Sono diversi gli esperti che si interrogano se la sentenza della Corte Suprema, che elimina il diritto all’aborto negli Usa, potrà avere degli impatti anche sui alcuni dei diritti fondamentali della privacy, e quali.
Via il diritto all’aborto, quali rischi per la privacy?
Secondo gli esperti, la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti oltre a invalidare il diritto federale all’interruzione di gravidanza, è anche un attacco al diritto alla privacy degli americani, strettamente legato al caso Roe v Wade, basato proprio sul diritto alla privacy garantito dalla clausola del giusto processo contenuta nel XIV emendamento della Costituzione. Invalidare il caso Roe v. Wade significa di fatto minare il diritto alla privacy degli americani, diritto che è stato usato per proteggere molti altri diritti considerati fondamentali.
Non a caso, infatti, proprio all’indomani della sentenza, il giudice conservatore Clarence Thomas, nominato dal presidente George H.W. Bush nel 1991, nel suo parere a supporto della decisione della Corte, ha affermato che la Corte Suprema non si fermerà alla legge sull’aborto ma “dovrebbe riconsiderare le sue passate sentenze che riconoscono i diritti all’accesso alla contraccezione, alle relazioni omosessuali e al matrimonio tra persone dello stesso sesso”.
Nello specifico, Thomas ha precisato che i giudici dovrebbero rivedere in particolare il caso Griswold vs. Connecticut, la sentenza del 1965 con cui la Corte Suprema ha riconosciuto il diritto delle coppie sposate di ottenere contraccettivi; il caso Lawrence v. Texas, che nel 2003 ha riconosciuto il diritto di compiere atti sessuali tra persone dello stesso sesso; e la sentenza del 2015 del caso Obergefell v. Hodges, che ha riconosciuto il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Tutte sentenze che si basano, analogamente a Roe v. Wade, sul diritto alla privacy.
La reazione delle big tech
Come immediata conseguenza del ribaltamento della sentenza Roe v. Wade, molte aziende del settore tecnologico, tra cui Apple, Meta, Microsoft e Google hanno annunciato la messa in atto di politiche per fornire coperture economiche, in termini di spese di viaggio o procedure mediche per le lavoratrici che debbano recarsi in un altro stato per effettuare una interruzione di gravidanza dopo la sentenza della Corte Suprema.
Meta e Google hanno dichiarato che rimborserà le spese di viaggio “nella misura consentita dalla legge, per le dipendenti che avranno bisogno di accedere all’assistenza sanitaria e ai servizi riproduttivi in un altro stato”. Anche Microsoft ha dichiarato che “continuerà a fare il possibile, attenendosi alla legge, per proteggere e supportare i diritti delle proprie dipendenti”.
Ma per poter dimostrare la necessità di usufruire di queste coperture sanitarie, molto probabilmente le lavoratrici dovranno condividere con le stesse aziende informazioni molto personali e sensibili, come ad esempio i risultati di test di gravidanza o analisi mediche. Il pericolo è da un lato rendere le lavoratrici ancora più dipendenti dai propri datori di lavoro, dall’altro quello di creare discriminazioni tra lavoratrici freelance o che svolgono attività di consulenza, e che quindi non beneficerebbero di tali coperture.
Chi e come gestirà dati così sensibili? Quali le salvaguardie necessarie a tutelare le lavoratrici? Chi garantirà che le lavoratrici che vogliano interrompere una gravidanza senza diventare oggetto di discriminazione?
La sentenza “Roe v. Wade” e il suo annullamento recente
La sentenza Roe v Wade venne pronunciata il 22 gennaio del 1973, e rese legale il diritto all’aborto a livello federale inteso come una libera scelta personale della donna, facendo sua una nuova e diversa interpretazione del XIV emendamento della Costituzione. Jane Roe era lo pseudonimo di Norma Leah McCorvey, era una cittadina texana che nel 1969 aveva 21 anni e due figli avuti da un uomo violento che aveva sposato a 16 anni. Rimasta incinta una terza volta, intenzionata a interrompere la gravidanza, denunciò alle autorità di essere stata stuprata convinta che lo stato del Texas in questo caso avrebbe consentito l’aborto, ma non essendoci alcun rapporto della polizia che accertasse tali violenze, la sua richiesta venne respinta. Allora ella tentò di abortire illegalmente, ma la clinica che avrebbe dovuto praticare l’interruzione venne chiusa prima di cominciare il trattamento e la McCorvey partorì il suo terzo figlio, dato poi in adozione, prima che il procedimento vedesse la sua conclusione.
