Luglio 2018. Un’afosa suspense generale attanaglia l’Italia Digitale, sospesa sul filo di una doppia scadenza, in attesa del termine del mandato del Commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale (previsto per il 15 settembre) e della prossima nomina del nuovo Direttore dell’Agenzia per l’Italia Digitale, all’indomani di una sfiorata crisi governativa.
Le cose fatte e quelle da fare
Stiamo vivendo una fase di sospensione apparente che, in realtà, dura da tanto tempo purtroppo. E si continua a lavorare, nelle realtà pubbliche, come in quelle private, cercando di dare un senso a un discorso digitale, dettato male e trascritto peggio, nell’ultimo biennio di “Commissariamento Straordinario”, a conclusione del quale abbiamo all’attivo:
– SPID (il tanto decantato Sistema Pubblico di Identità Digitale voluto dal governo Renzi): 2,6 milioni di identità (su circa 63 milioni di italiani). Servizi online inesistenti e i gestori che (giustamente) si chiedono che fine abbia fatto la promessa convenienza del sistema per loro.
– ANPR (l’Anagrafe nazionale della popolazione residente): 346 comuni attivi su circa 8000. Situazione a dir poco imbarazzante
– Regole Tecniche. Ah, già le Regole. Da più di un anno e mezzo si attendono le regole tecniche previste dal Codice dell’Amministrazione Digitale (che da decreto di nomina commissariale potevano essere portate avanti direttamente da Piacentini) e il DPCM 23 novembre 2014 sulla formazione dei documenti informatici è da più di un anno e mezzo in una situazione di irreale sospensione (quando il Legislatore si era dato 4 mesi per rinnovare le regole tecniche).
– CAD. Della ennesima, piccola riforma del CAD per evitare di sparare sulla Croce Rossa si evita di parlare…
– PagoPA e la fatturazione elettronica. Sembrano andare avanti con un minimo di serietà (anche se comunque con forti criticità). Tuttavia, si tratta di progetti partiti da lontano e non certo attribuibili al Commissario Piacentini.
Comprendo tutto, comprendo le enormi difficoltà e la voglia irrefrenabile di storytelling per farci coraggio nella palude in cui siamo finiti negli ultimi trent’anni, ma vogliamo renderci conto che è ancora, inesorabilmente tutto fermo? E ricordo anche che – secondo quanto previsto nella normativa istitutiva (contenuta nell’art. 63 del decreto legislativo 179/2016) – il Commissario Piacentini ha ex lege pieni poteri sostitutivi su tutte le PA locali e centrali per le questioni che riguardano il digitale.
Questo breve bilancio che, di certo, non ha la pretesa di esaustività, rischia tuttavia di trasmettere una visione semplicistica della storia recente, partendo dal finale, dalle “cose già fatte” (o non fatte) e non dal principio, ossia “da ciò che si poteva fare”. Un resoconto davvero utile, a parere di chi scrive, dovrebbe farci percepire il reale valore assunto da questi dati in rapporto agli effettivi poteri concessi, ab origine, al commissario Piacentini.
Ciò che si sarebbe potuto fare
In base al Decreto di nomina, a Diego Piacentini era stato concesso di esercitare poteri di “impulso e coordinamento”, potendo addirittura, in caso di “inadempienze gestionali o amministrative” di una certa gravità, relative all’attuazione dell’agenda digitale, invitare l’amministrazione competente ad adottare, entro il termine di trenta giorni dalla data della diffida, i provvedimenti dovuti, avvalendosi dell’eventuale facoltà, una volta decorso il termine, di esercitare il potere sostitutivo (su autorizzazione del Presidente del Consiglio, previa comunicazione al Consiglio dei ministri) in conformità a quanto previsto ai commi 3 e 4 dell’articolo 63 del d.lgs. n. 179 del 2016.
Ancora, il Commissario avrebbe potuto rappresentare il Presidente del Consiglio nelle sedi istituzionali internazionali destinate a discutere di innovazione tecnologica, Agenda digitale europea e governance di Internet, oltre che partecipare agli incontri preparatori dei vertici istituzionali, al fine di supportare lo stesso Presidente nell’elaborazione e attuazione di azioni strategiche, sempre in materia di innovazione tecnologica.
Avrebbe potuto, si. Tuttavia, nel bilancio precedentemente tracciato, nulla di tutto questo risulta effettivamente all’attivo. Eccezion fatta per la stesura del Piano triennale per la pubblica amministrazione 2017-2019, un documento che somiglia piuttosto a una miscellanea complessa di obiettivi, tempistiche (già non rispettate) e strategie, basata sulla statistica delle parole e degli slogan, nato piuttosto dalla voglia di stupire, farcito di termini e parole d’ordine nuovi, ma inutili a preservare e rinvigorire la tradizione normativa, amministrativa e per certi versi archivistica del nostro Paese.
