Una delle principali riforme “abilitanti” previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è quella della pubblica amministrazione, che è chiamata ad uno sforzo eccezionale per gestire i fondi europei.
Il PNRR, tuttavia, non scioglie un nodo che ha sostanzialmente bloccato tutti i numerosi tentativi di riforma della PA, ossia il passaggio da un’amministrazione che esegue procedure a una che risolve problemi. Purtroppo i due approcci entrano spesso in conflitto tra loro, come mostra la famosa scena del film “Pulp Fiction” in cui Mr. Wolf , chiamato da due killer sgangherati, si presenta proprio come “uno che risolve problemi” e trova una soluzione indubbiamente efficiente per far sparire le tracce di un omicidio, violando qualsiasi legge.
Tutti abbiamo sognato almeno una volta che Mr. Wolf si materializzasse dietro lo sportello di un ufficio pubblico per soddisfare esigenze del tutto legittime, come spostare la parete di un appartamento o trovare un posto in un asilo nido. Perfino il presidente Mattarella e il ministro Brunetta hanno invocato il suo intervento.
L’Agenda Brunetta: la PA al centro della ripresa, il cittadino al centro della PA
Invece ci siamo trovati difronte un impiegato, più o meno disponibile, che ci ha richiesto montagne di documenti (generalmente cartacei) per “avviare una procedura” che forse avrebbe risolto il nostro problema rispettando tutte le norme e le buone pratiche amministrative. È come se a un naufrago si chiedesse di compilare e firmare un modulo per ottenere un salvagente e un altro per essere issato a bordo. E si badi bene che la richiesta sarebbe del tutto ragionevole, visto che la persona tra le onde potrebbe essere un clandestino da riportare in patria, un evaso, un aspirante suicida che non vuole essere affatto salvato, oppure fosse affetto da qualche malattia contagiosa, o se rivelare le circostanze del salvataggio e le sue condizioni legali e di salute violasse la sua privacy.
Le tecnologie per una PA che risolve problemi
Se la riforma della PA dovesse risolversi solo in una accelerazione e semplificazione delle procedure esistenti sarebbe un fallimento. Oggi le tecnologie digitali permettono già di ridurre sensibilmente gli oneri burocratici a carico del cittadino e di automatizzare molte procedure tramite l’intelligenza artificiale (AI), che è arrivata ormai a livelli di efficienza inimmaginabili fino a qualche anno fa. Ad esempio, Stefano Scarpetta, su questo sito, ha riportato l’inquietante risultato di un esperimento che dimostrava come solo un decimo degli umani riusciva a superare i test PISA dell’OCSE meglio di un algoritmo di AI. Questo significa che già oggi la maggior parte delle richieste rivolte alla PA potrebbero essere processate quasi istantaneamente, in modo imparziale, come prescrive la Costituzione, e senza rischi di corruzione. Tuttavia questa non sarebbe una vera riforma della PA, ma solo la migrazione dell’attuale apparato burocratico su una piattaforma più efficiente.
Intelligenza artificiale, l’impatto su occupazione e salari: luci e ombre
Volendo semplificare la massimo, la PA svolge due compiti fondamentali: fornire direttamente servizi (come l’istruzione, la sanità, la pubblica sicurezza, ecc.) e gestire processi (includendo in questa categoria la “concessione” di autorizzazioni; l’elaborazione, il monitoraggio e la verifica di progetti; ecc.). Sul primo aspetto la PA è già abbastanza attrezzata, nonostante organici che sono quasi la metà di quelli della Francia a parità di popolazione, e personale anziano e spesso poco qualificato. La qualità dei servizi varia molto tra i settori e le aree geografiche, ma nel complesso è quasi accettabile, perché qualsiasi organizzazione, davanti ad esigenze concrete (occuparsi di un malato, uno studente, un terremotato, ecc.) non può che rispondere in modo flessibile.
A mio avviso, il buco nero della PA è invece nella gestione dei processi. Un coacervo inestricabile di norme e prassi rende difficile progettare qualsiasi attività senza arenarsi in conflitti tra i diversi livelli di governo e senza incorrere nella censura di tribunali amministrativi, autorità ed organi di controllo contabili. Se questo approccio dovesse essere seguito anche nella gestione dei fondi del PNRR andrebbe sprecata l’ultima occasione di rilanciare il Paese. Finora il forte accentramento nella predisposizione del piano ha consentito di superare molti intralci burocratici, ma è prevedibile che l’attuazione dei singoli progetti sarà molto meno semplice, dovendo rispettare tutti i vincoli normativi e procedurali di qualsiasi atto amministrativo.
