il caso

Aborto “abolito” negli Usa, ora la privacy è nel mirino delle autorità

La sentenza della Corte Suprema, che elimina il diritto all’aborto negli Usa, potrà avere degli impatti anche sui alcuni dei diritti fondamentali della privacy. Con un danno enorme per le minoranze. Mentre le donne sono già costrette a eliminare alcune app per paura di ripercussioni legali

Pubblicato il 29 Giu 2022

Nadia Giusti

Data Protection & Cybersecurity Expert

usa aborto privacy

Sono diversi gli esperti che si interrogano se la sentenza della Corte Suprema, che elimina il diritto all’aborto negli Usa, potrà avere degli impatti anche sui alcuni dei diritti fondamentali della privacy, e quali.

Via il diritto all’aborto, quali rischi per la privacy?

Secondo gli esperti, la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti oltre a invalidare il diritto federale all’interruzione di gravidanza, è anche un attacco al diritto alla privacy degli americani, strettamente legato al caso Roe v Wade, basato proprio sul diritto alla privacy garantito dalla clausola del giusto processo contenuta nel XIV emendamento della Costituzione. Invalidare il caso Roe v. Wade significa di fatto minare il diritto alla privacy degli americani, diritto che è stato usato per proteggere molti altri diritti considerati fondamentali.

Non a caso, infatti, proprio all’indomani della sentenza, il giudice conservatore Clarence Thomas, nominato dal presidente George H.W. Bush nel 1991, nel suo parere a supporto della decisione della Corte, ha affermato che la Corte Suprema non si fermerà alla legge sull’aborto ma “dovrebbe riconsiderare le sue passate sentenze che riconoscono i diritti all’accesso alla contraccezione, alle relazioni omosessuali e al matrimonio tra persone dello stesso sesso”.

Nello specifico, Thomas ha precisato che i giudici dovrebbero rivedere in particolare il caso Griswold vs. Connecticut, la sentenza del 1965 con cui la Corte Suprema ha riconosciuto il diritto delle coppie sposate di ottenere contraccettivi; il caso Lawrence v. Texas, che nel 2003 ha riconosciuto il diritto di compiere atti sessuali tra persone dello stesso sesso; e la sentenza del 2015 del caso Obergefell v. Hodges, che ha riconosciuto il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso.

Tutte sentenze che si basano, analogamente a Roe v. Wade, sul diritto alla privacy.

La reazione delle big tech

Come immediata conseguenza del ribaltamento della sentenza Roe v. Wade, molte aziende del settore tecnologico, tra cui Apple, Meta, Microsoft e Google hanno annunciato la messa in atto di politiche per fornire coperture economiche, in termini di spese di viaggio o procedure mediche per le lavoratrici che debbano recarsi in un altro stato per effettuare una interruzione di gravidanza dopo la sentenza della Corte Suprema.

Meta e Google hanno dichiarato che rimborserà le spese di viaggio “nella misura consentita dalla legge, per le dipendenti che avranno bisogno di accedere all’assistenza sanitaria e ai servizi riproduttivi in un altro stato”. Anche Microsoft ha dichiarato che “continuerà a fare il possibile, attenendosi alla legge, per proteggere e supportare i diritti delle proprie dipendenti”.

Ma per poter dimostrare la necessità di usufruire di queste coperture sanitarie, molto probabilmente le lavoratrici dovranno condividere con le stesse aziende informazioni molto personali e sensibili, come ad esempio i risultati di test di gravidanza o analisi mediche. Il pericolo è da un lato rendere le lavoratrici ancora più dipendenti dai propri datori di lavoro, dall’altro quello di creare discriminazioni tra lavoratrici freelance o che svolgono attività di consulenza, e che quindi non beneficerebbero di tali coperture.

Chi e come gestirà dati così sensibili? Quali le salvaguardie necessarie a tutelare le lavoratrici? Chi garantirà che le lavoratrici che vogliano interrompere una gravidanza senza diventare oggetto di discriminazione?

A tutto ciò si aggiungono ulteriori due aspetti.

  • Il primo, che tutte queste informazioni estremamente sensibili condivise con il datore di lavoro per ottenere le coperture finanziare, potrebbero poi essere oggetto di ricerca da parte delle forze dell’ordine, e utilizzate come prove in futuri procedimenti giudiziari ai danni di chi ha scelto o ha intenzione di abortire.
  • Il secondo, chiunque su internet svolga ricerche anche solo per reperire informazioni sull’aborto, oppure su prodotti e servizi correlati all’interruzione di gravidanza, nei paesi dove questa pratica è diventata o diventerà illegale, sarà a rischio di sorveglianza online. Per esempio, potrebbe essere oggetto di sorveglianza la cronologia della navigazione su Internet (dove abortire e come), la ricerche di strutture idonee e perfino la richiesta di farmaci (la “pillola del giorno dopo”).