Nel 1970, le avvocatesse texane Linda Coffee e Sarah Weddington fecero causa alla Corte Distrettuale del Nord Texas a nome di Jane Roe (utilizzando quindi uno pseudonimo della McCorvey per proteggere la sua privacy). L’avvocato che difese la Corte texana fu il procuratore distrettuale Henry Wade da cui il nome della causa, Roe v. Wade.
La corte emise un verdetto favorevole alla McCorvey, basandosi su una interpretazione del IX emendamento della Costituzione in materia di diritto alla privacy. Il procuratore Wade fece ricorso alla Corte Suprema, che emise il verdetto nuovamente favorevole alla McCorvey, basandosi sul primo, quarto, nono e XIV emendamento della Costituzione, facendo riferimento al diritto alla privacy, qui inteso come diritto alla libera scelta per quanto riguarda le questioni legate alla sfera intima della persona, e pertanto anche a una interruzione di gravidanza.
Prima di allora, ciascun Stato americano aveva una propria legislazione in merito all’interruzione di gravidanza che, in molti stati era considerato un reato di “common law”, ovvero basato su precedenti giurisprudenziali e non su codici o leggi.
L’annullamento recente
Lo scorso Venerdì 24 giugno, invece, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade, che stabiliva il diritto costituzionale all’aborto negli Stati Uniti sin dal 1973.
Già in Maggio il giornale on line Politico aveva pubblicato una bozza di una decisione della Corte Suprema che confermava l’orientamento favorevole della Corte a un ribaltamento della sentenza. Su 9 giudici della Corte, tutti i sei giudici nominati dai Repubblicani, fra cui tre indicati dall’ex presidente Donald Trump, hanno votato per l’abolizione del diritto federale, mentre i tre giudici nominati dai Democratici hanno votato contro.
Con l’annullamento della sentenza, ora i singoli Stati americani hanno la facoltà di stabilire proprie leggi riguardo al diritto, o meno, di una donna di ricorrere all’interruzione di gravidanza che la sentenza Roe v. Wade consentiva entro la 24esima settimana.
A tutto ciò si aggiungono ulteriori due aspetti.
- Il primo, che tutte queste informazioni estremamente sensibili condivise con il datore di lavoro per ottenere le coperture finanziare, potrebbero poi essere oggetto di ricerca da parte delle forze dell’ordine, e utilizzate come prove in futuri procedimenti giudiziari ai danni di chi ha scelto o ha intenzione di abortire.
- Il secondo, chiunque su internet svolga ricerche anche solo per reperire informazioni sull’aborto, oppure su prodotti e servizi correlati all’interruzione di gravidanza, nei paesi dove questa pratica è diventata o diventerà illegale, sarà a rischio di sorveglianza online. Per esempio, potrebbe essere oggetto di sorveglianza la cronologia della navigazione su Internet (dove abortire e come), la ricerche di strutture idonee e perfino la richiesta di farmaci (la “pillola del giorno dopo”).
Recentemente, un gruppo di democratici, guidato dal senatore Ron Wyden dell’Oregon e dalla rappresentante Anna Eshoo della California ha esortato la Federal Trade Commission a indagare su Apple e Google, accusando i giganti tecnologici di “aver messo in atto pratiche sleali e ingannevoli consentendo la raccolta e la vendita di centinaia di milioni di dati personali degli utenti di telefonia mobile”. Nella loro lettera, hanno evidenziato come le aziende “abbiano facilitato queste pratiche dannose inserendo nei loro sistemi operativi mobili ID di tracciamento specifici per la pubblicità”. E hanno specificamente menzionato come le persone che cercano di abortire diventeranno particolarmente vulnerabili se i loro dati, specialmente le informazioni sulla loro posizione, saranno raccolti e condivisi, dati che, hanno affermato i senatori, “sono già stati venduti”. Circa un mese fa, quando la bozza della decisione Roe v. Wade è stata pubblicata da Politico, Ron Wyden e altri legislatori democratici hanno anche esortato Google a smettere di raccogliere e conservare i dati di localizzazione che potrebbero essere usati contro le persone che hanno abortito o che stanno cercando di abortire.
