La transizione digitale rappresenta, per molti Enti, specie i più piccoli, uno scoglio che sembra essere davvero insormontabile. Fra questi, in particolare, per via della complessa articolazione (sempre ignorata dal legislatore) delle loro attività e della loro posizione di prima linea fra PA e cittadini ed imprese, spiccano i piccoli comuni, che devono affrontare con organici ridotti ai minimi termini, anche quando completi, gli stessi gravosi compiti dei grandi Enti.
Piccoli comuni che per questo motivo già si trovano in grave sofferenza e che non possono sopportare l’onere aggiuntivo rappresentato da un processo di trasformazione assai pervasivo e che richiede, per giunta, competenze per loro davvero inarrivabili.
Transizione digitale, come spingere la ripresa: le priorità dalle competenze al 4.0
Unica via d’uscita è quella di attivare percorsi di collaborazione in grado di mettere a fattore comune risorse e competenze. La strada maestra è indicata della norma stessa, nascosta fra le sue pieghe, al comma 1-septies dell’art. 17 del CAD: la forma associata.
L’articolo 17: il Responsabile per la Transizione Digitale
Cominciamo dalla norma. L’onere organizzativo ed operativo (e la responsabilità) del processo che dovrebbe far transitare le PA verso la “modalità operativa digitale” è affidato, in base all’articolo 17 del CAD, ad un apposito ufficio (e quindi non ad una singola figura). Quello che noi chiamiamo Responsabile per la Transizione Digitale altro non è che il dirigente responsabile di tale ufficio. Inizialmente previsto per le sole PAC, la riforma Madia nel 2016 lo estende a tutte le PA.
Generalizzazione questa, certamente comprensibile, specie nell’ottica di individuare per tutte le PA un soggetto responsabile di compiere la transizione digitale, ma altrettanto non esente da problemi, visto che la figura, pensata per le PAC come “upgrade” della figura del Responsabile dei Sistemi Informativi (per altro abrogato proprio dalla succitata riforma), non è facilmente coniugabile in un contesto come quello rappresentato da un piccolo Ente.
RTD nei piccoli Enti
Ed infatti nell’articolo 17, così come modificato nel 2016, il caso delle PAL è trattato in un comma apposito, l’1-sexies, che prevede, fra l’altro, ed è proprio il caso dei piccoli Comuni, che laddove l’Ente non fosse dotato di uffici a livello dirigenziale, il Responsabile per la Transizione Digitale (RTD da qui in avanti) debba essere individuato fra le proprie posizioni apicali.
Generando così anche una certa confusione interpretativa: l’RTD, che per le PAC è certamente incentrato su di un ufficio dirigenziale generale, nelle piccole PAL diventa una persona?
In ogni caso chi, in base al comma 1-sexies, può essere nominato RTD dell’Ente, in caso di assenza di dirigenti? Per apicali, cosa si intende?
In generale sono da intendersi i funzionari responsabili degli uffici e dei servizi, ai quali, ai sensi dell’art. 50, comma 10 e 109 comma 2 del Testo Unico sugli Enti Locali (TUEL) sono attribuite le funzioni dirigenziali di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 107.
Ma, ai sensi dell’articolo 97 comma 4 sempre del TUEL, anche ai Segretari Comunali stessi, oppure, nei comuni con popolazione sotto i 5.000 abitanti, per via di una bizzarra norma contenuta nella finanziaria 2001 e curiosamente non inserita nel TUEL (e di applicazione abbastanza diffusa nei micro-enti), anche Sindaco e Assessori, ai quali possono essere attribuite funzioni di responsabili degli uffici.
Quindi, di fatto, l’RTD in un piccolo Ente è di norma un funzionario, responsabile di un ufficio che nulla ha a che fare con la transizione digitale, più raramente un Segretario Comunale, visto che nei piccoli comuni i Segretari operano su più Enti contemporaneamente e ben difficilmente assumono questo ruolo, specie ora che si è meglio inteso di cosa si tratta, in altri casi il Sindaco; in ognuno di questi nessuno è in possesso di un’adeguata struttura alle spalle e, oggettivamente, praticamente mai dotati delle caratteristiche richieste al RTD al comma 1-ter dell’art. 17.
Una vera “mission impossible”.
La situazione dei piccoli Comuni
Ma al di là dei problemi di applicazione dell’articolo 17, come si diceva in precedenza, il vero problema che ostacola fortemente la transizione digitale nei piccoli comuni è strutturale. Piccoli enti, con spesso meno di dieci dipendenti, che svolgono contemporaneamente mansioni relative a più aree, con scarse, se non nessuna, reale competenza tecnologica, di informatica giuridica, archivistica, ecc. che a stento tengono in piedi, quasi eroicamente e spesso, miracolosamente, anche con buoni risultati, le funzioni primarie dell’Ente, come possono agire in modo efficace e consapevole, per gestire la transizione digitale?
Transizione digitale per altro declinata normativamente in modo da non tener conto in nessun modo delle reali esigenze, contesto socio/culturale incluso, di questi piccoli Enti, nonostante rappresentino circa i 2/3 dei comuni ed una fetta non irrilevante della popolazione.