Recentemente, un gruppo di democratici, guidato dal senatore Ron Wyden dell’Oregon e dalla rappresentante Anna Eshoo della California ha esortato la Federal Trade Commission a indagare su Apple e Google, accusando i giganti tecnologici di “aver messo in atto pratiche sleali e ingannevoli consentendo la raccolta e la vendita di centinaia di milioni di dati personali degli utenti di telefonia mobile”. Nella loro lettera, hanno evidenziato come le aziende “abbiano facilitato queste pratiche dannose inserendo nei loro sistemi operativi mobili ID di tracciamento specifici per la pubblicità”. E hanno specificamente menzionato come le persone che cercano di abortire diventeranno particolarmente vulnerabili se i loro dati, specialmente le informazioni sulla loro posizione, saranno raccolti e condivisi, dati che, hanno affermato i senatori, “sono già stati venduti”.  Circa un mese fa, quando la bozza della decisione Roe v. Wade è stata pubblicata da Politico, Ron Wyden e altri legislatori democratici hanno anche esortato Google a smettere di raccogliere e conservare i dati di localizzazione che potrebbero essere usati contro le persone che hanno abortito o che stanno cercando di abortire.

In un recente post, la Electronic Frontier Foundation (EFF), un’organizzazione internazionale no profit che si occupa della tutela dei diritti digitali e libertà di parola nel mondo digitale, ha suggerito alle grandi piattaforme tecnologiche una serie di strategie da mettere in campo per tutelare i diritti digitali nel post Roe v. Wade, tra cui il dare la possibilità agli utenti di accedere ai servizi digitali in maniera anonima, ridurre al minimo la raccolta dei dati degli utenti, e in questo modo ridurre al minimo il rischio che tali dati possano essere oggetto di una indagine governativa, ridurre o eliminare del tutto il monitoriaggio comportamentale (o behavioral tracking), crittografare i dati per impostazione predefinita. EFF ha inoltre invitato le piattaforme a respingere tutte quelle richieste “improprie”, come le informazioni sulla ricerca di un termine come “aborto” o le cosiddette “richieste di posizione inversa” (o warrant geofence), ovvero le richieste ufficiali da parte delle forze dell’ordine per accedere ai dati sulla posizione del dispositivo.

In uno stato come il Texas, dove i privati cittadini possono citare in giudizio chiunque aiuti o favorisca una donna ad abortire, e ricevere un compenso di 10.000 dollari o più, anche una semplice ricerca su internet può diventare rilevante.

Conclusioni

I sondaggi dicono che gli americani sono in grande maggioranza favorevoli all’interruzione di gravidanza, e a novembre ci saranno le elezioni di metà mandato che potrebbero cambiare lo scenario del Congresso, tanto che lo stesso Presidente Joe Biden ha invitato gli elettori a mobilitarsi per eleggere rappresentanti che possano difendere il diritto all’interruzione di gravidanza e ad altre libertà individuali. Inoltre, lo stesso Presidente ha invitato il Congresso a ripristinare la sentenza Roe v. Wade come legge federale.

Ma l’impatto della sentenza su milioni di americani è già un fatto: dalla mattina di Venerdì 24 giugno in Kentucky, Louisiana e South Dakota l’aborto è illegale, in Arkansas e Utah, da venerdì sera. Nell’Idaho, Tennessee e Texas, lo sarà a breve, e analogamente in Missouri, che ha già ottenuto l’ok al divieto da parte del Procuratore generale. Sempre nella giornata di Venerdì, sono state chiuse ben trentadue cliniche in Texas, Louisiana, Arkansas, e South Dakota.

Trevor Hughes, presidente e CEO di International Association Privacy Processional (IAPP), la più importante associazione internazionale che riunisce i professionisti della privacy, già ai tempi della divulgazione della bozza di decisione, aveva dichiarato: “E’ necessario essere chiari: la decisione trapelata, se confermata, è una decisione sulla privacy. Tornare indietro di oltre 50 anni di giurisprudenza sui diritti alla privacy è, in una sola parola, scioccante.”

Ora il timore, non solo di Hughes, è quello di veder rimettere in discussione molte delle sentenze che riguardano diritti civili e molto altro, e che si basano sul diritto alla privacy.

La questione però non è ancora chiusa. Lunedì 27 giugno lo Stato della Louisiana, sulla base di un ricorso presentato da due gruppi che sostengono l’interruzione volontaria di gravidanza, Center for Reproductive Rights e Boies Schiller Flexner Llp, ha bloccato temporaneamento l’applicazione del divieto all’aborto. Lo stesso esempio è stato seguito dallo Utah, dove il giudice del 3° tribunale distrettuale Andrew Stone ha emesso un ordine restrittivo che bloccherà l’applicazione del divieto all’aborto per i prossimi 14 giorni, fissando un’udienza per esaminare il ricorso della Planned Parenthood e dell’American Civil Liberties Union dello Utha.

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