disaster recovery

Terremoto, ecco che cosa fare per proteggere i dati della PA

Il caso dei server di Amatrice andati persi illumina un problema ancora irrisolto, in Italia. Ma a mancare è solo la volontà di risolverlo. Perché ci sono già le risorse per la banda larga e il cloud. Serve un CAD che non si limiti a dire “gli enti devono fare piani per la business continuity”. Servono sanzioni per gli inadempienti. Serve soprattutto la consapevolezza, da parte degli amministratori dei piccoli Comuni, che un server messo nell’armadio delle scope è una seccatura infinita e un costo

Pubblicato il 02 Set 2016

Paolo Colli Franzone

presidente, Osservatorio Netics

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Questo fim l’abbiamo già visto. Limitandoci a tornare indietro nel tempo di soli 22 anni, è un film che abbiamo visto dopo l’alluvione di Alessandria del ’94, l’alluvione in Piemonte e Valle d’Aosta del 2000, e in tutti i terremoti succedutisi al Centro Italia e in Emilia negli ultimi anni.

“Le squadre di soccorso e le forze dell’ordine stanno cercando di recuperare il server del Comune di XYZ”.
“Gli inquirenti hanno bisogno di dati, che però non si trovano: sono rimasti sotto tonnellate di macerie”.
Eccetera, eccetera.

Eventi sismici o alluvionali inevitabilmente provocano la sostanziale “sparizione” di server e PC: di tutto il patrimonio informativo di Comuni e altri uffici della PA dislocati sui territori sfortunatamente colpiti dalla catastrofe.
Inevitabilmente, si scopre che il famoso e benedetto “ultimo backup” o non c’è affatto (“accidenti, ci siamo dimenticati!”) o se c’è “è nel cassetto sotto al server”.
Con buona pace per il concetto di disaster recovery e di business continuity.

Il tutto succede in un momento in cui praticamente chiunque (la Protezione Civile, le forze di Polizia, la Magistratura, le amministrazioni stesse) hanno bisogno urgente di recuperare dati, documenti, mappe, contratti, delibere, e via di seguito.
Soprattutto in piccoli comuni come Amatrice, dove per forza di cose e vincoli di pianta organica è assolutamente certo che un CIO (o anche solo un Responsabile ICT) non esiste. E dove, nella stragrande maggioranza dei casi, tutto è in mano al fornitore di servizi ICT.

E dire che la soluzione c’è, e si chiama “cloud”.
A partire da un modesto e banalissimo servizio di backup sul cloud (qualche decina di euro all’anno per un piccolo Comune), fino ad arrivare al “trasloco integrale sulla nuvola”.

Serve banda, direte voi. Esatto: serve banda.
Tradotto in parole povere, serve la volontà di farlo. Perché i soldi ci sono, e la disponibilità dei carrier (ma anche di Enel) pure.
Serve un CAD che non si limiti a dire “gli enti devono fare piani per la business continuity”: di piani e faldoni siamo davvero abbondanti.
Servono fatti. Servono sanzioni per gli inadempienti.
Serve soprattutto la consapevolezza, da parte degli amministratori dei piccoli Comuni, che un server messo nell’armadio delle scope è una seccatura infinita e un costo. Molto meglio virtualizzare, portare sulla nuvola.
Che sia una nuvola di Stato o privata poco importa, ferme restando le cautele nello scegliersi il fornitore e nel pattuire contratti che non si trasformino in capestri.
Ma che nuvola sia.

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