In un recente post, la Electronic Frontier Foundation (EFF), un’organizzazione internazionale no profit che si occupa della tutela dei diritti digitali e libertà di parola nel mondo digitale, ha suggerito alle grandi piattaforme tecnologiche una serie di strategie da mettere in campo per tutelare i diritti digitali nel post Roe v. Wade, tra cui il dare la possibilità agli utenti di accedere ai servizi digitali in maniera anonima, ridurre al minimo la raccolta dei dati degli utenti, e in questo modo ridurre al minimo il rischio che tali dati possano essere oggetto di una indagine governativa, ridurre o eliminare del tutto il monitoriaggio comportamentale (o behavioral tracking), crittografare i dati per impostazione predefinita. EFF ha inoltre invitato le piattaforme a respingere tutte quelle richieste “improprie”, come le informazioni sulla ricerca di un termine come “aborto” o le cosiddette “richieste di posizione inversa” (o warrant geofence), ovvero le richieste ufficiali da parte delle forze dell’ordine per accedere ai dati sulla posizione del dispositivo.
In uno stato come il Texas, dove i privati cittadini possono citare in giudizio chiunque aiuti o favorisca una donna ad abortire, e ricevere un compenso di 10.000 dollari o più, anche una semplice ricerca su internet può diventare rilevante.
Le donne americane cancellano le app che controllano il ciclo mestruale
Negli ultimi giorni molte donne americane hanno cancellato le applicazioni per il monitoraggio delle mestruazioni dai loro cellulari, nel timore che i dati raccolti dalle applicazioni possano essere usati contro di loro in future cause penali negli Stati in cui l’aborto è diventato illegale.
La tendenza era già iniziata il mese scorso, quando era trapelata una bozza di parere della Corte suprema che suggeriva che la Corte era pronta a rovesciare la sentenza Roe v Wade, e si è intensificata dopo che venerdì la Corte ha revocato il diritto federale all’aborto.
Queste preoccupazioni non sono infondate. Come altre applicazioni, i tracker ciclistici raccolgono, conservano e talvolta condividono alcuni dati dei loro utenti. In uno Stato in cui l’aborto è un reato, i pubblici ministeri potrebbero richiedere le informazioni raccolte da queste app per costruire un caso contro qualcuno. “Se stanno cercando di perseguire una donna per aver abortito illegalmente, possono chiedere un mandato di comparizione per qualsiasi app presente sul suo dispositivo, compresi i tracker mestruali”, ha dichiarato Sara Spector, avvocato penalista ed ex-procuratore con sede in Texas.
“Ma ogni azienda ha una propria politica di archiviazione e di privacy su come utilizza e per quanto tempo conserva i dati”, ha aggiunto la Spector.
Uno studio del 2019 pubblicato sul British Medical Journal (BMJ) ha rilevato che il 79% delle app sanitarie disponibili sul Google Play Store e relative alla medicina, comprese quelle che aiutano a gestire i farmaci, l’aderenza, le medicine o le informazioni sulle prescrizioni, condividevano regolarmente i dati degli utenti ed erano “tutt’altro che trasparenti”. Ma molti dei grandi operatori hanno fatto progressi negli ultimi anni.
