L’edizione 2015 del Global Information Technology Report del World Economic Forum (Wef) è una buona occasione per fare il punto sullo stato delle politiche di innovazione del nostro Paese. Non si tratta, infatti, di un’analisi mirata esclusivamente su fattori legati all’agenda digitale dei diversi paesi e non si basa soltanto su indicatori ma anche su sondaggi.
In questo senso, il “Networked Readiness Index” del Wef è meno “oggettivo” di indici come il DESI, ma d’altra parte consente di avvalersi anche di considerazioni qualitative che esprimono valutazioni a più ampio raggio di quelle possibili con i dati a disposizione. Tra l’altro, anche il modello dell’Indice, che misura sei “driver” (tre di “readiness” – infrastrutture, competenze, accessibilità-, e tre di “uso” – individui, imprese, settore pubblico) e due “impatti” (economico e sociale), si propone come uno strumento in grado di valutare lo stato complessivo della maturità di un Paese sul fronte dell’innovazione, piuttosto che il semplice stato di digitalizzazione.
Indicazioni di tipo generale dal Rapporto
Dal Rapporto possono essere distillate alcune indicazioni chiave:
- il cambiamento, la trasformazione reale indotta dall’ICT si attua soltanto se si diffonde in modo sistematico e diffuso su tutti gli stakeholder (individui, imprese, settore pubblico);
- la situazione mondiale è ancora poco “digitale”. Circa il 60% della popolazione non ha mai ancora usato Internet e nei Paesi a basso reddito questa percentuale sale al 90. Allo stesso modo metà della popolazione non ha un cellulare, anche se il numero delle carte SIM è superiore alla popolazione mondiale;
- se la chiave di sviluppo è la presenza di ecosistemi di innovazione, allora è necessaria una visione di lungo termine che consenta investimenti in infrastrutture e istruzione. Ma risultati a breve termine da cogliere subito (“low-hanging fruit”) sono necessari e possibili, lì dove soprattutto il settore pubblico agisce come abilitante di energie economiche e imprenditoriali;
- l’ICT abilita modelli di collaborazione, e di interazione tra cittadini e amministrazioni. Questo passa attraverso la piena attuazione dell’Open Government, e facilita in modo significativo l’efficienza dell’amministrazione. Apertura, dati aperti, collaborazione, partecipazione ed efficienza amministrativa sono strettamente correlati;
- c’è ancora una scarsa attenzione sull’accuratezza e la disponibilità dei dati a livello internazionale e questo crea problemi nel processo di decision-making e quindi anche nell’autonomia stessa dei Paesi.
A questi “messaggi chiave” si aggiungono diverse interessanti indicazioni. Ad esempio, quella legata alla valutazione dei fattori utili per affrontare il problema della scarsa penetrazione di Internet nella popolazione, come in Italia (dove chi non è mai andato su Internet è oltre un terzo). Dall’analisi emerge una chiara correlazione tra maturità dell’ecosistema digitale e uso di Internet. Correlazione che è positiva soprattutto lì dove la maturità si manifesta con un sovradimensionamento dei contenuti, una spinta al popolamento di contenuti anche non trainato dalla domanda, così da rendere attrattiva la rete ed evidenti i benefici. Partendo dai contenuti di più facile fruibilità, come quelli relativi a intrattenimento e informazione, ancora prima, ma subito prima, dei servizi. Ed è così che, nelle piattaforme condivise, l’ecosistema diventa economicamente sostenibile.
La situazione italiana
La posizione italiana sul Networked Readiness Index (che misura, sostanzialmente, quanto i Paesi sono in condizioni di sfruttare le opportunità della rete) rimane sostanzialmente invariata rispetto al 2014, al 55° posto, continuando nel galleggiamento che l’ha vista passare negli ultimi due anni dal 50° al 58° posto. Davanti a noi, quasi tutti i paesi Europei (e tutti i paesi extraeuropei ad alto reddito). Dietro, nella UE, soltanto Slovacchia, Romania, Grecia e Bulgaria.
