E così, entro il 30 ottobre, i lavoratori della Pubblica Amministrazione abbandoneranno lo smart working e rientreranno al lavoro presso la loro “sede di servizio”.
Ciò che mi preoccupa, non è tanto la misura in sé contenuta nel Decreto firmato dal Ministro Renato Brunetta, quanto piuttosto il retropensiero, il non detto ma intuibile, che sta alla base di questa misura.
Questo retropensiero, indipendentemente dallo smart working, è culturalmente antico e può così influire negativamente sulle misure da adottare per riformare davvero la Pubblica Amministrazione.
Lo smart working PA diventa eccezione: novità e sfide dopo il “decreto Brunetta”
L’idea che il lavoro della PA si possa fare solo in presenza e che debba essere “controllato fisicamente”, l’idea che il servizio ai cittadini debba avvenire prevalentemente “in presenza”, contrasta con gli effetti dell’innovazione digitale e con i cambiamenti che essa produce nel lavoro di front e back office ma, anche sulle relazioni che si auspica debbano evolversi verso i cittadini.
Per carità, non sono io quello che negherà che nella PA ci siano sacche di conservazione organizzativa e culturale e di arretratezza tecnologica ma, da ciò, generalizzare in modo negativo l’intera PA mi lascia fortemente contrariato.
Smart working nella PA, l’impianto culturale del decreto
Ma cosa dice il decreto, oltre a stabilire che nei 15 giorni successivi al 15 ottobre il personale della PA dovrà operare presso la “sede di servizio”?
Innanzitutto, si afferma che lo smart working è una modalità di lavoro legata all’emergenza Covid. Esso, infatti, viene definito “lavoro agile emergenziale”.
Ritorna la vecchia idea, figlia del telelavoro, che il lavoro decentrato sia concedibile in modo residuale a fasce periferiche di lavoratori, per lavori marginali e dequalificati. Il lavoro decentrato è legato a stati di disagio, a funzioni “non pregiate”. Nel caso dello smart working esso viene definito, appunto “lavoro agile emergenziale”.
L’impianto culturale del decreto del Ministro Brunetta sembra contraddire gli effetti dei processi di transizione digitale già in divenire o attesi, figli dell’applicazione del Codice dell’Amministrazione digitale (e delle diverse versioni del Piano triennale).
È innegabile che molti servizi offerti dalla PA siano ormai fruibili dai cittadini in modalità digitale attraverso l’identificazione con SPID/CIE/CNS. Durante il lockdown molti cittadini hanno cominciato a utilizzare, per comunicare con la PA, le mail e le PEC. I cittadini hanno quindi imparato che non ha più senso alcuno presentarsi a uno sportello per ottenere i servizi che possono essere invece erogati in modalità digitale.
Le contraddizioni della logica della “presenza”
Che logica ha affermare, come fa il decreto, che si assicurerà “da subito, la presenza in servizio del personale preposto alle attività di sportello e di ricevimento degli utenti (front office) e dei settori preposti alla erogazione di servizi all’utenza (back office), anche attraverso la flessibilità degli orari di sportello e di ricevimento dell’utenza”. Non penso che si voglia tornare alle code a un ufficio anagrafe di un Comune quando i certificati, grazie ad ANPR, si potranno scaricare online, o ancora al “pellegrinaggio” all’ufficio protocollo per consegnare una qualsiasi pratica quando ormai si utilizza SPID.
In questi casi si evidenzia pienamente il retropensiero negativo sia sui dipendenti della PA che sui cittadini. Vengono negati i “numeri” oggettivi presentati da AGID sul sito “avanzamento digitale”, in primis le oltre 25 milioni di identità SPID in mano ai cittadini da sfruttare meglio implementando i servizi da rendere disponibili online. Altro ché priorità del lavoro allo sportello.
Nelle prossime settimane il varo del “domicilio digitale del cittadino” accentuerà ancor di più questo processo di dematerializzazione nei rapporti tra la PA e il cittadino.
Peraltro, in questo modo si contraddice il quadro di accelerazione della transizione al digitale della PA così come previsto dal PNRR.
Non sono così ingenuo dal negare che molte attività consulenziali si debbano svolgere in presenza, a diretto contratto con il cittadino (penso all’Inps o all’Agenzia delle Entrate o agli uffici che nei Comuni trattano i liberi professionisti e le imprese).
