la riflessione

Se gli algoritmi a Scuola uccidono il pensiero analitico

Tra gli studenti negli ultimi anni prevale il pensiero meccanico. Ma la mente umana è diversa dai computer. E nella vita serve soprattutto il pensiero analitico. Ecco l’esperienza e la riflessione di un matematico e docente

Pubblicato il 14 Apr 2017

Alberto Berretti

Dipartimento di Ingegneria Civile ed Ingegneria Informatica, Università di Tor Vergata

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Vengo dalla correzione dei compiti di due appelli di Analisi Matematica 1 ad Ingegneria, andati apparentemente peggio del solito, nonostante un compito abbastanza facile e costituito da esercizi quasi identici a quelli fatti in aula. E ritrovandomi a dire, da un po’ di tempo a questa parte, ogni anno la stessa cosa, mi faccio delle domande.

Non sono uno studioso di didattica. Non ho mai avuto un approccio formale al problema, basato su delle metodologie di insegnamento. Quando ero bambino, a casa mia giravano libri di didattica e di pedagogia (i miei genitori erano entrambe insegnanti), ma non ne ho mai aperto uno. Mi sono sempre basato su un approccio istintivo, guardo in faccia i centocinquanta-duecento studenti a cui faccio lezione, e cerco di capire cosa stanno pensando mentre faccio lezione. Ho però insegnato molto e molte cose diverse, da quasi 35 anni: Calculus 1 e 2 al Washington Square College of Arts and Sciences della NYU, esercitazioni di Physique Generale al Politecnico Federale di Losanna, Analisi Matematica 1, 2, 3, 4, Complementi di Matematica, Meccanica Razionale, Sistemi Dinamici, Calcolo Numerico, Crittografia, Matematica Applicata, Sicurezza Informatica, Reti, e certamente mi dimentico qualcosa tra L’Aquila, Tor Vergata e Roma 3.

Ora parlerò – e me ne dispiace – usando un minimo di terminologia matematica. Capire di che si tratta non è essenziale, anche se aiuta.

Dunque, come è andata e perché dico che è andata peggio del solito? Un disastro sui limiti, ma tutti sanno fare le derivate. Saper fare le derivate è una cosa che crocianamente potremmo definire meccanica: hai delle regole  – poche  -, le impari, le applichi, calcoli la tua derivata, fine della storia. Magari devi faticare un po’ per fare i conti giusti, ma tutto lì. Tant’è che un esercizio per studenti di informatica di un certo livello che imparano un certo tipo di linguaggi di programmazione è spesso quello di scrivere un programma che fa la derivata di una funzione data: è facile insegnare ad un computer come si fanno le derivate!

Ma la derivata è un limite, non esiste una teoria delle derivate senza una teoria dei limiti. I limiti li hanno inventati esattamente perché servivano per definire le derivate. Ma la maggior parte dei ragazzi non sa fare un limite. Limiti semplici, che però esulano dai pochi metodi banali e  –  diciamolo –  meccanici tipicamente imparati  – appunto! – meccanicamente alle superiori. Non appena serve una strategia, non appena devono fare un conto che deve andare in una certa direzione e non in un’altra, un conto che non puoi fare tutto in un solo boccone, non appena devono capire come approcciare il problema, come conviene iniziare, da quale parte prenderlo, insomma quando devono  pensare, li attende, molto spesso e con poche eccezioni, il fallimento.

La forma di pensiero prevalente tra gli studenti che mi capitano negli ultimi anni è quella analogica, basata sul pattern matching: vedi un problema e senza necessariamente capire di cosa si tratta, cerchi di ricordarti a cosa somiglia che tu abbia già visto. A questo punto tenti di applicare la medesima tecnica – appunto  meccanicamente – ignorando completamente però il meccanismo: perché il ragionamento basato sul pattern matching, alla fine, è si meccanico, ma ignora la meccanica dei problemi.

Il pensiero è diventato meccanico, basato su rigide regole che devono essere applicate sequenzialmente, un algoritmo insomma, ma questa rigidità algoritmica del pensiero è incapace di concepire la complessità di un problema che ha le sue regole certamente meccaniche (come tutte le regole della matematica, abusando del termine “meccanico”), ma che combinate insieme danno luogo ad una infinita combinazione di problemi in cui ti devi orientare pensando, non con un big data de noantri fatto di memorizzazione di tecniche da associare a classi di problemi prestabilite.

Tant’è che se i calcoli diventano appena un po’ più complessi, nonostante siano calcoli banali nel senso che utilizzano regole che conoscono  – almeno spero –  da dieci anni almeno, si fermano. Perché se il calcolo diventa complesso, lavorare di forza bruta, senza una strategia, è perdente. Per cui ad esempio, la derivata seconda di una cosa tipo (x5+3×4)1/5 non la sa fare quasi nessuno (nonostante ovviamente gli abbia fatto mille esempi simili in aula e gli abbia detto anche “in campana, queste cose capitano all’esame”, ma questo è un altro discorso). Non perché non sappiano “le regole” delle derivate: ed infatti il primo passaggio in genere è giusto. Poi però la formula da incubo che ne esce, una formula lunga tutta la riga di un foglio protocollo, va semplificata in modo che sia utile, in modo che si capisca cosa vuol dire e ci si possa orientare: di nuovo, serve la strategia. Cosa mi serve esattamente? Cosa devo andare a guardare in questa formula? Il segno? Ah, bene, e allora come mi conviene scriverla per riuscire meglio nel mio intento?