La formazione dedicata ai Responsabili per la Transizione Digitale
Chi, come me, opera direttamente sul campo, rabbrividisce quando vede come è impostata, ad esempio, la formazione dedicata a RTD dei Comuni, totalmente fuori dal contesto per cui dovrebbe essere pensata, figlia di quella visione “paternalistica” del concetto di sussidiarietà, che è causa, fra l’altro, anche dell’impostazione per cui l’RTD del piccolo Ente sarebbe solo l’esecutore materiale degli ordini che provengono dall’apparato centrale e che le competenze informatiche, e ancor più personale informatico dedicato, sia sostanzialmente inutile.
Così si è giunti alla situazione attuale, dove l’informatizzazione dell’Ente è in mano ai fornitori, sempre più spesso, anche a causa del problema che avevo evidenziato qui, al “mono fornitore”, che è libero di agire indisturbato, senza nessuno in grado di controllarne e meno ancora indirizzarne l’operato.
In altre parole, il vero RTD di fatto dell’Ente, che per altro, come giornalmente vivo sulla mia pelle, consapevole di questa posizione, ostacola in ogni modo chi prova a riportarlo nella sua veste di fornitore.
Per farsene un’idea, provate a vedere come è stato affrontato il passaggio a SPID e PagoPA, magari cercando di aderire al Fondo Innovazione, rimarrete sorpresi!
Una situazione disastrosa non solo per i Comuni, ma anche per il mercato IT stesso, che in questo contesto è sempre più di basso valore, ridotto ad una sorta di hard discount dell’Informatica.
Ma non sarebbe corretto gettare la responsabilità solo sui fornitori, o sulle inadeguate politiche per il digitale: una buona fetta del problema è imputabile a due fattori che si alimentano vicendevolmente:
- la scarsa capacità (e volontà) di spesa dei piccoli Enti, che si devono dotare di tutto il set delle soluzioni informatiche, di fatto uguali o molto simili a quelle in uso presso gli enti maggiori, pur avendo bilanci ben più limitati; ciò provoca la nascita di listini tarati sulle dimensioni degli Enti, il che rende la redditività della vendita al piccolo Comune molto inferiore e “costringe” il fornitore a ridurre al minimo, spesso alla sola installazione e startup, il servizio reso;
- l’incapacità (spesso vera e propria mancanza di volontà) di questi piccoli Enti di collaborare fra loro, unica via di uscita possibile all’imminente collasso (o, se mai verrà applicato l’art. 18-bis del CAD, commissariamento).
Ma è bene ribadirlo, tutto quanto sopra citato origina, in ultima istanza, da un solo fattore: la mancanza delle competenze necessarie per governare l’IT, quelle che dovrebbe appunto possedere l’RTD.
Le forme associate
In realtà l’inadeguatezza strutturale dei piccoli Comuni non è problematica nuova né tanto meno esclusiva dell’ambito della trasformazione digitale. La crescita esponenziale, avvenuta negli ultimi 20 anni, di adempimenti e norme stringenti in tema di appalti, trasparenza, privacy e anticorruzione (solo per citarne alcune) hanno innalzato la complessità dell’attività amministrativa a livelli impensabili. Ciò non solo ha creato un generale appesantimento del lavoro giornaliero ma anche la necessità di possedere in organico figure professionali altamente specializzate. Questo, in un contesto di un piccolo Comune, dove il personale è spesso sotto le dieci unità, è di fatto impossibile e così la quasi totalità di questi piccoli Enti è andata in crisi.
A questa crisi si è cercato di rispondere, a livello normativo, in due modi:
- aumentare l’efficienza dell’attività amministrativa attraverso l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione, così come indicato anche dagli ormai colpevolmente da tutti dimenticati articoli 12 e 15 del CAD;
- attivare forme di aggregazione, come ad esempio quelle previste dal Capo V del TUEL:
- stipula di convenzioni per svolgere in modo coordinato funzioni e servizi, anche con creazione di appositi uffici con personale distaccato;
- consorzi, che seguono le modalità prescritte per le Aziende Speciali;
- unioni di comuni/montane, a cui possono essere delegate funzioni e servizi e rappresentano la via principale per fornire servizi e svolgere funzioni in forma associata.
La prima soluzione però, come sopra osservato, richiede un ulteriore sforzo, che autonomamente i singoli Enti non sono in grado di reggere.
La seconda forma invece è quella che avrebbe un maggior senso, e che, se ben giocata, potrebbe rilanciare con forza la prima.
Tuttavia, le forme associative previste dal TUEL non riscuotono di particolare successo, un po’ per via di motivi “culturali” (leggasi campanilismo) assai radicati, che non hanno mai consentito il diffondersi di un modello associativo, vuoi per via del fatto che le risorse da attribuire a queste aggregazioni devono essere fornite dai comuni stessi, in genere destinando proprio personale, già scarsissimo, in comando. Da sottolineare però come, in base all’art. 32 comma 5 del TUEL i Comuni possono cedere all’Unione, anche parzialmente, le capacità assunzionali, mentre al fine di agevolare il trasferimento di funzioni all’Unione, l’art. 33 comma 4, prevede che le Regioni eroghino speciali incentivazioni a quelle Unioni che svolgono un maggior numero di servizi/funzioni.
