Sono entrato nel mondo del software open source quasi per caso, nel corso della mia ricerca di un’alternativa a Microsoft Office che rispondesse alle mie esigenze di utente avanzato di personal computer, con la pretesa di poter governare quello che viene installato sul proprio desktop, e soprattutto il comportamento delle applicazioni (e dei relativi documenti).
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La comunità come fattore fondamentale
Ora, non entro nel merito dei motivi per cui le mie esigenze mettevano fuori gioco Microsoft Outlook, in sostituzione del quale all’epoca usavo con soddisfazione il vetusto ma sempre valido Eudora e oggi uso Thunderbird, ma vorrei concentrarmi sul percorso che ho effettuato a livello prima personale e poi come consulente per sviluppare un profilo e una reputazione all’interno della comunità open source, e diventare nel corso degli anni una figura di riferimento per la comunità e le migrazioni.
A questo punto, qualcuno solleverà il sopracciglio pensando a quale rapporto ci possa essere tra comunità e migrazione al software open source. Reazione lecita e comprensibile, che però conferma il fatto che non siete pronti per il software open source, e tanto meno per la migrazione dal software proprietario al software open source di un’organizzazione, di qualsiasi dimensione essa sia.
La comunità è un fattore fondamentale, e non va mai ignorata. Un progetto open source senza comunità è come un tavolo senza una gamba, non sta in piedi, e una lunga lista di progetti sponsorizzati da un’azienda che hanno cercato di ignorare la comunità o di decapitarla o di limitarne la crescita e sono miseramente falliti sta a confermarlo. La strada è disseminata di cadaveri eccellenti, e uno tra i più recenti è proprio il primo progetto con cui ho avuto a che fare, ovvero OpenOffice.
L’esperienza del progetto OpenOffice
Nel 2002, durante la mia ricerca di un’alternativa a Microsoft Office, ero “inciampato” in modo del tutto casuale su OpenOffice, del quale era appena stata rilasciata la versione 1.0, un software ancora estremamente acerbo ma in grado di far intravedere delle potenzialità interessanti nonostante il numero dei problemi fosse ancora tale da non consentire un utilizzo professionale.
Quello che avevo visto, però, era sufficiente per decidere che il programma meritava un investimento da parte mia, prima nell’uso del software per il lavoro (quando era possibile) e poi nella comprensione del progetto, che “stranamente” – per le mie abitudini di utente di personal computer avanzato ma non sofisticato – non veniva rilasciato da un’azienda ma da una comunità.
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Per vent’anni, all’epoca, avevo lavorato come consulente di relazioni pubbliche per aziende come Adobe, Borland, Corel e Macromedia, per citarne solo alcune, e non riuscivo a comprendere come fosse possibile rilasciare un software professionale, ancorché acerbo, senza avere alle spalle un’organizzazione aziendale in grado di gestire gli innumerevoli dettagli dello sviluppo di un’applicazione.
Quindi, avevo iniziato a studiare l’organizzazione, prima dall’esterno, leggendo articoli e mailing list, poi come “guardone” (lurker) ovvero come abbonato silente alle mailing list, e poi – piano piano – con qualche timido intervento, soprattutto a livello di comunità linguistica italiana.
Nel corso del 2003 c’era stata la prima conferenza della comunità ad Amburgo, sede del progetto sin dalla nascita, quando OpenOffice era StarOffice e l’azienda si chiamava StarDivision, ed era stato rilasciato OpenOffice 1.1, una nuova versione che confermava tutte le percezioni positive scatenate dalla prima release. Era giunto il momento di fare sul serio.
Ed era giunto anche il momento dello scontro con la comunità, un organismo “fluido” (o se preferite “liquido”), di difficile interpretazione, sfuggente, e nello stesso momento onnipresente, assente e presente, ma sempre fondamentale per l’economia di un progetto open source.
Intendiamoci, esistono progetti open source dove la comunità fa riferimento a un’azienda, che in genere fornisce la maggior parte delle risorse di sviluppo, ma anche in questo caso le caratteristiche della comunità non cambiano. Ovvero, non c’è modo di sfuggire alla legge della comunità (e non avete idea di quante porte si sono chiuse davanti a collaborazioni che potenzialmente avevano tutti i numeri per avere successo, ma volevano passare sopra alla comunità).
Io ho fatto l’errore probabilmente più facile da evitare, perché ho avuto la presunzione di propormi come esperto di comunicazione a chi non pensava di aver bisogno di un esperto di comunicazione, perché gli sviluppatori – che nella maggior parte dei casi costituiscono il nucleo della comunità – ritengono che un software open source non abbia bisogno né di comunicazione né di marketing, perché saranno le sue caratteristiche superiori a decretarne il successo.
Quindi, il mio messaggio: “il vostro software è eccellente, ma il vostro marketing è inesistente, e io posso aiutarvi” (ovviamente, con tutte le referenze del caso), ha ottenuto come risposta un lapidario: “il marketing non serve, se proprio vuoi fare qualcosa fallo a livello di comunità linguistica italiana”.
E siccome sono testardo come tutti gli umbri di origine etrusca, ho deciso che avrei fatto da solo, e ho cominciato a scrivere comunicati stampa su OpenOffice per qualsiasi notizia fosse degna di attenzione. Nel giro di sei mesi, i download della versione italiana di OpenOffice sono passati da 2 a 8 milioni su base annua, e superano quelli di tutte le altre versioni linguistiche con l’ovvia eccezione della versione inglese. La cosa non passa inosservata, e nel 2004 riesco a partecipare alla Conferenza di Berlino come membro riconosciuto della comunità.
Come avvicinarsi al software open source
Ovviamente, da quel momento in avanti ho sempre fatto per poi raccogliere i risultati, sia all’interno del progetto OpenOffice, dove mi sono limitato a fare solo le attività per cui avevo una competenza riconosciuta, sia all’interno del progetto LibreOffice – unico italiano tra i fondatori – dove ho aggiunto attività nell’area della certificazione e delle migrazioni.
Oggi, probabilmente, potrei provare a fare qualsiasi cosa senza trovare ostacoli, grazie alla reputazione che ho costruito nel corso di questi vent’anni. Ed è grazie a questa reputazione che sono stato eletto nel board di Open Source Initiative (OSI), la fondazione responsabile della compatibilità delle licenze open source con la Open Source Definition (OSD), e sono ambasciatore di Software Heritage (SWH), un progetto UNESCO per la conservazione del codice sorgente di tutti i progetti open source.
Tutto questo per dirvi che avvicinarsi al software open source, soprattutto se l’intenzione è quella di adottarlo a livello aziendale in sostituzione del software proprietario, ignorando gli aspetti che riguardano la comunità rischia di diventare velleitario. Diciamo che io, alla fine, sono andato ben oltre la conoscenza necessaria, ma questa è stata una scelta personale.