Il piano nazionale dell’innovazione proposto dalla ministra Pisano, presentato alla fine dello scorso anno, è stato bersaglio di diversi commenti in alcuni casi condivisibili in altri meno. Più che prenderne le difese o criticarlo, vorrei qui, invece, evidenziare quello che è mancato finora alle strategie per il digitale che si sono susseguite nel corso degli anni, e che manca ancora.
Nessun piano è stato infatti finora in grado di ripensare la macchina della PA in maniera tale da permetterle di affrontare il terzo millennio nel ruolo di driver dell’innovazione. Continua a mancare un capitolo incentrato sul “come” inteso non con quali tecnologie (anzi di solito sono documenti nei quali non si perde l’occasione di citare le ultime tecnologie lette sui siti internazionali più in voga) ma con quale organizzazione, con quali processi, con quali persone si intenda compiere questa ancora incompiuta rivoluzione.
Quello che manca nel Piano Pisano
Pur in linea con le strategie precedenti, il Piano della ministra Pisano presenta alcune novità interessanti: si potrebbe quindi definirlo, più che “rivoluzionario”, un onesto piano “riformatore”, un documento di obiettivi e di principi realizzativi più che un piano, nel quale è necessario un cronoprogramma e una pianificazione dell’allocazione. E potrebbe non essere del tutto sbagliato, visto che esistono delle iniziative in corso che stanno portando risultati o promettono di farlo subito.
Non, quindi sono condivisibili a mio avviso alcuni commenti che si sono scagliati contro il piano con una particolare vis polemica, in alcuni casi da osservatori che non avevano ravvisato limiti, invece, nei piani precedenti.
In particolare, è da apprezzare l’attenzione verso elementi valoriali ed etici dell’utilizzo delle tecnologie, speriamo che non rimanga un richiamo oggi “di moda” ma si traduca in azioni concrete.
Mi vorrei soffermare su alcuni aspetti che non ci sono come non ci sono mai stati in questo tipo di documenti governativi e che invece sarebbe ora di inserire.
Sulle persone c’è un richiamo corretto alla formazione del personale della PA e questo è importante, abbiamo bisogno di formare continuamente il personale in un mondo che cambia.
Quello che intendo mettere in evidenza è che per gestire la tecnologia non basta essere dei bravi esperti tecnici, conoscere i dettagli tecnici (ovviamente è condizione necessaria possedere questo tipo di conoscenza tra il personale coinvolto) ma occorre soprattutto sapere come organizzarla e farla operare. In una ricetta di cucina sono importanti gli ingredienti ma ancora più importante è saperli mettere insieme e saperli amalgamare tra loro.
Oggi per fornire servizi IT in tutto il mondo (nel privato come nel pubblico) è largamente adottata la metodologia che in origine è stata prodotta dal governo inglese negli anni ’80, l’ITIL (Information Technology Infrastructure Library), che oggi è evoluta in un framework di best practices che coprono tutti i processi necessari ad una organizzazione per progettare, realizzare e gestire servizi. E la PA è prima di tutto il gestore di servizi più grande del paese, questi servizi sono sempre di più digitali e quelli che non si possono digitalizzare completamente fanno sempre più uso di software e algoritmi.
Come aiutare la PA a gestire i servizi IT
Dunque, mi sarei aspettato dai piani che si sono susseguiti negli ultimi anni un capitolo su come dobbiamo aiutare la PA a gestire i servizi IT. Non di rado si diventa funzionari o dirigenti informatici della PA dopo aver fatto un concorso e magari senza una esperienza pregressa di management, si è preparati dal punto di vista della tecnologia ma non si ha l’adeguata esperienza e capacità di organizzare i servizi IT in modo efficiente ed efficace. A livello internazionale esistono certificazioni, percorsi di formazione, best practices, guide che possono aiutare ad acquisire questo tipo di competenze e soprattutto metterle in pratica.
Magari il Governo potrebbe istituire, accanto a strutture in grado di supportare le amministrazioni dal punto di vista tecnologico e/o normativo, anche un pool di esperti interni della PA in grado di mettere a disposizione la loro conoscenza ed esperienza per dare indicazioni precise su come si devono organizzare le amministrazioni, su come vanno governati i progetti, su come vanno misurati i servizi resi all’utente, costruire benchmark che consentono alle amministrazioni di comprendere il gap che hanno con le altre nel fornire servizi efficaci. Ma anche un insieme di tool.
Ma accanto ad ITIL esistono altri framework metodologici che sarebbero utilissimi al governo delle tecnologie, ad esempio COBIT consente di avere uno strumento complementare ad ITIL nato con l’idea di avere un set completo di raccomandazioni e controlli che le aziende possono utilizzare per verificare se le strutture operative seguono le direttive fissate dagli organismi di comando. In questo modo si evita che parti di azienda si muovano disallineate alle direttive aziendali e si discostino dalla strategia fissata. Pensiamo a quante volte sono state lanciate iniziative nazionali ritardate o fallite perché le amministrazioni non sono state in grado di rispettare i tempi o le hanno realizzate senza l’adeguata coerenza tra loro.
Sicuramente è vero che l’innovazione non ha bisogno di gabbie che fermino la creatività ma è anche vero che in molti casi assistiamo ad amministrazioni che tentano di reinventare l’acqua calda non solo consumando risorse scarse ma anche fornendo un cattivo servizio al cittadino.
