Negli ultimi venti anni, l’Italia ha creduto di aver digitalizzato i processi della Pubblica Amministrazione e delle organizzazioni in generale (banche, assicurazioni, ecc.) in larga parte perché, con estrema fatica, ha sostituito l’invio di documentazione via fax con l’invio per mail di documenti. Ma questo non significa digitalizzare i processi, significa “pavimentare sentieri per le mucche” [Michael Hammer, 1990].
Come già diceva Michael Hammer, ingegnere e accademico statunitense, noto come uno dei fondatori della teoria della reingegnerizzazione dei processi aziendali, “[…] invece di rivestire di silicio e software i nostri processi obsoleti, dobbiamo dimenticarli e ricominciare da capo. Dobbiamo reingegnerizzare il nostro business: usare la forza delle moderne tecnologie dell’informazione per ridisegnare i nostri processi per ottenere drammatici miglioramenti dei risultati.”
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Gli effetti di una digitalizzazione senza visione complessiva
Già negli anni 2000, molti esperti avevano elaborato metodologie per la reingegnerizzazione dei processi specificatamente orientate alla Pubblica Amministrazione (cf. G. Lazzi: Reingegnerizzazione dei processi. In Sistemi Informativi per la Pubblica Amministrazione. Tecnologie, metodologie, studi di caso. Scuola superiore per la Pubblica Amministrazione, Roma, 2000), ma purtroppo ancora oggi non si è fatto abbastanza. È prevalentemente mancato un piano nazionale integrato, che comprendesse l’intera PA, in ogni suo aspetto, tecnologico, organizzativo e giuridico, di prassi e di formazione/ricambio del personale. Gli Stati Uniti, all’epoca del presidente Obama, ad esempio, hanno sviluppato come prioritario un piano di integrazione e reingegnerizzazione per l’intero apparato amministrativo; invece in Italia spesso si è andati avanti a “pezzetti”, in maniera fortemente frammentata, dove il “pezzetto” non è neanche un intero ministero, ma una divisione di un ministero o un comune, o una scuola, o altre realtà locali; realtà locali che realizzano uno specifico progetto di digitalizzazione isolato, purtroppo senza affrontare la reingegnerizzazione in modo complessivo.
Inoltre, se si digitalizza senza una visione complessiva, si rischia di introdurre la tecnologia in maniera non ottimale: a quel punto il processo non resta uguale, ma addirittura degenera. Degenera perché vi si sovrappone un ulteriore strato di procedimento. Quindi, se prima il processo era lento e farraginoso, così rimane lento e farraginoso, con in più l’adempimento del digitale.
Un (cattivo) esempio dal mondo accademico
Un esempio, derivato dal nostro mondo accademico, è il processo con cui un docente bandisce un assegno per attività di ricerca ed espleta la procedura selettiva. In molti atenei e dipartimenti, sono stati costruiti dei semplici sistemi di workflow management, in cui il docente responsabile della ricerca e dei fondi relativi inizia caricando il documento in formato PDF della richiesta, firmato, o in modo autografo e scannerizzato, o digitalmente (in CAdES o PAdES). Senza entrare in tutti i passi del processo, ma focalizzandosi solo sui principali, il processo prevede, dopo l’approvazione da parte del dipartimento responsabile dei fondi, che venga emanato un bando, a cui i candidati partecipano sottomettendo la documentazione via PEC (di nuovo documenti in PDF firmati in modo autografo e scansionati o firmati digitalmente); quindi il dipartimento nomina la commissione esaminatrice, che da quel momento può procedere alle valutazione dei candidati attraverso 4 riunioni (preliminare, valutazione dei titoli, colloquio, definizione della graduatoria e del vincitore), ognuna con relativo verbale. I verbali delle riunioni – che possono svolgersi in modo telematico, vengono prodotti dal presidente della commissione, che li firma – o in modo digitale o in modo autografo e successiva scansione, e devono essere accompagnati da altrettante dichiarazioni di adesione da parte dei membri della commissione (anche queste firmate in una delle due alternative). Le comunicazioni coi candidati avvengono via PEC allegando eventualmente i documenti con le valutazioni dei titoli, graduatorie, ecc.
