Il PNRR e l’inevitabile accelerazione dei processi di digitalizzazione nella PA -peraltro già previsti e “scadenzati” da tempo dall’attuale quadro normativo- possono creare le condizioni oggettive affinché quote rilevanti del lavoro pubblico, oggettivamente, si svolgano in modalità “decontestualizzata”.
Ma ci sono delle condizioni indispensabili per poter garantire efficaci modalità lavorative in regime di smart working: non è, dunque, un problema di “percentuali”, come sostenuto dal ministro Brunetta, ma di un nuovo approccio “culturale” alla questione.
E questo vale quindi anche per lo smart working nella PA.
Smart working nella PA? Ecco perché può diventare norma, non eccezione
Smart working in emergenza
Questo principalmente perché, purtroppo, in Italia il boom dell’utilizzo dello smart working, sia nel mondo pubblico che in quello privato, è avvenuto a seguito dell’esplosione di una emergenza, l’epidemia Covid.
Per carità, seppure in forma molto residuale, la previsione di attività “da remoto”, nel mondo della Pubblica Amministrazione, era già prevista dalla legislazione italiana, ma lo smart working era considerato come una forma secondaria, sperimentale -nel migliore dei casi- della prestazione lavorativa pubblica.
Di fronte ad una emergenza si è legiferato che il “lavoro agile” – eufemismo italiano per definire lo smart working- era la “modalità ordinaria”, “prioritaria” di operare nel pubblico impiego. Siamo sinceri, è stato un po’ come il gettare il cuore oltre all’ostacolo.
Seguendo un metodo di pensiero diametralmente opposto, ma analogo, il Ministro Brunetta, di fronte alla fine dell’emergenza Covid, ha decretato il rientro nei posti di lavoro pubblici -il fantomatico lavoro in presenza- teorizzando il ritorno alla normalità e all’efficienza.
Secondo il Ministro, il lavoro in presenza “è il lavoro principe” nel pubblico impiego. Ovviamente, la polemica impazza e gli estremi si scontrano.
Smart working nella PA, non sprechiamo un’esperienza preziosa
Il generale ricorso allo smart working in una situazione emergenziale, non aveva mai tenuto in conto, se non ex post, delle condizioni oggettive, normative, culturali e infrastrutturali affinché, lo smart working diventasse la modalità ordinaria di lavoro.
Nel mondo pubblico esisteva l’esperienza del telelavoro, ma, come già detto, era marginale e in tutti i casi legata ad attività secondarie, legate a condizioni particolari di disagio vissute da un lavoratore.
Durante il lockdown si sono sviluppati studi e contributi da più parti, anche da parte delle Regioni (ad esempio Emilia Romagna) e dal Ministero della Funzione Pubblica (a partire dalle Linee Guida), finalizzati a dare dignità, futuro e strategia allo smart working.
Sarebbe sbagliato sprecare queste preziose esperienze, oltre che un “vissuto diverso” da parte di migliaia di lavoratori del pubblico impiego, per ritornare al passato, all’idea del timbrare il cartellino (o, se volete, lascia la tua impronta digitale).
E, in tutti i casi, associare la fine dello smart working al green pass sembra assolutamente improprio. Chi scrive, in tutti i casi sostiene che tutti i dipendenti pubblici (e privati) debbano avere obbligatoriamente il green pass.
Green pass obbligatorio in Italia, agosto e settembre: novità sul filo della costituzione
PNRR e “decontestualizzazione” del lavoro pubblico
Ho utilizzato il termine “decontestualizzazione”, perché le piattaforme digitali, le attività svolte, i servizi erogati, eliminano, potenzialmente, l’idea ottocentesca e novecentesca secondo la quale il lavoro, obbligatoriamente, si debba svolgere in un luogo fisico ad esso deputato.
Ovviamente non tutte le attività si possono svolgere in modalità decontestualizzata. In un Comune, l’attività di sorveglianza della Polizia Municipale, ovviamente ha ambiti precisi di svolgimento, ma, una attività semplice come quella del protocollo degli atti si può svolgere, ad alcune condizioni, in regime di smart working.
Ad alcune condizioni dicevo. Il realizzarsi di quelle condizioni (tra un attimo, seppure sommariamente ne dirò alcune) crea l’opportunità per l’Amministrazione e per il lavoratore di operare in modo “decontestualizzato”.
Mi sembra perciò enormemente sbagliata la politica delle quote percentuali di lavoratori che potrebbero fruire dello smart working. Non è un problema di percentuali, ma di condizioni da realizzare.
Sicuramente, una delle preoccupazioni del Ministro Brunetta che hanno un forte fondamento, è quella secondo la quale il lavoro della PA non può essere monitorato nella sua efficacia, se non in un luogo fisico, attraverso il controllo “de visu”. Siamo sempre, da parte del Ministro -ma non riguarda solo lui- al retropensiero che il lavoratore pubblico debba essere costantemente sorvegliato per “dare il meglio di sé”.
Naturalmente il pensiero del Ministro ha un qualche importante fondamento.
