Elezioni Usa 2020

Ads politici sui social: ora i Governi intervengano

Per il Ceo Facebook, solo una regolazione stringente degli ads a scopo politico potrebbe evitare che società private possano influenzare i risultati delle elezioni presidenziali. Il privato, dunque, scarica le responsabilità sul pubblico. Ma è anche vero che le istituzioni nazionali dovrebbero avere più sensibilità sul tema

Pubblicato il 10 Feb 2020

Marina Rita Carbone

Consulente privacy

Mark Zuckerberg, fondatore del Metaverso

Facebook continua a sostenere che sulla disinformazione politica nei social devono essere i legislatori a intervenire e soltanto loro. E così non farà nulla per limitare la pubblicità dei politici contenente falsità.

Quali che siano le motivazioni alla base di una scelta, da parte di Facebook, così “neutrale”, è innegabile che ad oggi la prima via tramite la quale è possibile tutelare l’individuo è senza alcun dubbio l’aumento dell’informazione e della trasparenza nei suoi confronti, tramite un sistema di regole ben congegnato. Solo in tal modo gli utenti potranno, non solo, fidarsi delle società che si occupano di gestire i social, ma anche accrescere la propria fiducia nei confronti del sistema democratico, non viziato da manipolazioni.

L’Italia finora ha ignorato il problema disinformazione politica sui social

Sul punto è di rilievo il recentissimo intervento di Roberto Volpi, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, il quale ha dichiarato nel corso del Convegno del Garante Privacy per la Giornata europea della protezione dei dati personali 2020, tenutosi il 30 gennaio (qui il suo intervento), che le istituzioni nazionali dovrebbero avere più sensibilità sul tema, finora rimasto politicamente inascoltato, anche qui in Italia.

Lo stesso ha poi evidenziato come l’inviolabilità dei dati in un circuito mondiale sia da considerarsi, oggi, quale meritevole di tutela al pari della inviolabilità della corrispondenza a livello globale, essendosi negli anni proiettato il conflitto del potere proprio sul dato e su quella potente infrastruttura digitale e sovranazionale che è la rete.

Ad oggi, “l’intrusione della sfera del privato è continuativa e in parte consapevole”, per questo occorre in particolar modo proteggere il cittadino da un abuso del consenso, dalla sua profilazione per orientarne le decisioni per “qualcosa che è diverso dalle necessità del mercato”: tali decisioni possono essere legate all’esito delle elezioni ma anche a temi di massa molto più delicati, come quello delle migrazioni; e quando la profilatura diventa “ingegneria sociale e condizionamento delle scelte” si traduce inevitabilmente in una violazione dei valori fondamentali della libertà. L’intrusione nella sfera personale diviene “qualcosa di diverso” del quale i Governi “devono prendere consapevolezza”, intervenendo attivamente e collaborando a livello non solo comunitario ma internazionale, “capendo con chi stare e con che mezzi starci”.

La parola sicurezza, continua Volpi, deve tradursi nella parola libertà, in protocolli comuni: “la sicurezza di tutti noi non è un dato utopico ma è la nostra libertà personale di fare delle scelte, di poter vivere con tranquillità sociale”, di scegliere persino a quali condizionamenti essere sottoposti, anche in un ambito immateriale quale la rete.

Tutto ciò è senza alcun dubbio condivisibile: le normative sul trattamento dei dati e sulla sicurezza cibernetica hanno concesso al mondo digitale di crescere e di fornire maggiore tutela al singolo cittadino della rete. Rappresentano, tuttavia, solo il primo degli step da porre in atto, sia a livello pubblico che privato: la privacy e la consapevolezza non come scelta politica ma come obiettivo comune a tutela di diritti fondamentali dell’individuo, tramite la messa a punto di normative che si occupino di tutelare e proteggere i nostri dati da abusi, deviazioni, invasioni che sono, negli ultimi anni, all’ordine del giorno.

