L'approfondimento

South working, come lavorare a Milano ma dal Sud: ecco perché è occasione di rilancio

L’emergenza sanitaria e il ricorso allo smart working da parte di realtà private e pubbliche ha portato molti cittadini a lasciare la metropoli per rientrare nelle regioni del Sud: l’effetto del fenomeno, battezzato “south working”, è un impatto generale su servizi ed economia che si pone in un’ottica di sostenibilità

Pubblicato il 09 Dic 2020

Nicoletta Pisanu

Giornalista professionista, redazione AgendaDigitale.eu

south working

Il south working consente di lavorare come se si fosse seduti nel proprio ufficio a Milano, Torino o Verona, ma trovandosi in realtà in Sicilia, Calabria o Puglia. Si tratta, in sostanza, dello smart working svolto in una regione del Sud Italia. Un fenomeno che si è sviluppato a partire dalla primavera 2020, quando l’emergenza sanitaria legata all’epidemia di coronavirus ha spinto verso l’adozione di misure di smart working e molte persone hanno preferito rientrare nelle città di origine. Oltre alla possibilità a livello personale di una migliore conciliazione tra lavoro e vita privata, il south working potrebbe avere un impatto positivo sul territorio in termini di sostenibilità.

Cosa significa south working

South working è un’espressione coniata a partire da smart working, richiama il concetto anche nel suono oltre che nel significato. Indica infatti lo svolgere il lavoro agile al Sud. La tendenza si è accentuata con l’avvento dell’emergenza sanitaria causata dall’epidemia di coronavirus. Sebbene il tema abbia assunto ora un significato organico, di fatto molte realtà imprenditoriali che consentono ai collaboratori di svolgere in smart working le proprie mansioni sono già da tempo interessate dal fenomeno (in particolare le imprese che operano nell’ambito dei servizi digitali: un esempio è Digital360, editore di AgendaDigitale.eu).

Proprio come il tradizionale smart working, riprendendo la definizione dell’Osservatorio Smart working del Politecnico di Milano, offre al lavoratore flessibilità e autonomia nella scelta di orari, spazi e strumenti, trovandosi maggiormente responsabilizzato verso i risultati di produttività. Il fenomeno dello smart working del resto era già in crescita prima della pandemia. Secondo il report 2019 dell’Osservatorio del Politecnico, nel corso dell’anno scorso il 58% delle grandi imprese ha dato il via a piani di smart working. Un dato in crescita rispetto al 56% dell’anno precedente, il 2018. Ovviamente, la pandemia nel 2020 ha dato una spinta importante al ricorso a questa modalità di lavoro da parte di imprese pubbliche e private. Lo smart working si è rivelato essenziale per garantire la continuità operativa aziendale e la fornitura di servizi.

In questo contesto generale, si configura anche il fenomeno del south working. Secondo i dati presentati a novembre 2020 da Svimez – Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, basati su un’indagine affidata a Datamining che ha raccolto le informazioni da centocinquanta grandi imprese, dall’inizio dell’emergenza sanitaria in primavera sono quarantacinquemila i lavoratori di aziende del Centro-Nord in smart working dal Sud. Lo stesso report indica che ha lavorato dalle regioni meridionali il personale del 3% delle grandi imprese che hanno adottato il lavoro agile nei primi tre trimestri del 2020.

Com’è nata l’idea del South working

Il nome del fenomeno deriva dall’associazione no profit “South working – Lavorare dal Sud”, fondata dalla ricercatrice palermitana Elena Militello. L’organizzazione punta proprio al sostegno di questa modalità di lavoro. Gli obiettivi dell’associazione sono creare un network di supporto agli smart worker, promuovendo lo stile di vita basato sul sout working, lo sviluppo di idonee condizioni nelle regioni del Sud per lavorare al meglio, proprio come se si fosse in sede, mantenendo alti livelli di produttività.

L’associazione, che collabora con Svimez e Fondazione con il Sud, intende il termine “Sud” come concetto relativo, promuovendo di fatto la possibilità di lavorare da qualsiasi luogo si preferisca. Da una ricerca dell’associazione, basata su un campione di circa duemila lavoratori, è emerso che l’85,3% delle persone se potesse vivrebbe al Sud mantenendo la propria occupazione in smart working. L’80% ha età compresa tra venticinque e quarant’anni con titoli di studio principalmente in Economia, Giurisprudenza e Ingegneria, il 63% dei casi dispone di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

I benefici dello smart working al Sud

È stato provato come la maggiore flessibilità e autonomia nella scelta dell’orario di lavoro e dello spazio in cui svolgere le proprie mansioni consenta, in generale, di aumentare la propria produttività, anche per il senso di maggiore responsabilità che si percepisce nel lavorare lontani dalla sede fisica dell’azienda.

South working, vantaggi per le imprese

Secondo la ricerca condotta da Datamining per Svimez, i vantaggi individuati dalle imprese relativamente al south working sono riassumibili in:

  • Orari di lavoro più flessibili
  • Contenimento dei costi legati alle sedi fisiche, dall’affitto al servizio di pulizie, e di quelli accessori come per esempio i buoni pasto
  • Accresciuta motivazione da parte dei dipendenti
  • Aumento della produttività dei lavoratori

Vengono invece indicati come svantaggi un controllo inferiore sulle attività del lavoratore e i costi necessari per garantire l’operatività.