Due dei tracker mestruali più popolari negli Stati Uniti, Flo e Clue, hanno insieme più di 55 milioni di utenti. L’applicazione Clue, con sede a Berlino, ha dichiarato di “impegnarsi a proteggere” i dati sanitari privati degli utenti e di operare in base alle severe leggi europee sul GDPR. Sul sito web dell’azienda si legge che l’app raccoglie dati sui dispositivi, sugli eventi e sull’utilizzo, oltre all’indirizzo IP dell’utente, alla salute e ai dati sensibili che può utilizzare allo scopo di migliorare l’app e i servizi e di prevenire l’uso abusivo del servizio. Tuttavia, Clue non traccia la posizione precisa degli utenti e afferma di non memorizzare dati personali sensibili senza l’esplicita autorizzazione dell’utente. L’azienda ha anche twittato che avrebbe un “dovere legale primario ai sensi della legge europea” di non divulgare alcun dato sanitario privato e che “non risponderà a nessuna richiesta di divulgazione o tentativo di citazione in giudizio dei dati sanitari dei propri utenti da parte delle autorità statunitensi”.
Flo ha già subito critiche per aver condiviso i dati dei suoi utenti. Sul suo sito web l’azienda afferma di utilizzare i dati solo “per attività di ricerca” e di utilizzare solo “dati de-identificati o aggregati, che non possono essere associati” a utenti specifici. Ma un’inchiesta del Wall Street Journal ha scoperto che l’app informava Facebook quando un utente aveva le mestruazioni o se intendeva rimanere incinta. Nel 2021, la Federal Trade Commission (FTC) ha raggiunto un accordo con Flo. In base all’accordo, Flo dovrà sottoporsi a una revisione indipendente della sua politica sulla privacy e ottenere le autorizzazioni degli utenti prima di condividere le informazioni sanitarie personali. Flo non ha ammesso alcun illecito.
Le app di terze parti non sono l’unica opzione quando si tratta di tracker mestruali. Apple ha un tracker del ciclo integrato nell’app Salute che offre una maggiore privacy rispetto alla maggior parte delle app esterne. Con pochi passaggi è possibile disattivare la memorizzazione dei propri dati sanitari su iCloud e si ha anche la possibilità di memorizzare i dati crittografati sul proprio computer o telefono.
Ma anche altre app sono a rischio
Anche se gli avvertimenti di venerdì si sono concentrati in gran parte sui tracker mestruali, non sono le uniche app che possono essere usate contro gli utenti in caso di azioni penali, hanno avvertito gli esperti”.
Le preoccupazioni per i dati di monitoraggio delle mestruazioni fanno parte di una questione più ampia sulla quantità di informazioni personali raccolte dagli smartphone. Le organizzazioni per i diritti delle donne di tutto il mondo stanno avvertendo gli utenti di essere più attenti alla loro presenza digitale, non solo quando si tratta di mestruazioni.
Conclusioni
I sondaggi dicono che gli americani sono in grande maggioranza favorevoli all’interruzione di gravidanza, e a novembre ci saranno le elezioni di metà mandato che potrebbero cambiare lo scenario del Congresso, tanto che lo stesso Presidente Joe Biden ha invitato gli elettori a mobilitarsi per eleggere rappresentanti che possano difendere il diritto all’interruzione di gravidanza e ad altre libertà individuali. Inoltre, lo stesso Presidente ha invitato il Congresso a ripristinare la sentenza Roe v. Wade come legge federale.
Ma l’impatto della sentenza su milioni di americani è già un fatto: dalla mattina di Venerdì 24 giugno in Kentucky, Louisiana e South Dakota l’aborto è illegale, in Arkansas e Utah, da venerdì sera. Nell’Idaho, Tennessee e Texas, lo sarà a breve, e analogamente in Missouri, che ha già ottenuto l’ok al divieto da parte del Procuratore generale. Sempre nella giornata di Venerdì, sono state chiuse ben trentadue cliniche in Texas, Louisiana, Arkansas, e South Dakota.
Trevor Hughes, presidente e CEO di International Association Privacy Processional (IAPP), la più importante associazione internazionale che riunisce i professionisti della privacy, già ai tempi della divulgazione della bozza di decisione, aveva dichiarato: “E’ necessario essere chiari: la decisione trapelata, se confermata, è una decisione sulla privacy. Tornare indietro di oltre 50 anni di giurisprudenza sui diritti alla privacy è, in una sola parola, scioccante.”
