Il governo con un decreto-legge è pronto a rinviare la sperimentazione del voto elettronico, votata più volte in Parlamento sin dal 2019. Una scelta grave che cerca di nascondere la volontà di non occuparsi della vicenda e che rappresenta un torto a milioni di cittadini, studenti e lavoratori, che vivono lontani dal luogo di residenza. Un errore perché la tecnologia può aiutare a favorire la partecipazione in una società sempre più in movimento.
Voto elettronico, sfida della democrazia digitale: l’esempio pratico del sistema “Eligere”
Il decreto-legge quasi pronto
Lo scorso 21 aprile il governo avrebbe dovuto approvare un decreto-legge in materia di elezioni, in vista del turno elettorale di giugno per comunali e referendum. Stando alle bozze diffuse dalla stampa, il provvedimento avrebbe, tra l’altro, rinviato di un anno la sperimentazione del voto elettronico “in considerazione della situazione politica internazionale e dei correlati rischi connessi alla cybersicurezza”.
Il decreto non è stato poi esaminato in Consiglio dei ministri e c’è da sperare in un ripensamento sul punto. La scelta del rinvio della sperimentazione nasconde malamente la volontà di non occuparsi della vicenda, dopo che il Parlamento con la manovra 2020 ha deciso di stanziare 1 milione di euro e con diversi voti nel 2021 ha ampliato tale possibilità a tutti i tipi di elezioni.
La via italiana al voto digitale
La sperimentazione italiana ha individuato una platea molto definita per il potenziale utilizzo del voto digitale: gli italiani all’estero e gli elettori che, per motivi di lavoro, studio o cure mediche, si trovano in un comune di una regione diversa da quella del comune di residenza. Sono i cosiddetti “fuorisede” che più volte si sono mobilitati per chiedere di poter esercitare un diritto costituzionalmente garantito.
Come dimostrano i trend di affluenza, queste due categorie di elettori –in totale circa 7 milioni di persone- scontano ostacoli significativi per la piena partecipazione elettorale. Un deficit democratico a cui lo Stato pensa di far fronte con risposte del secolo scorso tra voto per corrispondenza e parziali agevolazioni sulle spese di viaggio (60 milioni di euro in 15 anni). È quindi un dovere da parte della politica individuare soluzioni alternative, non solo digitali.
L’input della politica e la resistenza della burocrazia
L’input della politica è sempre stato chiaro: il voto digitale va sperimentato. Lo dimostrano le diverse proposte di legge presentate da più partiti in Parlamento. Il Movimento 5 Stelle ha scelto la strada più breve ed efficace, istituendo direttamente con un emendamento alla legge di bilancio 2020 un fondo per finanziare test e simulazioni. Non servono leggi di principio, a volte difficili da portare avanti nell’iter parlamentare. Serve prima concretamente sperimentare e testare, imparare dagli errori e correggerli, per assicurare un voto in linea con i requisiti dettati dall’articolo 48 della Costituzione.
A fronte di questo impulso univoco, la burocrazia non ha reagito con prontezza. Ci sono voluti diversi mesi –e iniziative parlamentari- prima di arrivare al decreto attuativo e alle linee guida sulla sperimentazione. Documenti essenziali, ma non sufficienti per far partire veramente i test.
La legittima prudenza non può diventare immobilismo anche perché i processi innovatori hanno bisogno di forti spinte per raggiungere l’obiettivo. La storia di successo dell’Anagrafe Digitale lo indica con nettezza. Nei primi anni l’adesione dei comuni è stata lenta (solo 300 comuni fino al giugno 2018) per poi crescere rapidamente grazie a un effetto valanga.
Del resto, la digitalizzazione in ambito elettorale non può riguardare solo il momento del voto. Bisogna passare a un ecosistema digitale capace di abbattere l’uso della carta e rendere più snelle le operazioni di voto. Pensiamo per esempio all’addio possibile alla tessera elettorale cartacea o alla piattaforma per la raccolta firme per referendum e proposte di legge.
La cybersicurezza
Sperimentare dopo un’attenta valutazione dei rischi e una puntuale definizione delle contromosse, quindi, è l’unica soluzione possibile.
Le possibili implicazioni sulla cybersicurezza alla luce del quadro internazionale appaiono oggi un pretesto, se non l’escamotage, per giustificare quel carattere di necessità e urgenza essenziale per introdurre la norma in un decreto-legge.
Proprio venerdì scorso l’Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, Franco Gabrielli, ha affermato che dall’inizio della guerra non si sono registrati nel nostro Paese significativi aumenti di attacchi cibernetici che comunque avvengono quotidianamente.
Ciò non esclude che non ci siano in futuro nuovi attacchi, ma il processo della sperimentazione prevede in prima battuta una simulazione senza valore legale per mettere alla prova l’intero meccanismo.
Non frenare l’innovazione
Per tutti questi motivi, dunque, appare insensato rinviare e frenare la sperimentazione. Una scelta che rappresenta un torto a milioni di cittadini, studenti e lavoratori, che vivono lontani dal luogo di residenza, e alla loro voglia di partecipare.
Il compito della neonata Agenzia Nazionale per la Cybersicurezza non è quello di fermare tutto per paura di eventuali attacchi informatici, ma di permettere il progresso tecnologico e l’innovazione nel nostro Paese garantendo la sicurezza.
Il blocco di bancomat e pos avvenuto qualche giorno fa non ha portato all’addio ai pagamenti digitali e all’uso esclusivo del contante.
I rischi vanno analizzati e superati. Stoppare ogni progetto innovativo rappresenterebbe un fallimento dell’Agenzia stessa alla cui nascita ho contribuito come relatore del decreto-legge che l’ha istituita.
Un curioso parallelo con la storia dei giorni nostri ci suggerisce qualche spunto di riflessione. Nel 2007, proprio l’Estonia, unico Paese in Europa in cui si può votare online, subì un grave attacco hacker molto probabilmente per mano russa. La risposta fu un massiccio investimento sui sistemi di difesa, non la rinuncia a un intenso processo di digitalizzazione.