RIFORMA PA

Telelavoro: tanti errori fatti. Quattro punti da cambiare

La legge delega prevede interventi per favorire telelavoro, smart working e co-working. Ma per riuscirci, bisogna affrontare il tema a livello culturale e organizzativo, con impatti rilevanti per l’efficienza e la riorganizzazione della PA

Pubblicato il 09 Lug 2014

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La legge delega per la riorganizzazione della Pubblica Amministrazione “Repubblica semplice” dovrebbe contenere, nel capitolo “misure per conciliare i tempi di vita e lavoro”, il rafforzamento di alcuni strumenti introdotti da anni nella nostra legislazione, come il telelavoro, e incentivare il ricorso ad alcuni strumenti organizzativi di nuova generazione come il co-working e lo smart-working. Tutto ciò “nell’ambito delle risorse di bilancio delle amministrazioni coinvolte”. La scelta di dare evidenza a questi strumenti è fondamentale per l’intero sviluppo digitale del Paese, ma il suo passaggio quasi sottotraccia, oltre che essere probabilmente legato alla sensibilità dei nostri mass media, rischia di essere una sottovalutazione della potenzialità, e anche dell’ampiezza e della complessità di una introduzione efficace.

Avendo puntato su questo tema da diverso tempo come elemento virale fondamentale per la crescita delle organizzazioni e lo sviluppo delle competenze digitali del nostro Paese, forse può essere utile riassumere brevemente lo stato attuale e allo stesso tempo proporre i punti principali che è utile prevedere in un piano di introduzione di telelavoro, smart working e co-working nella Pubblica Amministrazione. Partendo però dall’assunto che questi strumenti organizzativi, queste modalità di lavoro, fanno parte, in generale, di un nuovo modello di lavoro, in cui prevalgono la responsabilizzazione, l’empowerment, la collaborazione. Un’organizzazione del lavoro che, come affermava diversi anni fa Domenico De Masi “richiede più motivazione che controllo, più creatività che burocrazia, più etica che astuzia, più estetica che pratica, più equilibrio vitale che overtime, multitasking e reperibilità”, e dove la scelta del lavoro in mobilità, del lavoro a distanza, è il superamento dell’idea del recarsi in ufficio quotidianamente, “spostandosi senza altra ragione che una abitudinaria ritualità”. Un modello dove prevale l’importanza del raggiungimento di un risultato al conteggio del numero di ore passate in ufficio. Ma se è vero tutto questo, allora il capitolo in cui sono state inserite queste misure è troppo “stretto”, e la loro valenza dirompente appare troppo nascosta (l’efficienza e la riorganizzazione della PA passano anche da qui). Forse per ragioni tattiche, ma certamente è importante esserne coscienti.

La situazione attuale

Se il telelavoro è utilizzato da una percentuale bassissima dei lavoratori (si arriva all’8% nei casi delle organizzazioni più avanzate) non c’è da stupirsi. Il telelavoro è sostanzialmente visto come uno strumento specifico per situazioni particolari (di famiglia, di disabilità) che il lavoratore può chiedere e che al datore di lavoro che accetta comporta una seria di adempimenti atti a garantire le condizioni di sicurezza del luogo remoto di lavoro (di solito la casa del lavoratore). Senza contare che questa scelta penalizza ovviamente il lavoratore nelle prospettive di carriera, non essendo di fatto previsto un regime “misto” tipico del lavoro in mobilità.

Rispetto alla prima stortura (il lavoratore può chiedere, ma il datore di lavoro non ha obblighi di favorire il lavoro da remoto) si è cercato di ovviare con il “decreto Crescita 2.0” (n.221 del 17 dicembre 2012) che per le amministrazioni pubbliche cercava di introdurre una sorta di “telelavoro by default” ispirato a quanto fatto dal governo Obama: le amministrazioni pubbliche oggi sono, infatti, tenute a realizzare un piano per la realizzazione del telelavoro in cui devono specificare “le modalità di realizzazione e le eventuali attività per cui non è possibile l’utilizzo del telelavoro”. Si assume, pertanto, che tutte le attività possano essere svolte in modalità di telelavoro a meno di giustificate ragioni di “impossibilità”. Le amministrazioni adempienti sono però in larga minoranza, senza che per questo la sanzione prevista (si tratta dell’obbligo sulla Trasparenza) sia stata mai comminata. Nonostante tutto, alcuni enti pubblici (è il caso dell’Inail) hanno avviato dei programmi pluriennali per l’introduzione a sistema non solo del telelavoro, ma in generale delle modalità dello smart working e del co-working.