Sfido chiunque a dirmi che questo “non serve”. Questo modo di ragionare servirebbe anche a coloro che non hanno mai a che fare con cose matematiche. Questo è il modo in cui ragioni quando approcci qualunque problema in una situazione non banale e devi essere un minimo – dico un minimo – creativo.

E qui veniamo al punto. Serve un pensiero analitico, non algoritmico. La mente umana non è un computer, non funziona come un computer, deve fare cose diverse da quelle che fa il computer. I computer sono utili proprio per questo, per liberarci dalla parte noiosa del pensare, e per permetterci dunque di raggiungere livelli di creatività a cui senza computer, vincolati a sprecare risorse intellettuali per compiti triviali, non potremmo arrivare.

E c’è tutto un altro ordine di ragionamenti molto importante. Serve la competenza, o la conoscenza? Che dire, ho sentito tutta una serie di insegnanti, didatti e dirigenti scolastici (15 anni di consiglio di istituto in due scuole come genitore non sono passati invano) parlare della “scuola delle competenze” contrapposta alla “scuola delle conoscenze”, il “saper fare”, e così via. In quanti POF ne ho sentito parlare (cos’è un POF? POF farbacco, un Piano dell’Offerta Formativa, un rito annuale dei Consigli di Istituto, ora ha cambiato nome in seguito all’ennesima riforma, mi son dimenticato come si chiama ora). Ho tentato di leggere, recentemente, pubblicazioni in riviste didattiche per insegnanti per capire di cosa davvero si tratterebbe: non ci sono riuscito, complice forse la mia formazione fisico-matematica per la quale prima di parlare di qualcosa si deve avere ben chiaro di cosa si stia parlando (l’importanza di definizioni precise!). La mia sensazione, detto in modo grezzo e brutale, detto come molti insegnanti in prima fila in classe pensano ma non osano dire, è che si tratti di un mucchio di banalità. Qualcuno dovrebbe avere la cortesia di spiegarmi come si fa ad essere competenti in qualcosa che non si conosce a fondo. E a cosa serve conoscere se non si sa far nulla. Mai dicotomia è stata, direi, più inutile, e se, formulando opportunamente i concetti, ci fosse qualcosa di serio e profondo da dire sull’argomento, dubito che non sia stato detto e probabilmente stradetto in millenni di storia del pensiero filosofico (perché la reinvenzione filosofica dell’acqua calda sembra essere un atteggiamento molto comune oggi).

“Ma alle aziende serve la competenza specifica in questo e quest’altro”. Sicuramente, ma anche no. Ovvio che se sei un’azienda di meccanica e ti serve un tornitore, ti serve un tornitore che sappia usare il tornio. E così via. Ma c’è anche un altro livello: il tornitore dovrebbe non solo saper usare il tornio, ma anche imparare ad usare le nuove macchine man mano che escono. Altrimenti avremo una forza lavoro spiazzata dalla prima innovazione tecnologica.

Si confonde spesso, peraltro, addestramento, formazione e istruzione. Sono cose diverse che servono a far cose diverse. Abbiamo un Ministero della Pubblica Istruzione, non della Pubblica Formazione o del Pubblico Addestramento. Se si usano tre parole diverse per dire delle cose, saranno molto probabilmente tre cose diverse.

Questo non è il risultato dell’università di massa. L’università di massa c’è da dopo il ’68, più o meno, comunque da svariati decenni. Io ho fatto l’università di massa, c’erano figli di operai che abitavano alle case popolari tra i miei compagni di corso a Fisica. E mi sono laureato nel 1981. Quindi incolpare l’università di massa, far discorsi che oscillano fra i due estremi (quello reazionario che vorrebbe ritornare all’educazione superiore per le élites, quello nuovista per cui la cultura “tradizionale” non serve più a nulla e bisogna smettere di insegnarla) è un atteggiamento ideologico che non ha alcun riscontro nella realtà. Entrambi i punti di vista sono per me deprecabili. E si noti che non sto parlando di insufficienza nella conoscenza del linguaggio (sarebbe un bel discorso da fare, l’importanza dell’educazione al linguaggio e alla comunicazione anche e soprattutto nel settore scientifico-tecnologico, ma sarebbe un discorso molto lungo da fare separatamente). Non mi preoccupo se scrivono “assintoto”, “asinteto”, o cose del genere. Il problema è la mancanza di conoscenze logico-matematiche di base. Provate a chiedere a persone incontrate per caso in strada qualcosa di elementare sulle frazioni, ad es.: provate a chiedere se è più grande un quinto o un due decimi. Ne vedrete delle belle.

Quello che dovremmo iniziare a chiederci è cos’è successo negli ultimi dieci anni per ritrovarci in queste condizioni, se non vogliamo del ritornar vantarci e chiamarlo procedere inseguendo elaborazioni teoriche separate dalla pratica dell’insegnamento.

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