Una PA, molti livelli di efficienza e innovazione
Non ho alcun dubbio che, soprattutto in alcune situazioni della PA centrale o in alcuni uffici dei grandi Comuni o delle Regioni, laddove l’eccesso di burocratizzazione ha prodotto nel tempo difficoltà nel processo di innovazione, lo smart working generalizzato abbia evidenziato le già presenti sacche di inefficienza. Ma la causa dell’inefficienza e della mancata digitalizzazione non è lo smart working.
Sicuramente, il Governo avrebbe potuto agire in modo diverso, selettivo, rispetto alle diverse attività e servizi erogati dalle PA.
I servizi di consulenza si devono erogare “prevalentemente” in presenza; viceversa, nelle attività di “sportello”, dove si sono sviluppate di più le piattaforme digitali, lo smart working non dovrebbe essere limitato. A differenza di quanto afferma il decreto, nelle attività di back office, laddove si sono sviluppate piattaforme fruibili in cloud che rendono disponibili in modalità decentrata dati e gestionali, va incentivato lo “smart working”. Anche in questo caso mi sembra ridicola e figlia di una visione antica della PA la prescrizione secondo la quale “l’amministrazione deve aver previsto un piano di smaltimento del lavoro arretrato, ove sia stato accumulato”.
In Italia esistono molte PA, diverse tra di loro nelle funzioni che svolgono, nel livello di innovazione adottato, nella volontà di innovare. E, anche nella stessa tipologia di PA si manifestano attitudini e livelli di innovazione e di servizio ai cittadini molto diversi tra di loro.
A questo punto deve manifestarsi, da parte del legislatore la capacità e la volontà di offrire tutti gli strumenti per programmare i processi di digitalizzazione e per incentivare l’innovazione, per disincentivare ogni atteggiamento di conservazione e di resistenza al cambiamento. Ciò vale per gli Enti (le diverse PA) e per i lavoratori, a partire dai livelli apicali.
La misurazione dell’efficacia dello smart working per incentivare l’innovazione – al netto delle condizioni infrastrutturali e delle dotazioni necessarie – dovrebbe essere uno degli obiettivi da valutare. Lo smart working, infatti, può essere uno strumento di incentivazione dell’innovazione nella PA.
Le opportunità del Piano integrato di attività e organizzazione
Ritengo che il PIAO (Piano integrato di attività e organizzazione) possa essere una straordinaria opportunità per migliorare gli strumenti di pianificazione e di controllo.
L’abbandonare la pletora di piani oggi obbligatori per PA, per concentrarsi su un unico e coerente processo di pianificazione, è una straordinaria opportunità per aiutare a definire i criteri di valutazione del lavoro, anche quello svolto da remoto.
Insomma, anche nel PIAO va abbandonata la logica secondo la quale “lo svolgimento della prestazione di lavoro in modalità agile non deve in alcun modo pregiudicare ridurre la fruizione dei servizi resi all’amministrazione a favore degli utenti;”. L’affermazione è astrattamente corretta, tautologica si potrebbe dire, essa in realtà non è vera perché non è il lavoro agile il fattore che genera inefficienza e un pessimo servizio ai cittadini.
Il PIAO dovrebbe pianificare il processo di transizione al digitale anche per delineare le “tappe di avvicinamento” a quanto previsto dal PNRR e dal CAD; in questo contesto andrebbero individuati i servizi che si possono svolgere in regime di smart working ed essi andrebbero incentivati come effetto virtuoso del processo di transizione al digitale.
Conclusioni
Infine, l’ulteriore contraddizione del Decreto si manifesta laddove si auspica l’adozione di piattaforme cloud e che “e) l’amministrazione, inoltre, mette in atto ogni adempimento al fine di fornire al personale dipendente apparati digitali e tecnologici adeguati alla prestazione di lavoro richiesta;”.
Ma, come dovrebbe essere evidente, il diffondersi dell’utilizzo del cloud e la disponibilità di apparati tecnologici per i lavoratori sono le precondizioni per una diffusione del lavoro decontestualizzato.
Da un lato si invita alla diffusione dell’innovazione digitale, dall’altra si relega il lavoro pubblico esclusivamente alla presenza e alla rigidità.
Si deve invece comprendere che l’avanzamento della transizione al digitale renderà sempre di più obsoleta, inefficiente e costosa la prestazione svolta prevalentemente in presenza.