La necessità di operare sulla normativa del telelavoro è stata evidenziata anche dall’iniziativa parlamentare sullo smart working, in cui si cerca di porre delle condizioni di maggiore semplificazione per l’adozione di un regime parziale di lavoro da remoto, rimodulando gli obblighi e gli oneri per il datore di lavoro, ma sostanzialmente non modificando la logica del rapporto con il lavoratore, che deve sempre farsi carico della richiesta, con una negoziazione individuale lavoratore-datore che è una delle cause del fallimento del telelavoro. Presentata alla fine di gennaio, dalla fine di aprile la proposta di legge è in attesa di essere assegnata e quindi poter essere discussa nella Commissione Lavoro della Camera. Senz’altro comunque un contributo significativo da considerare.

Gli elementi per introdurre telelavoro, smart working e co-working nella PA

Naturalmente ci sono differenze significative tra i tre strumenti:

  • il telelavoro si identifica sostanzialmente con la possibilità di lavorare al di fuori dell’ufficio. Il passaggio fondamentale è dal telelavoro in cui si elegge un’altra sede alternativa all’ufficio (la casa del lavoratore) a quello in cui il luogo è scelto dal lavoratore in funzione dell’attività da svolgere e dalla propria comodità di spostamento e di lavoro;
  • lo smart working si definisce come una modalità di lavoro che mette nelle migliori condizioni di attività il lavoratore, dal punto di vista del luogo, degli strumenti e dell’organizzazione. Smart working significa quindi che l’organizzazione si fa carico anche di predisporre degli ambienti di lavoro accoglienti e attrezzati in modo tale da favorire lo svolgimento delle attività, e significa anche intendere l’accezione evoluta del telelavoro (il lavoratore sceglie il luogo più favorevole) come assunzione di base;
  • il co-working identifica infine la contaminazione, l’interazione, la condivisione di uno stesso luogo da parte di lavoratori di organizzazioni diverse come un terreno fertile per la creatività e l’innovazione. Questo significa che prevedere luoghi condivisi di lavoro, nei centri urbani e nelle periferie, diventa un punto importante di una policy organizzativa che, in questo caso, coinvolge tutte le amministrazioni pubbliche. Luoghi condivisi che possono anche portare alla costituzione di centri polifunzionali di erogazione di servizi pubblici.

Tutti e tre fanno però parte di uno stesso, nuovo, modello di lavoro e quindi la loro introduzione contemporanea non è solo giustificata ma anche molto auspicabile, perché potenzia notevolmente l’impatto di ciascun singolo strumento.

Gli elementi essenziali per realizzare questo cambiamento, sono sostanzialmente di quattro tipi

  1. Normativo. La proposta di legge sullo Smart Working già citata può essere un buon punto di partenza rispetto agli obblighi del datore di lavoro, se però si affronta in modo organico tutta la tematica del telelavoro, affermando la flessibilità sul luogo e sull’orario di lavoro, superando la logica della definizione di un “minimo” astratto di orario di ufficio e invece vincolando la regolamentazione ai piani specifici delle attività delle amministrazioni;
  2. Logistico-ambientale. Qui sono da prevedere interventi da realizzare sia all’interno delle organizzazioni sia negli spazi urbani, coniugandoli con il coworking, anche con progetti di rigenerazione e riuso collettivo di aree urbane dismesse, da adibire, in modo multifunzionale, ad attività e lavori in cui è importante l’infrastruttura digitale;
  3. Informatico-strumentale. Il lavoro in mobilità richiede piattaforme di comunicazione e condivisione, applicazioni gestionali e di project management accessibili da remoto (e qui il passaggio sul Cloud è una delle condizioni facilitanti), possibilità di adottare un approccio BYOD, oltre che naturalmente un’adeguata infrastruttura di sicurezza e di rete;
  4. Organizzativo-culturale. Nessuna flessibilità lavorativa è realizzabile senza un cambiamento culturale e una revisione dei processi organizzativi che prevedano stili di management adeguati (gestione per progetti, per obiettivi, con indicatori basati sui risultati), un alto grado di libertà (self-management, empowerment), la gestione anche a distanza di team di lavoro, e in generale una valorizzazione dei processi di collaborazione e knowledge management.

Un reale cambiamento non può prescindere da nessuno di essi, e questo significa, d’altra parte, che l’intervento normativo è solo un passo nel percorso. Bisogna prevedere, almeno

  • la realizzazione di progetti specifici da parte delle amministrazioni, estendendo richiesto per il Piano per la realizzazione del telelavoro, e che definiscano modalità e tempi di attuazione, come è naturale nei casi virtuosi (vedi quello citato di Inail);
  • la predisposizione di un supporto centrale soprattutto a livello metodologico che dia indicazioni su come procedere, valorizzando le esperienze già presenti, anche in una logica di formazione peer-to-peer tra le amministrazioni (come ad esempio i nascenti “Cantieri Manageriali”);
  • un monitoraggio centrale rigoroso che si accerti dell’adeguatezza e poi dell’attuazione concreta dei progetti di cambiamento delle amministrazioni.

Se attuata con una visione di ampio respiro, consapevoli dell’importanza e la profondità del cambiamento culturale necessario, e con strumenti di programmazione e controllo, la rivoluzione è davvero possibile.

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