C’è inoltre da osservare che alcune funzioni svolte in modalità associata (es. gli sportelli SUAPE) stanno riscuotendo un buon successo e buoni risultati, cosa che, come minimo, dovrebbe fare riflettere.
Insomma, i presupposti e i meccanismi ci sono, sta ai Comuni riuscire ad approfittarne in modo intelligente, accantonando magari logiche di potere e di campanile.
RTD in forma associata
Non è un caso, infatti, che, all’articolo 17 del CAD, viene aggiunto, nel 2017 un nuovo comma, 1-septies, che prevede esplicitamente che la funzione dell’Ufficio per la Transizione alla modalità operativa digitale, possa avvenire in forma associata.
Dove per forma associata si fa proprio riferimento, per gli stessi motivi, alle forme previste dal TUEL.
Possibilità rimarcata anche nella Circolare 2/2018 della allora Ministra Buongiorno, che caldeggia questa modalità, come quella preferenziale nel caso di piccoli comuni.
Su questo consiglio non si può che concordare, perché oggettivamente, come da tutto quanto sopra detto, questa modalità sembra essere l’unica strada realmente percorribile per i piccoli Comuni.
A patto, però, che venga attuata in modo coerente.
Non è infatti possibile semplicemente nominare un RTD in capo, ad esempio, ad un’Unione, senza poi dotarlo di un ufficio all’altezza del compito. Non solo non si risolverebbero i problemi ma al contrario si andrebbe a caricare un’unica persona della responsabilità della gestione della funzione di RTD di tutti gli Enti associati.
Va ben inteso cosa significa svolgere questo ruolo in forma associata: significa delegare tutte le funzioni che stanno in capo all’ufficio per la trasformazione digitale all’unione, in primis, questo deve essere chiaro, le funzioni dell’Informatica di cui, l’RTD, è esplicitamente investito ai sensi dell’art. 17. Sarebbe altrimenti impossibile, ad esempio, coordinare gli acquisti informatici, gestire i singoli sistemi informativi degli Enti (RTD è anche il responsabile dell’adozione delle misure di sicurezza di cui alla circolare 2/2017 di Agid) e svolgere il ruolo coordinamento nella revisione dei processi, che il codice gli attribuisce.
Significa inoltre riuscire a fare in forma associata, tutto ciò che singolarmente, un singolo Comune non può fare:
- avere un RTD che svolge a tempo pieno questa funzione;
- dotato di uno staff adeguato che lo possa supportare non solo nell’ambito tecnologico, che rimane comunque necessità primaria, ma anche a livello di gestione documentale, privacy e trasparenza
- che sia già formato, o possa esserlo attraverso preciso percorso di formazione espressamente studiato.
Come fare?
Due le opzioni: la prima, la più semplice, quella che è di fatto delineata dal modello di cooperazione promosso a livello di strategia nazionale, è quella di trovare un Ente più grande (magari sovraordinato) in grado di offrire il servizio.
Con il rischio, sostanziale, di esserne poi di fatto assorbiti. E di non avere un servizio adeguato alle proprie caratteristiche, perché le esigenze (e le funzioni, se si tratta di Ente sovraordinato) sono diverse, spesso inconciliabili. Insomma, si troverebbe un padrone, più che un partner.
La seconda, quella forse più impervia ma per molti aspetti la più adeguata a salvaguardare l’autonomia degli Enti, consiste nell’utilizzare come centro di aggregazione una struttura locale, legata e governata dal territorio. Insomma, va creata, a livello di Unione, per esempio, una vera piccola struttura dotata di tutto quello che serve per poter affrontare la trasformazione digitale con successo, capace di coordinarne i vari aspetti e saper indirizzare anche l’operato dei fornitori.
Difficile ma non impossibile, sapendo approfittare di tutte le opportunità offerte dalla norma.
Che porterebbe notevoli vantaggi:
- maggiori chance di governare al meglio la transizione digitale, con tutto quello che ciò comporta;
- dare impulso generale alla produttività; erogare migliori servizi;
- sollevare gli enti associati di tutte le gestioni correlate, liberando risorse indispensabili per altri scopi;
- attivare/promuovere meccanismi di condivisione e collaborazione strutturali, anche in altri ambiti.
Con l’accortezza anche qui, di evitare il rischio, sempre presente in questi casi, che quella struttura non risponda ai bisogni/esigenze degli Enti che rappresenta, ma ne sappia sempre e comunque rappresentare le istanze, non sottraendosi al confronto/controllo.
Utopia? Forse, ma in fondo, quale altra alternativa c’è?
L’alternativa in realtà c’è: l’articolo 18-bis del CAD. Meditate…