Le ultime dichiarazioni di Zuckerberg

Proprio l’assenza di regole settoriali a livello globale (e non solo di raccomandazioni o linee guida non vincolanti) apre le porte ad uno scenario geo-politico alquanto incerto, nel quale ben potranno ripetersi gli stessi errori del passato

A seguito dell’avvenuta pubblicazione, da parte del canale Twitter HindSightFiles, di numerosi documenti riguardanti il coinvolgimento di Cambridge Analytica non solo nella campagna elettorale di Trump ma in ben 68 Stati, sia gli utenti che gli studiosi hanno potuto comprendere maggiormente in che modo la strategia di “neurotic marketing” funzionasse. E quanto fosse efficace: è un dato noto che l’utilizzo del micro-targeting da parte di Trump nel 2016 ha fatto la differenza rispetto alle strategie elettorali utilizzate dalla sua diretta avversaria, Hillary Clinton. Lo stesso Gary Goby, direttore digitale della campagna di advertising digitale di Trump nel 2016, ha dichiarato su Twitter che l’efficacia delle strategie utilizzate è addirittura dimostrabile dai numeri di ads differenziati generati dai due candidati: 5.9 milioni contro 66 mila.

L’aspetto più preoccupante delle modalità di profilazione, tuttavia, riguarda sicuramente l’utilizzo non trasparente e non consentito di tutti i dati e delle preferenze espresse dagli utenti delle numerose piattaforme gestite da Zuckerberg, al fine di direzionare ed influenzare il potere decisionale politico degli elettori. Fu proprio questo suo coinvolgimento e il fatto di aver “sottovalutato” (stando a quanto dichiarato) le possibili conseguenze di una simile campagna pubblicitaria a rendere Facebook una delle società più sanzionate dell’ultimo anno.

È su tali premesse che si fonda l’ultima dichiarazione ufficiale di Zuckerberg: lo stesso ha ammesso che, per il momento, nulla cambierà nelle attuali policy di gestione degli ads di Facebook. La motivazione ufficiale sembra tanto semplice quanto dubbia: a parere di quest’ultimo, infatti, solo una regolazione normativa stringente degli ads a scopo politico potrebbe concretamente evitare che società private possano influenzare i risultati delle elezioni presidenziali. Senza una normativa di tal guisa, sostiene Zuckerberg, che detti delle regole precise e fornisca anche delle “linee guida” per la redazione di policies quanto più neutrali possibile, le piattaforme digitali potrebbero ancora sbagliare, favorendo (inconsapevolmente o meno) uno o l’altro candidato.

Si assiste dunque, ad oggi ad un passaggio di responsabilità alla Ponzio Pilato: dal privato al pubblico, dalle Big Tech ai Governi.

Ne deriva una situazione di stallo che, ad oggi, conduce ad una incredibile instabilità per quanto riguarda gli utenti, che non godono di alcuna protezione in più rispetto al 2016; se già nel 2016 è stato trovato un abile escamotage per sfruttare a proprio vantaggio le attuali regole di sponsorizzazione di Facebook, la stessa cosa potrebbe ripetersi nel 2020. Per di più, è una situazione che non ha una facile soluzione: sebbene da un lato quanto affermato da Zuckerberg sia vero, dall’altro occorre ricordare che, ad oggi, solo Facebook conosce bene quali cambiamenti nelle proprie politiche potrebbero effettivamente aiutare o danneggiare un candidato alla presidenza, in quanto la società non ha mai effettuato una disclosure completa né delle informazioni né dei dati di cui i ricercatori avrebbero bisogno per condurre analisi oggettive ed indipendenti.

Agire o non agire, questo è il dilemma

Svolte le premesse di cui sopra, è opportuno evidenziare come la scelta di Facebook di non schierarsi non sia stata scevra da contestazioni e critiche, in primo luogo perché è dimostrazione di un disinteresse, rispetto alle concorrenti, su un tema così delicato e fondamentale quale la libertà di pensiero politico e democratico. I politici avranno ancora la possibilità di alterare la competizione elettorale, spendendo milioni di dollari per la creazione di pubblicità fatte su misura del proprio elettorato, diffondendo false informazioni, senza che Facebook intervenga in alcun modo e, sostanzialmente, in attesa che qualcuno li scopra (ammesso che li scopra) e dimostri quali norme ha violato, rimanendo altrimenti impuniti.