Quali competenze per riorganizzare il paese
Sembra che il Commissario sia riuscito ad allargare, incredibilmente, il confine tra realtà “reale” e realtà “digitale” acuendone il divario interno alla PA, sempre meno autonoma e sempre più “automatizzata”, ossia dipendente dai sistemi e dall’informatica, piuttosto che dai processi e da una governance chiara, basata su competenze sufficientemente integrate. Si continua a ripetere che il mantra dell’innovazione digitale è il rinnovamento e l’acquisizione di competenze. Si, ma quali?
Se è pur vero che “Il programmatore è l’operaio del futuro”, ciò non toglie che altre competenze, non solo quelle più comunemente associabili ai “nerd”, siano essenziali per riorganizzare l’intero sistema Paese, che non può essere e di certo non verrà salvato da un assistente Google (o piuttosto Amazon).
Un premier Chief Digital Officer
Ciò che sosteneva Goethe e cioè che “tutte le leggi sono fatte da vecchi e da uomini. I giovani vogliono le eccezioni, i vecchi le regole”, suona quanto mai attuale, ma non possiamo pensare che oggi, piantare la bandiera dello svecchiamento significhi pensare di riscrivere la storia istituzionale e giuridica del nostro Paese, ignorandone gli equilibri che ne sono alla base. Occorre di fatto tracciare una governance di matrice statale (e non politica) guidata magari da un’Agenzia che sia resa autorevole, non sotto le dipendenze del solito Ministro dell’innovazione, ma di un Premier consapevole, che sia Chief Digital Officer di e per tutti i ministeri. Di questo c’è assoluto bisogno: di rendere il digitale non “roba da nerd”, ma consuetudine strategica di ogni scelta politica. Dobbiamo ricordarci, infatti, che nel nostro sistema istituzionale, il Parlamento ha il potere (almeno astrattamente) di “fare le leggi” e il Governo quello di elaborare le strategie e soprattutto di governare, mentre su entrambi ricade il compito di operare negli interessi e dei cittadini e delle imprese. E oggi l’interesse è unanimemente digitale perché la realtà è digitale.
Questa consapevolezza ci deve supportare nel proseguire il percorso di crescita digitale del Paese, come già indicato in diverse occasioni da esponenti autorevoli del settore, quali il prof. Donato Limone, che in un suo intervento ha prospettato addirittura l’ipotesi di istituire una Commissione permanente parlamentare che si occupi del digitale in senso totale e globale. Con la finalità di un intervento non più estemporaneo ma sistemico e in relazione ad una “visione” chiara, precisa, con poche regole e con indicazioni precise anche per il governo. Una azione legislativa forte, competente, rispettosa del mercato e delle autonomie amministrative delle Pubbliche amministrazioni ma finalizzata a supportare il mercato e a semplificare e digitalizzare la stessa azione amministrativa.
Una prospettiva di lungo termine
Non un’ipotesi peregrina, ma una prospettiva di lungo termine. Questo occorre per uscire da una fase generalizzata di suspense, nel corso della quale, il decreto di delega intervenuto (Gazzetta Ufficiale del 5 luglio 2018), chiarisce che le competenze su digitalizzazione Pa e Agenzia per l’Italia digitale, sono affidate per il momento, a Giulia Bongiorno, che si troverà a fronteggiare le problematiche ormai note.
D’altronde lo stesso Samaritani, nel dossier di fine mandato consegnato al ministro, ha sottolineato come il percorso fatto a partire dal 2015, sia stato caratterizzato da numerose criticità, molte delle quali restano ancora irrisolte. “Si è spesso detto che AgID faceva troppe cose – ha riferito Samaritani – ma il problema è semmai avere il coraggio politico di pensare una governance che definisca ruoli chiari per tutti i soggetti che a vario titolo si occupano della digitalizzazione del Paese (…) avendo un’idea precisa di quali siano tutte le attività da presidiare per governare strategia e operatività dell’ICT del Paese. Una governance realmente chiara – aggiunge Samaritani – valorizza competenze e ruoli creando le condizioni per una collaborazione fondata su una relazione win-win e non sulla competizione necessaria per conquistarsi spazi in un campo di gioco variabile”
Il digitale come “regola” non come eccezione
Alla luce di queste condivisibili considerazioni, non possiamo non accorgerci di come l’informatica abbia ormai smesso di essere percepita come strumento, per trasformarsi nella sola ed unica “soluzione”, magari sovrapponibile alle stesse Leggi e ai Codici, ormai indeboliti e, sempre più spesso, trattati alla stregua degli stessi software, da sottoporre a continui aggiornamenti (si veda il caso dello stesso CAD). In conclusione, continuano in questa situazione a esistere coloro che pensano che il mondo digitale dovrebbe essere la “regola” e non l’”eccezione”, che la governance del Paese sia questione di metodo e non di strategie “straordinarie” – dettate da commissari altrettanto “straordinari” – che l’informatizzazione sia lo strumento e non l’unica soluzione da perseguire.
Esistono persone che continuano a ignorare gli slogan e nutrono fiducia in tutto questo. E chi non lo fa, sbaglia.