La PA e il dedalo delle (assurde) circolari applicative
Senza arrivare alla disinvoltura di Mr. Wolf, la PA dovrebbe poter proporre soluzioni praticabili ai problemi concreti posti da cittadini e imprese, invece di limitarsi ad indicare i “paletti” previsti dalle norme vigenti. Al contrario, la tipica risposta della PA a qualsiasi richiesta è il rimando a qualche circolare applicativa (ossia un atto che dovrebbero chiarire aspetti pratici di una attività legittima) scritta con una chiarezza degna della penna di Nostradamus.
Ad esempio, la circolare su una materia che dovrebbe essere abbastanza semplice come la circolazione dei monopattini elettrici è composta da 27 pagine, di cui 14 di allegati, che comprendono anche un incongruo elenco delle parti che devono comporre un “dispositivo per la micromobilità elettrica”, il quale include perfino una misteriosa “rotellina” e un “manico per il trasporto”. Le prime due pagine dell’allegato sono composte da riferimenti a norme e considerazioni illuminanti ed originali come quelle sul valore “ambientale, economico e sociale” di tali mezzi e sulla necessità di ridurre l’inquinamento e il traffico nelle città. Si comprene l’obbligo di motivare qualsiasi atto amministrativo, ma forse questi richiami potevano essere risparmiati. La maggior parte delle frasi sono talmente lunghe da non poter essere lette tutte di un fiato neanche da un campione di apnea. Si noti che questo stile non è frutto della mente contorta di qualche funzionario “obsoleto”, ma deriva da norme nazionali ed europee ugualmente complicate, come quella che individua ben 10 categorie di “dispositivi”, soggette ad altrettante normative diverse.
Una PA che “risolve problemi” non dovrebbe emanare simili atti, ma piuttosto vigilare sulla qualità dei “dispositivi per la micromobilità elettrica” in vendita e in circolazione, imponendo eventuali modifiche per quelli fuori norma. Mettere online simili circolari, come prevede una visione minimalista della digitalizzazione della PA, non migliora affatto la sicurezza della circolazione, ma semplicemente perpetua pratiche inutili e controproducenti. Probabilmente le stesse circolari dovrebbero essere del tutto abolite, come è accaduto per i banditori che una volta leggevano le “grida” per strada. Oggi sarebbe molto più semplice istruire un software di AI, neanche troppo sofisticato, a rispondere a quesiti posti in linguaggio naturale su come deve essere fatto e come si deve condurre un monopattino elettrico. Esistono già prodotti commerciali che fanno cose simili. L’AI consente addirittura di risolvere dispute legali non banali, come documentano Barnett Jeremy e Philip Treleaven (2018). Quindi queste opportunità di riforma della PA sono già a portata di mano.
Così, a chi chiede se col suo monopattino può percorrere un certo tratto di strada, una vocina gentile, utilizzando i dati sulla sua posizione e dopo aver chiesto qualche chiarimento sul mezzo, potrebbe rispondere semplicemente sì o no, seguendo anche il noto precetto evangelico (Mt 5, 17-37, come avrebbe chiosato uno dei protagonisti di “Pulp Fiction”). Sarebbe invece un disastro se lo stesso software fosse istruito a rispondere col testo della circolare, ovvero: “Fermo restando quanto previsto dal comma 2, quando, ai sensi dell’articolo 3 e relativo Allegato 2, è ammessa la circolazione di dispositivi per la micromobilità elettrica, sulle piste ciclabili, sui percorsi promiscui pedonali e ciclabili, identificabili con la figura II 92/b del decreto del Presidente della Repubblica 16 dicembre 1992. n. 495 e nelle zone 30 o su strade ove è previsto un limite di velocità massimo di 30 km/h, gli utilizzatori conformano il loro comportamento alle prescrizioni di cui all’articolo 182, comma 1, con esclusione dell’ipotesi di circolazione fuori dai centri abitati, e commi 2. 3 e 4 del Codice della Strada e di cui all’articolo 377. commi 1, 2, 3, 4, 6 e 7. del Regolamento. Si applicano le disposizioni del comma 10, primo periodo, del citato articolo 182 del Codice della strada.” Da questo punto di vista, la litania sulla privacy ripetuta da qualsiasi call center è un pessimo precedente. Naturalmente nulla impedisce che, su esplicita richiesta dell’utente, la stessa vocina gentile dia anche lettura di tutta la normativa a riguardo.
Il caso esemplare della campagna di vaccinazioni contro il Covid
Un altro rischio di una digitalizzazione della PA interpretata in modo minimalista è il disegno di procedure ibride, che partono in forma digitale, passano attraverso una fase cartacea ed eventualmente tornano in modalità digitale. E’ il caso della campagna di vaccinazioni contro il Covid, che poteva essere un banco di prova per un iter semplice e completamente digitale, che avrebbe reso più rapido, sicuro e trasparente l’intero processo.