Una decisione senz’altro non condivisa dalle concorrenti Google (che ha ristretto lo scorso anno il margine di possibile targeting degli ads politici) e Twitter (che invece ha preso posizione netta sul tema proibendo a chiunque di utilizzare la piattaforma per la sponsorizzazione di pubblicità elettorali o comunque a sfondo politico, per garantire la neutralità sei propri contenuti e salvaguardare gli utenti, o almeno provarci).

Perché mantenere lo status quo

La decisione di conservare lo status quo, tuttavia, potrebbe dipendere da numerosi fattori.

Innanzitutto, la paura di subire delle ritorsioni a livello politico: è di questo parare Alex Stamos, che ha rivestito il ruolo di chief security officer all’interno di Facebook fino allo scandalo del 2016, il quale ha ritenuto la dichiarazione in esame un vero e proprio errore, dettato dal timore che una modifica, in un senso o nell’altro, delle regole di pubblicazione degli ads, potesse comportare gravi conseguenze innanzitutto a livello governativo-politico. Da qui, dunque, la scelta di restare “imparziali” seppur schierandosi da ambedue le parti: un paradosso mirato a salvaguardare i rapporti con tutti! Stamos, tuttavia, sostiene che sarebbe stato opportuno almeno intervenire sulle policies in uso con delle piccole ma importanti modifiche, che avrebbero potuto garantire una minore vulnerabilità della piattaforma, una maggiore trasparenza nei confronti degli utenti e, da ultimo, un dibattito politico più sano (in quanto privo, nei limiti del possibile di disinformazione e fake news) ed elezioni più democratiche.

In secondo luogo, la paura di subire un contraccolpo economico: questa tesi, sebbene sostenibile, appare tuttavia poco realistica. I ricavi che derivano dalle campagne pubblicitarie a fini politici rappresentano solo una piccola porzione del ricavo complessivo che deriva dalla sponsorizzazione di prodotti a finalità “classiche”.

Da ultimo, non è da escludere che Zuckerberg creda fino in fondo nelle proprie affermazioni e/o non abbia ancora chiaro quali siano i mezzi migliori per evitare che la sua piattaforma possa essere scevra da vulnerabilità in tal senso. È pur vero che dal 2016 i Governi non hanno ancora colmato il gap normativo esistente, rimanendo spesso inerti dinanzi a scandali come quello che ha coinvolto Cambridge Analytica, nei quali, anzi, i propri membri sono direttamente o indirettamente coinvolti (vedasi, in primis, Trump).

Non sarebbe la prima volta, comunque, che Facebook cerca di deresponsabilizzarsi dinanzi a problematiche come queste: la stessa linea d’azione era stata tenuta con l’introduzione del programma di verifica dei contenuti di terze parti nel 2016, il quale affida a società terze (sia organizzazioni no-profit che altre società) il compito di verificare la verità dei fatti narrati nei contenuti pubblicati sul social.

Traguardi comuni per vittorie condivise

Si apre un nuovo decennio: l’economia globale tende alla dematerializzazione; cresce l’uso delle tecnologie, che arrivano a permeare ambiti prima nemmeno immaginati; aumentano, altresì, i rischi connessi all’utilizzo delle stesse. In questo contesto, il valore economico dei dati individuali cresce e diventa preziosa moneta di scambio, con la conseguenza che l’utente non si sente più al sicuro. Ma un utente che si sente non protetto tende ad abbandonare la piattaforma sulla quale precedentemente transitava: è così che la mancata tutela della privacy e la poca trasparenza diviene dannosa anche per i soggetti che basano i propri guadagni proprio sui servizi online.

La normativa nazionale non può e non deve restare indietro, ma necessita di un processo di “aggiornamento” che coinvolga e protegga tutte le parti che operano sul mercato: società che forniscono servizi, governi, autorità garanti e persino gli stessi utenti, per comporre le note di un protocollo armonico che costruisca un sistema di gestione e controllo dei dati efficace e funzionale, a beneficio dell’economia e della libertà individuale.

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