previsioni

Mercato tech, dalla grande crisi nascerà la prossima rivoluzione

C’è chi scommette sull’intelligenza artificiale, chi sulla realtà aumentata e, ancora, chi ritiene che qualunque sarà, si costruirà sui resti fumanti del recente boom delle imprese tech. Se non si sa quale sarà la big thing del futuro, di certo si può già intuire la combinazione di fattori che ne decreterà il successo

Pubblicato il 27 Dic 2022

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano

green pass rubati

I momenti di grande crisi, come quello che il comparto tech sta attraversando dopo l’altrettanto grande crescita durante la pandemia (verificatasi poi essere in larga misura una bolla generata dall’enorme liquidità messa in circolo per sostenere l’economia) sono momenti molto importanti per la costruzione del futuro.

Come scrive anche Christopher Mims, tech columnist del Wall Street Journal nel suo articoloSurvival Lessons From Past Tech Downturns”: “In una fase di recessione tecnologica, le opportunità di creare la prossima grande impresa sono enormi. Questo è vero in qualsiasi momento del ciclo economico, ma le crisi ispirano la concentrazione, l’efficienza e l’urgenza necessarie per costruire un’impresa redditizia”.

Big tech, fine della corsa? Come crisi e nuove regole pesano sul futuro

Come insegnano eventi del passato (quali lo “scoppio della bolla Internet” all’inizio del secolo), le crisi sono momenti in cui le difficoltà che le imprese devono affrontare per la loro stessa sopravvivenza stimolano la creatività, creando le condizioni per il decollo della “prossima grande cosa”: ovvero dei nuovi ambiti di sviluppo che assumeranno il ruolo di traino che negli ultimi 10-15 anni hanno ad esempio giocato gli smartphone, il digital advertising, l’ecommerce e il cloud computing. Sono momenti in cui, aggiungo io, la grande fluidità indotta dalla crisi risulta mortale per molte imprese, ma – abbassando le barriere – rende più facile l’entrata in campo di nuovi protagonisti, portatori di business model radicalmente innovativi, e allo stesso tempo mantiene selettivamente ai vertici i protagonisti dell’era precedente che siano in grado di rigenerarsi e di porsi alla guida del cambiamento.

I numeri della crisi dopo lo scoppio della bolla pandemica

Tre i numeri che Mims riporta per dare un’idea della profondità della crisi del comparto tech:

  • si è ridotta nell’ultimo anno di oltre 7 trilioni di dollari – tre volte e mezzo il PIL italiano – la capitalizzazione complessiva delle imprese quotate al Nasdaq (in larga prevalenza tech), pur rimanendo superiore ai livelli pre-pandemia
  • i fallimenti di alcune imprese e la maggiore attenzione in generale ai costi e agli esborsi per investimenti stanno portando alla cosiddetta white-collar recession: con 140mila fuoruscite sinora dalle imprese tech
  • le cadute in Borsa hanno avuto un (ovvio) effetto di scoraggiamento sul venture capital: i finanziamenti alle startup si sono ridotti nel 2022, rispetto all’anno precedente, del 53 per cento.

Conti più oculati

C’è ora una tendenza generalizzata a concentrarsi sulla profittabilità, invece che sulla crescita.

Quello che gli operatori economici, e in particolare quelli tecnologici, chiamavano “blitzscaling” non è più in voga. Si tratta della strategia di crescita a tutti i costi impiegata con risultati alterni da Uber e DoorDash, prima di abbandonarla, ma anche da WeWork e FTX. Le ingenti perdite subite da fondi come Tiger Global e SoftBank, che sostenevano questo approccio, hanno immediatamente preceduto un calo massiccio dei finanziamenti alle startup nel 2022 rispetto al 2021.

In un mondo in cui i tassi d’interesse sono in aumento e le grandi aziende tecnologiche non possono più contare sugli azionisti per sostenere le loro spese in progetti di questo tipo, il consiglio più importante che l’ex venture capitalist e attuale imprenditore seriale Adam Dell ha per le aziende di ogni dimensione, e per le startup in particolare, è: “Non rimanere senza soldi”.

Il ruolo dei finanziamenti pubblici alla ricerca

Non va dimenticato, come messo in risalto nell’articolo, “il ruolo chiave della spesa pubblica nel determinare quali imprese saranno messe in grado di crescere o di nascere durante i downturns [e quali in assenza di aiuti verranno lasciate morire]”. Perché nei momenti di crisi spesso gli Stati intervengono con soldi pubblici, che possono essere spesi per meri salvataggi (con effetti di breve durata se le imprese sono decotte) o per promuovere progetti innovativi: come avvenne all’inizio degli anni ’90, quando un finanziamento al National Center for Supercomputing Applications della University of Illinois, nell’ambito dell’High Performance Computing Act, aprì la strada – con la creazione del Mosaic web browser – all’espansione del World Wide Web e all’era Internet tuttora in evoluzione. Anche in occasione della crisi in corso i soldi pubblici ci sono, ma con obiettivi in larga misura geopolitici e con una specifica focalizzazione sui semiconduttori:

  • ci sono negli Stati Uniti, che con il Chips and Science Act del 2022 hanno stanziato 52,7 miliardi di $ per evitare che tutto il manufacturing dei chip di punta da loro progettati sia localizzato in due Paesi prossimi alla Cina: Taiwan (ove ha sede la TSMC), soggetta anche a voglie di annessione, e Corea del Sud (ove ha sede Samsung);
  • ci sono in Cina, e molto consistenti, come risposta al blocco posto in atto dagli Stati Uniti alle importazioni nella Cina stessa dei chip più avanzati di progettazione americana, indispensabili per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e degli armamenti più sofisticati;
  • ci sono nell’UE, che mira alla sovranità digitale, con uno stabilimento di Intel che potrebbe essere aperto in Italia, e ci sono nell’UK, ove ha sede Arm (creatrice dell’architettura dominante nei microprocessori per smartphone).

Quale potrebbe essere la next big thing?

Si può temere che la minore disponibilità di soldi freni la sperimentazione e quindi l’innovazione; sull’altro piatto della bilancia però, le crisi ispirano la necessità di costruire un’impresa redditizia con una innovazione forte e concreta.

Ma allora come cambierà il mercato, cosa partorirà di nuovo e dirompente? È una domanda cui è quasi impossibile rispondere. Perché i progressi a monte – nei semiconduttori, nella intelligenza artificiale, nel quantum computing – sono indispensabili per rendere possibili a valle nuove tipologie di applicazioni (destinate a imprese, PA e/o consumatori finali) e nuovi business model. Ma perché è la combinazione fra

  • capacità creativa di individuare bisogni insoddisfatti o inespressi di consistenza rilevante, e
  • bravura nel concepire business model in grado di soddisfarli creando valore, fino a raggiungere dimensioni di mercato simili a quelle delle big thing attuali, che deciderà quali saranno le next big thing e chi prenderà il posto – o si affiancherà a quelle tra esse in grado di crearsi una nuova vita – di Apple, Microsoft, Google, Amazon e (se la scommessa sul metaverso non avrà successo) Meta.

Tra i personaggi intervistati da Mims, c’è chi scommette sull’intelligenza artificiale, e sulle centinaia di startup cui essa darà vita. Chi sulla realtà aumentata, soprattutto se Apple metterà finalmente sul mercato il suo tanto atteso mixed-reality headset. E infine chi scommette su una continuità ancora maggiore, ritenendo che qualunque sarà, la big thing del futuro sarà costruita sui resti fumanti del recente boom delle imprese tech (“whatever comes next will be built from still-smoldering remnants of the recent tech boom”).

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