Ora il timore, non solo di Hughes, è quello di veder rimettere in discussione molte delle sentenze che riguardano diritti civili e molto altro, e che si basano sul diritto alla privacy.
La questione però non è ancora chiusa. Lunedì 27 giugno lo Stato della Louisiana, sulla base di un ricorso presentato da due gruppi che sostengono l’interruzione volontaria di gravidanza, Center for Reproductive Rights e Boies Schiller Flexner Llp, ha bloccato temporaneamento l’applicazione del divieto all’aborto. Lo stesso esempio è stato seguito dallo Utah, dove il giudice del 3° tribunale distrettuale Andrew Stone ha emesso un ordine restrittivo che bloccherà l’applicazione del divieto all’aborto per i prossimi 14 giorni, fissando un’udienza per esaminare il ricorso della Planned Parenthood e dell’American Civil Liberties Union dello Utha.
La Costituzione e la Carta dei Diritti degli Stati Uniti d’America e la privacy
Redatta nell’estate del 1787 a Filadelfia, la Costituzione degli Stati Uniti d’America è la legge fondamentale del sistema di governo federale statunitense, che definisce i principali organi di governo e le relative giurisdizioni, nonché i diritti basilari dei cittadini. I primi 10 emendamenti della Costituzione, che compongono la cosiddetta “Carta dei Diritti” (“Bill of Rights”), entrarono in vigore il 15 dicembre 1791, per limitare i poteri del governo federale e proteggere i diritti di tutti i cittadini, i residenti e i visitatori presenti nel territorio americano. Alcuni degli emendamenti che compongono la Carta sono celebri anche al di quà dell’oceano: la protezione della libertà di parola (primo emendamento), la libertà di detenere armi (secondo emendamento), il diritto a un giusto processo (quinto emendamento), il divieto di trattamenti penali cruenti o inadeguati (ottavo emendamento). In realtà, oltre alla protezione dei diritti individuali, però, essa si pone l’obiettivo di assicurare che il governo federale rimanga espressione della sovranità democratica popolare, e non lo strumento in mano a ristrette élite o minoranze. Tra le altre, la Carta dei Diritti proibisce al Congresso di promulgare leggi relative all’istituzione della religione e proibisce al governo federale di privare qualsiasi persona della propria vita, della libertà o della proprietà senza un regolare processo. Pertanto, sebbene originariamente la Carta fosse stata concepita come uno strumento per limitare il potere del governo federale, con l’introduzione del XIV emendamento, essa è diventata uno degli strumenti più importanti per il rafforzamento del governo federale nei confronti dei governi statali.
Il XIV emendamento è uno degli emendamenti approvati dopo la guerra di secessione americana, noti con il nome di “emendamenti della Ricostruzione”, in quanto affrontano questioni sociali e politiche sorte durante la ricostruzione. Il XIV emendamento è composto da cinque sezioni differenti, la prima sezione in particolare enuncia una serie di importanti concetti, tra cui l’ estensione della cittadinanza a tutte le persone nate negli Stati Uniti, imporre un giusto processo a livello statale e fornire alle persone l’accesso alla medesima protezione ai sensi della legge .
Originariamente, l’emendamento fu approvato per garantire i diritti degli ex-schiavi, annullando la precedente sentenza Dred Scott v. Sandford che escludeva gli schiavi e i loro discendenti dal godimento dei diritti costituzionali. La clausola contenuta nella prima sezione che richiede agli Stati dell’unione di garantire la stessa protezione legale a tutte le persone sottoposte alla loro giurisdizione, fu usata a metà del XX secolo per porre termine alla segregazione razziale.
L’aspetto più rilevante nell’adozione del XIV emendamento è rappresentato infatti dall’adozione della “doctrine of incorporation”, che ammette la possibilità di invocare la tutela delle libertà comprese nella Carta dei Diritti anche contro i singoli Stati.
Pertanto, le disposizioni sul giusto processo, contenute anch’esse nella prima sezione, sono state alla base di casi molto importanti, come quello appunto Roe v. Wade riguardo all’aborto, o questioni relative al diritto alla privacy, riconosciuto come un diritto fondamentale.