Riportare le competenze informatiche dentro la PA
Le organizzazioni che gestiscono l’IT differiscono tra ministeri, enti e autonomie locali, anche qui in parte è normale ma mi aspetterei delle linee guida che tengano insieme almeno alcune cose comuni frutto di best practices ormai difficilmente confutabili.
Accanto a un approccio comune e condiviso dell’organizzazione e dei processi (con uno scambio di esperienze tra amministrazioni) è anche necessario riportare dentro la PA le competenze informatiche. Questo tema è in discussione da diversi anni e alcune voci anche dall’interno dei dirigenti PA hanno sollevato la necessità di inserire competenze tecniche informatiche. E invece continuiamo a perderle complice il mancato turnover. D’altra parte è abbastanza scontato visto che immaginiamo una PA sempre più digitale inserire competenze tecniche e manageriali proprio su questi temi.
La PA driver per digitalizzare il mondo privato
Un altro punto importante del documento è il richiamo della PA come driver per digitalizzare il mondo privato, lo ritengo un elemento decisivo. Su questo fronte credo che la PA non solo debba occuparsi di far fare un salto alle aziende private che, vedendosi costrette o meno, cominciano o aumentano l’uso dell’IT per utilizzarne al meglio i servizi ma debba anche occuparsi di spingere il lato dell’offerta IT ad organizzarsi meglio, a spendere di più in formazione e a pagare in modo adeguato i professionisti (anche per ridurre la fuga di competenze all’estero attirate da progetti più interessanti, migliori opportunità economiche e di carriera), ad adottare buone pratiche manageriali come quelle prima citate (ma ve ne sono anche altre che sarebbe interessante adottare). Tutto ciò all’inizio sarà un costo in più (a partire dalla PA), richiederà da parte dei fornitori IT privati un investimento aggiuntivo ma che sarà ripagato da un modello di business più competitivo, capacità di soddisfare meglio il cliente (pubblico e privato), dalla capacità di confrontarsi a tutto tondo con il mercato mentre oggi esistono intere aziende che dipendono esclusivamente dal mercato pubblico e non è un bene né per loro e né per la PA.
Sarebbe necessario concentrare parte degli sforzi su come organizzare meglio i servizi IT, il modo in cui li costruiamo e progettiamo, ripensare il modello di gestione e controllo dei progetti e delle iniziative (che spesso hanno subito enormi ritardi o lievitazione di costi). Pensiamo a quante iniziative hanno subito ritardi o cancellazione per il mancato rispetto dei tempi o degli obiettivi, istituire un soggetto centrale in grado di aiutare le amministrazioni a monitorare le attività e i servizi può essere un valido strumento per intervenire preventivamente sui possibili problemi e condividere approcci comuni alla loro risoluzione.
La gestione dei fornitori
Un altro aspetto su cui lavorare è la gestione dei fornitori, il loro monitoraggio, non solo il tema di tempi e modi per acquisire che è fondamentale ma anche quello che accade dopo, come le amministrazioni possono governare bene il fornitore esterno per evitare lock-in o la lievitazione dei costi o la consegna di prodotti e soluzioni che non corrispondono a quanto necessario. Acquisire questo genere di pratiche manageriali (anche qui basta adottare e adattare pratiche diffuse a livello internazionale) consentirebbe di spendere meglio, ottenere servizi migliori e aiuterebbe i fornitori attraverso l’interlocuzione con un interlocutore che ha chiaro come deve operare, i suoi obiettivi e i suoi criteri di misurazione. Soprattutto facilitando i fornitori a confrontarsi il più possibile con un unico modo di operare anziché dover inseguire i particolarismi o le eccezioni di ogni singola amministrazione. Oggi spesso non è nemmeno chiaro come fissare un Livello di Servizio, come misurarlo, quali sono gli indicatori da applicare per misurare il prodotto che i fornitori offrono. Le linee guida (che in alcuni casi ci sono) possono aiutare ma sarebbe necessario un cambio di passo. In questo contesto si possono facilmente creare “spiazzamenti di mercato”, “asimmetrie informative”, extra costi di transazione nelle quali le aziende poco serie prendono fette di mercato a scapito delle aziende più oneste e preparate.
Un capitolo in più
Quello di cui avrebbe bisogno il piano presentato dalla ministra Pisano (come i precedenti) è un capitolo in più, un capitolo focalizzato su come ripensiamo la macchina della PA per affrontare il terzo millennio, focalizzato proprio su come le strutture che presidiano le tecnologie informatiche devono operare in termini di persone, processi, tecnologie e direi soprattutto cultura organizzativa. Non basta avere “innovation manager” o “responsabili della transizione digitale” ma serve un sistema coerente di modalità comuni di lavoro. C’è anche bisogno di un criterio comune a tutte le amministrazioni per misurare ciò che accade perché non si può migliorare senza prima misurare e questo Paese ha bisogno di migliorare più che di riformare (soprattutto se le riforme rimangono sulla carta).
Abbiamo bisogno di una rivoluzione manageriale per migliorare e omogeneizzare le diverse strutture, già oggi ci sono molti casi eccellenti e positivi nella PA, questi rimangono casi più o meno isolati ma non diventano lo standard e non diventano modus operandi da adottare e migliorare, questo ci fa perdere tempo, denaro e soprattutto qualità nei servizi che vengono erogati ai cittadini e alle imprese. Con il risultato che malgrado da quasi trent’anni i governi sfornino piani, progetti e strategie digitali o sull’informatica nella PA il principale malessere della popolazione rimane contro la “burocrazia”.