Tutto corretto e digitale? Non è così. Mentre in un periodo pre-Covid, in cui tutto avveniva in presenza, paradossalmente il processo appariva spedito (ogni documento si produceva, stampava, firmava ed archiviava e tutti gli attori coinvolti erano spesso fisicamente prossimi), ora ogni membro della commissione mediamente deve apporre 10 firme (stampare il documento, firmare in modo autografo e successivamente scannerizzare, oppure firmare digitalmente), continuamente leggere documenti per recuperare i dati di interesse che servono nella selezione e nella produzione dei verbali (e possono essere tanti dati, ad esempio la lista delle pubblicazioni), e così via. Questo perché si è semplicemente digitalizzato esattamente il meccanismo precedente basato sulla carta, e perché la norma prevede che solo il documento abbia valore (in quanto immodificabile) e possa essere archiviato.
Un sistema in cui i candidati sottomettessero le informazioni rilevanti come dati (attraverso form), i membri della commissione operassero su tali dati e solo alla fine si producesse una relazione conclusiva (ma in modo automatico, visto che i dati ci sono) e questa venisse firmata, appare non possibile oggi. Eppure, il nostro conto corrente bancario considera come legalmente valida la transazione avviata dal nostro smartphone semplicemente protetta da un touch id, e la banca produce un documento PDF di riepilogo ogni tre mesi. Nessuno di noi sottomette una richiesta di bonifico firmando digitalmente un PDF e mandandolo via PEC. Perché non può essere valida la transazione di un candidato che sottomette in un form web una pubblicazione, e di un membro della commissione che inserisce un valore per quella pubblicazione, invece di doverla inserire in un documento da firmare?
La digitalizzazione è un continuo miglioramento
Per digitalizzare i processi, bisogna ripensarli e sfruttare le tecnologie al meglio, e modificare leggi e regolamenti. Non piegare la tecnologia a mimare quello che le leggi e regolamenti hanno ideato in passato, quando lo strumento tecnico era differente (la carta appunto, oppure il telefax). Bisogna trovare il giusto compromesso tra uso di dati strutturati e documenti (che contengono informazione semi-strutturata) e attribuire pari valore ad entrambi.
Un altro aspetto fondamentale è considerare la “finestra della digitalizzazione”, ovvero il fatto che digitalizzare i processi non è un qualcosa che si fa ogni tanto, come se fosse un evento che crea una discontinuità, ma deve essere un continuo miglioramento, che va modificato e manutenuto sempre, per rimanere aggiornati con lo sviluppo tecnologico, con le modifiche organizzative, con il mutamento delle competenze delle persone che usufruiscono dei processi e di coloro che ne sono parte. La vera digitalizzazione deve prevedere un ciclo continuo, in cui a partire dalla ricostruzione dell’AS-IS, eventualmente coadiuvata dal cosiddetto process mining (cf. Wil van der Aalst (2016): Process Mining. Data Science in Action. Springer – scoperta dei processi e verifica di conformità degli stessi rispetto al modello ideale), si ipotizza un TO-BE, lo si mette in atto, e si monitora continuamente la performance del processo in modo da re-intervenire immediatamente in caso di scostamenti significativi.
Figura. Il ciclo del BPM – Business Process Management
A partire dall’identificazione dei processi più critici, e dalla stesura dell’architettura dei processi (dell’organizzazione), si passa a modellare i processi, utilizzando approcci e modelli ben definiti – BPMN – Business Process Modeling Notation o CMMN – Case Management Model and Notation, si analizzano, si riprogettano, si re-implementano, si monitorano e così via, in un ciclo di miglioramento continuo, sia sul singolo processo che allargando man mano l’ottica dell’iniziativa a tutti gli aspetti dell’organizzazione (cf. Marlon Dumas, Marcello La Rosa, Jan Mendling, Hajo A. Reijers (2018): Fundamentals of Business Process Management, Springer).