I sistemi di valutazione nella PA -a partire dal piano delle performance nei Comuni- sono molto discutibili nella loro applicazione pratica. Peraltro, il fatto che il DUP (Documento unitario di programmazione) e il PEG (Piano economico gestionale) siano approvati da organismi politici sfalsa spesso gli obiettivi. Chiaramente, la definizione degli obiettivi programmatici deve essere propria degli organismi politici. Ma la traduzione degli obiettivi programmatici in “performance individuali” o “performance d’ufficio”, c’entra poco con il decisore politico. E ciò anche perché al raggiungimento degli obiettivi sono legate parti importanti del salario.
Oggi vengono premiate attività ordinarie, come il tempo impiegato da una struttura nell’asfaltatura di una strada, e non si considerano le attività, trasversali, come quelle legate ai processi di digitalizzazione per i quali, nonostante la loro importanza, spesso non sono previsti riconoscimenti. Semplicemente, il processo di digitalizzazione non viene considerato come fondamentale per raggiungere una migliore efficienza gestionale e dare più qualità ai servizi erogati.
Come è noto il D.L. 80/2021 (convertito) prevede, tra le altre, la riforma e la semplificazione dei processi di programmazione. Dovrà essere questa l’occasione per stabilire i criteri e la gestione delle performance adeguati alla profonda trasformazione della P.A. prevista dal PNR.
In questo contesto, valorizzando e premiando in primis l’assunzione di responsabilità da parte dei livelli apicali, va definita la griglia di attività che, in base ad alcune condizioni, anche infrastrutturali, possono essere realizzate in regime di smart working. Sottolineo, “le attività”.
Insomma, non sta scritto da nessuna parte che il “controllo” del raggiungimento di un obiettivo da parte di un lavoratore debba essere legato alla presenza e alla timbratura di un cartellino. Il problema non è quello della presenza, ma quello della definizione di obiettivi e dell’assunzione di responsabilità da parte dei dirigenti.
Un’altra condizione indispensabile per consentire un serio lavoro in regime decontestualizzato è quella della “infrastrutturazione digitale”.
Non affronto qui, perché oggettivamente scontati i temi della dotazione di fibra e di connettività, la sicurezza delle comunicazioni e dei device, l’adozione di infrastrutture in cloud, la dotazione di device “sicuri” tra i dipendenti pubblici. Mi limito ad osservare che, non dappertutto, le PA, e i Comuni in particolare -soprattutto quelli di piccole dimensioni- sono in condizione di gestire una infrastrutturazione efficiente.
Ma, una corretta applicazione di quanto previsto dal PNRR dovrebbe, nel tempo risolvere tali carenze di tipo infrastrutturale.
Le due condizioni essenziali per lo smart working nella PA
Resta sullo sfondo un problema decisivo. La mancata, totale, digitalizzazione del back office gestionale. Se, come più volte sostenuto, l’input verso la PA da parte dei cittadini e delle imprese è ormai in larga parte digitale, la gestione regolamentare e culturale del back office segue ancora criteri culturalmente analogici.
La piena digitalizzazione e l’accesso in modalità condivisa al flusso documentale
Ricordo che il 1° gennaio 2022 scatterà la piena applicabilità delle linee guida AGID sulla formazione, gestione e conservazione del documento informatico. La conseguente digitalizzazione del back office, indispensabile per dare piena attuazione a quanto previsto dalle linee guida, non è catalogabile solo in una visione archivistica, bensì il suo successo è legato ad una evoluzione culturale e di efficienza della PA attraverso la piena digitalizzazione dei flussi documentali.
Uno dei problemi più gravi nella gestione dello smart working è stata quella di poter fruire da remoto, in modalità condivisa, del flusso documentale e di tutte le informazioni.
La stragrande maggioranza dei Comuni non fascicola digitalmente. E, laddove si fascicola digitalmente, spesso prevale la cultura archivistica su quella gestionale.
La piena digitalizzazione e l’accesso in modalità condivisa al flusso documentale è la condizione per poter lavorare, anche in forma oggettivamente monitorata, in modo decontestualizzato.
Ho insistito molto sul tema digitalizzazione e condivisione, perché la fascicolazione digitale è un modo regolato per poter lavorare in team disponendo tutti, sulla base di regole precise, delle informazioni necessarie per poter portare a buon fine un procedimento.
Accesso ai dati da device sicuri su infrastrutture sicure (in cloud)
Il poter accedere da device sicuri su infrastrutture sicure (in cloud) a informazioni, a dati e a fascicoli (aggregazioni documentali) è la seconda condizione fondamentale per poter garantire efficaci modalità lavorative in regime di smart working.
Se posso permettermi un suggerimento al Ministro Brunetta, lo smart working non va inteso come un sinonimo di inefficienza, né è la modalità di erogazione principale del lavoro nella PA.
Lo smart working può essere una modalità di lavoro nel pubblico impiego che reca con sé come condizioni l’avanzamento, il miglioramento di condizioni oggettive infrastrutturali e gestionali.
Interventi di tipo generalizzato, francamente, non paiono adeguate all’evoluzione della PA e agli obiettivi che il PNRR pone al nostro Paese.