggi però la nuova stretta annunciata dal Ministro, con la richiesta di ritorno al lavoro in presenza definito come “anima della ripresa”, rappresenta una retromarcia che rischia di risultare ingiustificatamente punitiva nei confronti dei lavoratori pubblici e di avere pesanti ripercussioni per la PA e il Paese.
Le stesse motivazioni addotte per tale richiesta, oltre ad essere logicamente e scientificamente deboli, rischiano di rivelarsi estremamente dannose dal punto di vista della comunicazione.
La prima motivazione è, come già ricordato, il possibile impulso dato dal rientro in presenza ai consumi nei settori della ristorazione collettiva, caffetteria, abbigliamento e altre attività indotte. Il segnale che in questo modo si passa ai lavoratori è che ciò che contribuisce alla ripresa non è il loro impegno e contributo professionale, bensì la loro spesa come consumatori di pasti fuori casa e abbigliamento, e ciò anche a prezzo di un loro minor benessere ed equilibrio personale e professionale.
Si tratta di una prospettiva economica a nostro avviso miope, per certi versi avvilente. La priorità del nostro Paese, e in particolare della nostra PA, non è incrementare i consumi dei dipendenti pubblici – abbiamo oggi modi più produttivi di stimolare la domanda – ma piuttosto contribuire alla crescita di fattori fondamentali come sostenibilità ambientale, resilienza, digitalizzazione e produttività.
Si tratta delle sfide fondamentali previste dal PNRR alle quali lo Smart Working può dare un contributo sostanziale. Recenti stime del World Economic Forum parlano di un incremento della produttività negli Usa grazie al nuovo modo di lavorare del 4,6%. Le evidenze raccolte dal Politecnico di Milano già prima della pandemia parlano di incrementi di produttività grazie allo Smart working di oltre il 10%, di riduzione dei costi vivi per gli immobili tra il 30 e il 50%, di miglioramenti dell’impatto ambientale e di aumento dell’inclusione. Tutti impatti e benefici che, sull’altare di un preteso stimolo ai consumi, questo nuovo indirizzo del governo sembra oggi ignorare.
La seconda motivazione è quella del contributo che il lavoro in presenza darebbe al miglioramento dei servizi pubblici la cui qualità è stata danneggiata da un ricorso eccessivo e spesso ingiustificato allo Smart Working.
Posto che è inevitabile che la pandemia abbia prodotto ritardi e disagi nell’erogazione dei servizi pubblici, appare del tutto ingenerosa e infondata l’assunzione che tali disagi siano dovuti all’utilizzo dello Smart Working. Senza voler cadere nel medesimo errore di generalizzazione, è innegabile come in molti casi sia avvenuto il contrario: benché spesso improvvisata, l’applicazione dello Smart Working ha consentito di tenere in piedi i servizi pubblici, e questo spesso grazie all’impegno eccezionale di lavoratori che durante l’emergenza hanno messo a disposizione con generosità tempo, strumenti e creatività per far fronte a richieste eccezionali nella domanda di servizi.
La colpa dei disagi non è dello smart working
E’ altrettanto innegabile che in altri casi ciò è avvenuto e che ci siano aree della PA in cui l’impreparazione tecnologica, organizzativa e manageriale ha fatto sì che lo Smart Working non funzionasse e che quindi la necessità di remotizzazione dei lavoratori si traducesse in un drastico deterioramento dei servizi, quando non in una loro sostanziale paralisi. Man mano che si allentano i vincoli legati allo stato di emergenza, diventa possibile e necessario evitare pericolose generalizzazioni ed entrare nel merito di quanto accaduto, non tanto e solo per valutare i comportamenti, quanto per consolidare i risultati positivi e identificare e rimuovere le aree di inefficienza.
Come fare uno smart working efficiente nella PA
Ciò che serve è quindi un’analisi approfondita delle prestazioni rese dai diversi enti che identifichi:
- servizi pubblici per i quali la produttività e la qualità per il cittadino si sono ridotte per effetto dell’eccessivo ricorso al lavoro da remoto e per i quali, alla luce delle mutate condizioni sanitarie, è oggi possibile ed opportuno prevedere un ritorno al lavoro in presenza;
- servizi pubblici che hanno visto, per effetto del lavoro da remoto e della conseguente riorganizzazione, un miglioramento di produttività e qualità, per i quali occorre premiare e consolidare i risultati, stabilendo anche come, alla luce delle mutate condizioni, è possibile dare ai lavoratori ancora maggiore autonomia e possibilità di scelta relativa al luogo di lavoro; e infine
- servizi nei quali un ricorso allo Smart Working si è dimostrato possibile e potenzialmente efficace, ma solo a fronte di un percorso di interventi tecnologici, formativi e di ridisegno di processi e servizi.
Avremo così a disposizione una “mappa” del lavoro agile che potrà essere preziosa anche in vista del processo di riforma della PA previsto dal PNRR. Non si può oggi agire di istinto e per preconcetti basati su dati parziali perché la posta in palio è troppo importante: il nostro Paese vive oggi una fase delicatissima in cui c’è bisogno del contributo e della motivazione di tutti per dare più stimolo alla digitalizzazione, alla modernizzazione e all’efficienza della PA.
Una PA che nei prossimi anni dovrà non solo accompagnare la ripresa, ma costituirne un motore e che, per fare questo, dovrà diventare sempre più attrattiva nei confronti dei talenti in modo da poter portare avanti efficacemente il ricambio generazionale ed acquisire in particolare quel personale altamente qualificato indispensabile per rendere possibile i progetti previsti dal PNRR.
Bandi poco attrattivi di talenti nel pubblico
L’indirizzo espresso dal Governo rischia di non contribuire affatto in questa direzione: l’esito degli ultimi bandi di reclutamento ha messo in luce come sia già non semplice attrarre nella PA persone con elevate competenze, potendo offrire contratti per lo più transitori e salari spesso decisamente più bassi che nel privato, se a questo si aggiunge la pretesa di imporre modelli di lavoro rigidi in controtendenza con quanto avviene nel settore privato, la sfida rischia di diventare proibitiva.
L’impatto rischia di essere tutt’altro che secondario: numerose ricerche mettono in luce come flessibilità e Smart Working costituiscano oggi per i lavoratori un fattore di attrazione fondamentale, considerato quasi al pari di retribuzione e sicurezza contrattuale; negando alle PA la possibilità di proporre lo Smart Working, quindi, non solo si deprimono e frustrano i lavoratori attuali, ma ci si priva sostanzialmente della possibilità di competere per attrarre i migliori talenti, e questo proprio nel momento in cui la PA deve affrontare un gigantesco ricambio generazionale.
In conclusione
Al di là dei proclami di questi giorni non è troppo tardi perché il buon senso prevalga. Bisogna evitare semplificazioni e sterili e dannose contrapposizioni ideologiche, ed entrare nel merito del fenomeno, con apertura, senso critico e razionalità, andando verso quel modello di lavoro ibrido, moderno e autenticamente Smart, di cui tutte le organizzazioni, ma particolarmente le nostre Pubbliche Amministrazione, hanno bisogno per essere competitive.