Il nodo dell’integrazione dei dati
Inoltre, la vera digitalizzazione dei processi non può prescindere dai dati. Ci sono milioni di dati che ogni struttura amministrativa si è tenuta gelosamente nei propri silos. Questo ha comportato che questi dati non sono né integrati né interoperabili, insufficienza causata da una costante precisa: trattasi di dati chiusi, non aperti. La verità è che ogni amministrazione – dove “ogni amministrazione” è da intendersi come divisione di un ministero, piuttosto che di una ASL, piuttosto che di una regione o di un comune – ha i dati serrati nei propri depositi. Non prendere atto di ciò significa far finta di non sapere che, alla base di tutti i progetti seri di digitalizzazione, una delle fasi fondamentali è l’integrazione dei dati, che ovviamente si può realizzare in tanti modi diversi, non si parla solamente di integrazione “fisica”. Se questa fase manca, come possono interoperare amministrazioni che non conoscono vicendevolmente la natura e il formato dei dati?
Conclusioni
Già in passato si è provato a fare un cambiamento strutturale, ma senza che fosse mai una vera priorità del Paese, magari creando un’agenzia, un comitato, o designando qualche singola persona di indubbia competenza a cui però non sono state date abbastanza risorse, tempo, poteri decisionali. Attualmente, sono coinvolte nel processo di trasformazione digitale tante persone estremamente competenti, ma è fondamentale che ci sia un piano complessivo di trasformazione della PA con la strategia e le modalità per portarlo avanti, consapevoli delle riforme che comporta, dei tempi, dei costi, dei rischi e delle resistenze che si incontreranno. Bisogna avere una visione globale e implementarla progressivamente, cominciando dai cambiamenti fondamentali anche se meno visibili. E accettare il fatto che il cambiamento richiede tempo, nemmeno una bacchetta magica potrebbe cambiare lo status quo nel giro di uno o due anni.
L’iter è ben più lungo di quanto spesso si dichiari. Purtroppo, la comunicazione si muove su livelli diversi e con le sue regole, e spesso detta dei tempi che sono irrealistici. Nella realtà serve un piano pluriennale e persone preparate, a tutti i livelli, che lo possano realizzare. E questo comporta ovviamente anche immissione di nuove competenze e formazione/aggiornamento del personale esistente nella PA. Solo così, passo dopo passo, potremo veder sedimentare la base della PA digitale.
Infine, come anticipato nell’esempio precedente, insieme agli aspetti di natura tecnologica e/o digitale, andrebbero valutati gli aspetti di natura giuridica. Si sottolinea ad esempio come in un percorso di smaterializzazione del documento è impossibile non adempiere a quanto previsto da leggi ancora vigenti, anche se risalenti ai primi ’900: non osservarle comporterebbe un illecito. La mancanza di adeguamenti legislativi produce a diversi livelli burocratici (dove intendiamo burocrazia nell’accezione positiva di macchina efficiente di funzionamento della cosa pubblica), la difficoltà ad assumere le necessarie responsabilità, tanto più se si innescano nuovi processi ed un nuovo modo di espletare gli stessi senza che sia chiara la norma. All’interno della PA si dovrà creare una controparte in grado di interloquire con le aziende esterne che propongono soluzioni digitali avanzate e di valutare la bontà e l’adeguatezza di tali soluzioni.
Le competenze nel nostro Paese ci sono. Le Università formano giovani che conoscono le giuste metodologie (in Sapienza, per esempio, il nostro Dipartimento dai primi anni 2000 è stato all’avanguardia nella didattica e ricerca su questi aspetti, e quest’anno – non casualmente – ospita la 19esima conferenza internazionale sul Business Process Management, dopo che nel 2020 l’Università di Padova aveva organizzato la 2a conferenza internazionale sul Process Mining), le aziende hanno gli strumenti giusti per mettere in campo la digitalizzazione, la PA è al centro della missione M1 del PNRR – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (cf. C1 – Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella Pubblica Amministrazione). È il momento giusto di agire nel modo giusto!