Non sorprende, soprattutto se analizziamo i punti che zavorrano il nostro Paese alle posizioni di retroguardia, e che rimangono sostanzialmente invariati: burocrazia, carico fiscale, mancanza di visione e attenzione strategica al digitale. Gli altri (dalla scarsa presenza di venture capital alla scarsa diffusione dell’ICT nei processi chiave del settore privato e pubblico) sono una conseguenza, mentre infrastrutture e competenze sono valutate sulla base di indicatori a dir poco “blandi”. Per questa ragione, le aree che nelle rilevazioni europee risultano molto carenti per l’Italia (es. vedi appunto il DESI – Digital Economic and Society Index) come l’infrastruttura in banda ultralarga o il livello di competenze digitali, sono qui rilevate con indicatori meno stringenti (es. si parla solo di banda larga e per le competenze degli adulti ci si accontenta della capacità di lettura e scrittura di una semplice e breve frase) e quindi non evidenziano il ritardo. Dal punto di vista della “readiness”, soprattutto sul fronte delle competenze, le scelte del Wef sui criteri di valutazione sono troppo livellate verso il basso e non tengono conto né dei livelli minimi di alfabetizzazione funzionale richiesti dall’Ocse con il rapporto Piaac né dai livelli di “adeguatezza” per la cittadinanza digitale del modello Digicomp su cui si basa la Digital Agenda Scoreboard.
Ma quali sono in particolare gli aspetti critici per l’Italia? Tra i principali
- Burocrazia. Il quadro politico e normativo rimane uno dei punti di maggiore debolezza (valutato al 102° posto) a causa soprattutto di un sistema giudiziario molto inefficiente (valutato al 142° posto), che richiede una media di ben 1185 giorni per risolvere una disputa legale in ambito contrattuale (circa tre volte i tempi misurati in Francia o in Germania). Una situazione che, come sappiamo, facilita sia la cultura dell’inadempienza sia la corruzione;
- Carico fiscale. Il peso della tassazione che (dati 2013) con il 65% ci pone al 131° posto, e rappresenta non solo un freno allo sviluppo di iniziative imprenditoriali ma anche un incentivo all’evasione fiscale;
- Mancanza di visione e strategicità dell’innovazione. Diversi elementi fanno risaltare la sostanziale mancanza di visione e di attenzione all’innovazione che ha avuto la politica e il settore pubblico in genere in questi anni (la rilevazione è 2013-2014, i dati sono del 2014). Tra questi, l’utilità e la spinta dell’investimento pubblico per spingere l’innovazione sono reputate quasi inesistenti (dietro noi in UE solo la Grecia) e questa carenza è anche testimoniata dall’incapacità che viene attribuita alla pubblica amministrazione per la promozione adeguata dell’ICT (qui l’Italia è 139°).
Una situazione che rende poco attrattivo il nostro Paese dal punto di vista degli investimenti, come mostra anche il basso livello di venture capital (con una valutazione degli intervistati che posizionano l’Italia al 127° posto).
Un passaggio è poi riservato all’Agid che, secondo il rapporto, “ha largamente fallito nel mantenere le promesse”. Un giudizio che dà il senso di una ovvia valutazione da chi osserva dall’estero: istituita nel 2012 e appena in fase di avvio dopo 3 anni, a dimensionamento di organico appena approvato, sembra agli occhi internazionali specchio e insieme causa di un Paese frenato da antichi e noti ostacoli.
Un percorso possibile
Come rompere l’equilibrio stagnante? Prendendo lo spunto da quanto suggerito da Andrea Di Maio di Gartner in un recente convegno, la scelta efficace può essere quella di identificare poche ma significative priorità dell’agenda digitale proprio rispetto ai fattori di zavorra, focalizzando ad esempio le energie su obiettivi certamente di dimensioni e impatti rilevanti: la lotta alla corruzione e all’evasione fiscale.
Obiettivi che sono da perseguire attraverso la semplificazione della Pubblica Amministrazione (con revisione dei processi intorno ai dati e non digitalizzando i processi esistenti), l’interoperabilità, la trasparenza, la diffusione di infrastrutture e servizi. Mettendo così chiaramente in piena luce il beneficio sociale a cui si punta e, allo stesso tempo, quanto l’innovazione implichi il superamento di interessi e schemi consolidati.
E chiedendo su questi obiettivi, culturalmente, socialmente ed economicamente qualificanti, l’impegno consapevole e responsabile di chi vuole davvero l’innovazione di questo Paese, e la composizione organica di un percorso di cambiamento.