South working, vantaggi e svantaggi per i lavoratori

Dall’indagine Svimez emerge che per i lavoratori i benefici della pratica del south working sono riconducibili a:

  • Costo della vita inferiore rispetto ai grandi centri urbani del Centro o Nord
  • Soluzioni abitative a prezzi più contenuti

Oltre a ciò, il south working consente di avere indubbiamente vantaggi anche a livello di vita privata, come per esempio la possibilità di lavorare in un contesto più vicino alla propria famiglia. Tuttavia non mancano gli svantaggi, evidenziati nella ricerca:

  • Servizio sanitario di livello inferiore rispetto ai centri del Centro – Nord
  • Maggiori difficoltà legate ai trasporti
  • Ridotta offerta di servizi alla famiglia
  • Meno occasioni di far carriera
  • Qualità delle scuole

Quali sono gli obiettivi principali del south working

Al di là dei benefici per lavoratori e aziende, il south working tuttavia può avere un impatto più ampio in termini di sostenibilità territoriale. Può infatti rappresentare una leva di rilancio per il Sud Italia, con il fine di ridurre la disparità di natura economica e sociale tra le regioni meridionali e il Centro – Nord Italia. Permettere a lavoratori qualificati di svolgere nelle loro regioni di origine il lavoro che fanno per grandi aziende consentirebbe infatti di ridurre il fenomeno dell’emigrazione e di stimolare l’economia del Sud, anche a livello di indotto. Soprattutto, migliorerebbe i livelli occupazionali in alcune regioni e consentirebbe la creazione di reti territoriali utili per accelerare l’innovazione, con benefici per tutto il Paese. Il fenomeno dell’emigrazione infatti, soprattutto di lavoratori giovani e qualificati, ha portato negli anni alcune aree rurali o interne a “restare indietro” dal punto di vista economico e rispetto all’erogazione di servizi.

Svimez nel suo report suggerisce, per sviluppare il potenziale del south working in termini di ricadute positive per i territori del Sud, di identificare un target di persone che potenzialmente potrebbero beneficiare di incentivi per il south working. Secondo l’associazione, sarebbe utile perseguire lo scopo di riportare al Sud laureati tra i venticinque e i trentaquattro anni, originari delle regioni meridionali e occupati in quelle del Centro e Nord. Basandosi su dati Istat relativi alla forza lavoro e l’inserimento professionale degli italiani in possesso della laurea, si ritiene che gli interessati sarebbero circa sessantamila.

Come si può rendere possibile il south working

Tuttavia, non è possibile demandare solo alle aziende il compito di gestire questo rilancio attraverso il south working dei propri dipendenti. Per stimolare il fenomeno e favorire le ricadute benefiche, servono politiche ad hoc che incentivino il ricorso a questa modalità di lavoro. Servono spinte per rendere attraente per le grandi imprese l’ipotesi di poter lavorare in south working, puntando per esempio su incentivi di natura fiscale, investimenti relativamente all’erogazione dei servizi (per esempio sanitari e alla famiglia), ma anche sulle infrastrutture. Tra le misure proposte dall’associazione Svimez, ci sono:

  • Riduzione dei contributi
  • Credito di imposta pensato per l’attivazione di una postazione di south working
  • Riduzione dell’Irap sulle postazioni south working
  • Realizzazione di aree di co-working per evitare il possibile senso di alienazione

Le misure per il Mezzogiorno in Legge di bilancio 2021

A proposito di politiche di incentivazione dedicate al Sud, nella bozza della Legge di bilancio 2021 emerge la proroga del credito di imposta per investimenti nel Mezzogiorno fino al 2022. Sempre a proposito di credito d’imposta, la Legge di bilancio estende anche al 2021 e 2022 il credito d’imposta per R&S nel Sud Italia:

  • 25% per grandi imprese con almeno 250 lavoratori e fatturato di almeno 50 milioni di euro o bilancio pari a 43 milioni di euro;
  • 35% per medie imprese con almeno 50 lavoratori e 10 milioni di euro di fatturato all’anno;
  • 45% per piccole imprese con meno di 50 dipendenti e bilanci inferiori ai 10 milioni di euro.

Prevista anche una dotazione di 50 milioni di euro per ogni anno dal 2021 al 2023 al Ministero per l’Università e la ricerca per costituire ecosistemi dell’innovazione in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. L’obiettivo è formazione, coesione e attività di ricerca in collaborazione con atenei ed enti.

Riguardo al Fondo di sviluppo e coesione 2021-2027, è stata disposta una dotazione aggiuntiva ed è stata confermata la percentuale dell’80% delle risorse per le aree del Sud Italia e del 20% per il Centro-Nord. Gli obiettivi strategici saranno definiti dal Ministero per il Sud e la Coesione territoriale. Sempre in ambito coesione territoriale, proprio per il rafforzamento di questo aspetto, si darà la possibilità alle pubbliche amministrazioni di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia, che hanno ruolo di gestione dei fondi per la coesione, di assumere personale (non dirigenti) fino a 2.800 lavoratori, con una spesa massima per ogni anno di 126 milioni di euro dal 2021 al 2023.

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