La prenotazione del vaccino avviene attraverso un portale che consente di scegliere data e luogo ed indirizza anche verso la soluzione più rapida, come qualsiasi sito di prenotazione di viaggi e alberghi. Al termine della registrazione si riceve un SMS o una email con l’appuntamento, ma non basta: viene richiesta anche la stampa di un modulo di una decina di pagine da compilare a mano e consegnare al momento della vaccinazione. Qui il modulo viene ritirato alla reception assieme alla tessera sanitaria e le risposte sono riportate su un terminale. In cambio viene consegnato un nuovo modello a stampa da consegnare al medico che procede all’anamnesi preliminare. Costui riempie sempre a mano il nuovo modulo pur avendo sul tavolo, in bella vista, un tablet. Una volta ricevuto il vaccino si ritira un ultimo modulo cartaceo con le indicazioni in caso di complicazioni. È ovvio che in questi passaggi tra carta e digitale possono verificarsi degli errori (per esempio a me è capitato di essere scambiato con una signora, e temo che solo la mia barba abbia consentito di correggere l’errore in tempo), ma soprattutto si sprecano tempo e risorse umane qualificate che potrebbero essere utilizzate per vaccinare, invece che per trattare scartoffie. Eppure leggi e regolamenti impongono ancora firme autografe per certificare le dichiarazioni rese, anche per chi disponga di strumenti come lo SPID o la firma elettronica. E dire che qualsiasi corriere dispone di piccoli ed economici apparati in grado di registrare una firma e qualsiasi telefono riconosce un’impronta digitale (e alcuni anche dell’iride).
Se la riforma della PA non tocca questi aspetti, anche l’arruolamento di giovani “nativi digitali”, brillanti e motivati sarebbe del tutto inutile. Sarebbe come mettere dei piloti di F1 alla guida degli autobus di linea in una città intasata dal traffico. Non ci sarà alcun miglioramento sostanziale se i giovani saranno impiegati per redigere e studiare circolari come quella sui monopattini e per seguire le procedure esistenti, seppure migrate su piattaforme digitali.
Cosa serve per un vero salto di qualità
Il vero salto di qualità si avrà solo trasformando la montagna di norme e prassi in algoritmi capaci di rispondere ad esigenze concrete. L’utente, dopo aver risposto ad una serie di domande, dovrebbe essere messo in grado di risolvere il suo specifico problema con la certificazione che tale soluzione è conforme alle leggi vigenti. Il passo successivo potrebbe essere quello di ingegnerizzare le norme primarie e secondarie, in modo da escludere ogni ambiguità interpretativa. E’ comprensibile che ciò comporterebbe una rivoluzione dell’intero processo legislativo, con riflessi non banali sul ruolo del parlamento e del governo. Ad esempio, sarebbe necessario garantire che gli algoritmi rispecchino esattamente la volontà del legislatore, il quale dovrebbe dunque attrezzarsi per testare e verificare milioni di linee di codice. Sarebbe anche indispensabile escludere (o quantomeno regolare in modo trasparente) l’esistenza di backdoor grazie alle quali “forzare” i risultati dell’algoritmo. Inoltre è probabile che solo una parte della produzione normativa si presti a questa “traduzione”, che tuttavia è certamente fattibile per quasi tutte le norme tecniche, che ormai costituiscono il grosso dell’attività legislativa. Non è detto che questo processo, seppure assistito dalla tecnologia, non prenda più tempo delle procedure correnti e non conceda ai “tecnici” margini di discrezionalità superiori a quelli attuali.
Se la trasformazione delle norme in algoritmi sembra una soluzione troppo drastica e disumanizzante, si potrebbero almeno istituire dei call center per chiarire l’interpretazione e l’applicazione delle norme. Sarebbe un buon modo per creare lavoro e per riassorbire la “disoccupazione tecnologica” di cui saranno quasi certamente vittime molti operatori del diritto in caso di una vera riforma della PA, che contribuisca anche a sfrondare il contenzioso.
*Le opinioni riportate in questo articolo sono esclusivamente quelle dell’autore e non implicano alcuna condivisione o supporto da parte delle istituzioni di appartenenza
Bibliografia
Barnett Jeremy e Philip Treleaven (2018), “Algorithmic Dispute Resolution—The Automation of Professional Dispute Resolution Using AI and Blockchain Technologies”, The Computer Journal, Volume 61, Issue 3, pp. 399–408, https://doi.org/10.1093/comjnl/bxx103.