NON OCCIDENTE

Africa: l’indipendenza e l’autonomia passano dai data center



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In tutta l’Africa ci sono 100 data center e il loro sviluppo non è omogeneo, con grandi differenze che vedono il Sud Africa primeggiare. C’è, forte, la spinta alla creazione di nuove infrastrutture per poter trattare i dati a livello locale e assicurarne una gestione in autonomia

Pubblicato il 12 mag 2023

Mario Di Giulio

Professore a contratto di Law of Developing Countries, Università Campus Bio-Medico Avvocato, Partner Studio Legale Pavia e Ansaldo



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In un Continente grande come la somma territoriale degli altri continenti terrestri e con una popolazione in continua crescita, diffusa in cinquantaquattro stati, sono stati censiti circa 100 data center (fonte: TECHERATI, DATI AL 2021). Per dare un’idea basta fare un confronto con l’Italia, con una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, risultano più o meno 30 data center, benché, ovviamente, il valore del paragone sia limitato dalla differente densità demografica, evoluzione dell’uso della tecnologia e disponibilità, non solo finanziarie, ma anche pratiche, quali l’accesso all’energia elettrica e alla rete delle telecomunicazioni.

Africa: quante ce ne sono?

Se per l’Italia, la questione meridionale non si è mai chiusa con una nazione che presenta grandi differenze in un territorio assai limitato, che può essere percorso in lungo con poche ore di auto, ciò dovrebbe portarci a pensare in maniera più flessibile quando si parla di un Continente. L’Africa, infatti, per l’Occidente è spesso considerata come un unicum e si tende a non considerare le grandi differenze che vi sono tra i vari stati africani, non soltanto guardando alla demarcazione posta dal Sahara ma spesso tra nazioni tra esse confinanti: basti pensare alla differenza di sviluppo esistente tra il Ruanda (reddito pro capite nel 2021 pari a 822 dollari USA) e il Burundi (reddito pro capite nel 2021 pari a 221 dollari USA), stati confinanti, privi di rilevanti risorse naturali e con un comune passato coloniale, prima con i tedeschi e poi con i belgi (sì perché anche il passato coloniale può fare la differenza e non ne abbiano a male i nazionalisti e i cattolici, ma uno storico e grande giornalista italiano dei nostri giorni scrisse – in maniera provocatoria – che il problema del nostro meridione era causato dallo Stato della Chiesa che aveva impedito agli austriaci di dominarci da nord al sud, che avrebbero reso l’Italia un paese ordinato).

Così, tornando al nostro tema, lo sviluppo dei data center non è omogeneo in Africa, con grandi differenze che vedono il Sud Africa primeggiare (con oltre il 50% delle strutture), seguito da stati quali il Marocco e il Kenya. E perciò vediamo che, anche sotto il profilo digitale, le differenze ci sono e sono rilevanti da stato a stato e a ogni latitudine.

Differenze tecnologiche e scarsità di profili professionali adeguati

Sempre per rimanere in tema sulle differenze, un altro aspetto da considerare è, per quanto è ovvio, che la tecnologia non è tutta uguale.

I data center sono distinti sotto il profilo della funzionalità e della resilienza in vari tier che a salire assicurano la capacità del sistema di assicurare continuità operativa anche in presenza di minacce esterne.

In questo, i paesi africani mostrano un vantaggio, come spesso accade nei paesi in via di sviluppo, l’adozione delle nuove tecnologie non richiede quei passaggi evolutivi che si sono resi necessari là dove la tecnologia è nata: di fatto, quindi, quando una tecnologia viene introdotta essa è normalmente quella dell’ultima generazione e quindi quella più evoluta (il processo è icasticamente definito dall’espressione leapfrog: salto della rana o cavallina, ovvero, nei paesi in via di sviluppo, l’evoluzione non passa sempre per una linea continua in crescita ma quale serie di salti in avanti).

Nella creazione di infrastrutture digitali un altro aspetto da considerare è la presenza di figure professionali specializzate, che possano non solo implementare i sistemi ma anche gestirli. In questo senso, molti paesi africani appaiono carenti e non è un caso che laddove la tecnologia corre gli esperti siano contesi tra le varie aziende con salari interessanti anche per noi occidentali (mi sia consentito di riferirmi all’articolo comparso su questa testata “Perché il Kenya è la “silicon savannah” su cui investono le Big Tech USA” del 21 ottobre 2022).

Altri aspetti da considerarsi sono quelli relativi alla connessione delle infrastrutture con il resto del pianeta, ragione per la quale a essere avvantaggiati sono spesso gli stati costieri che possono agganciarsi alle infrastrutture sottomarine: quindi non solo Sud Africa, ma anche Egitto, ampiamente collegato con il Medio Oriente e l’Europa, e il Marocco.

Una posizione dominante è poi ricoperta dalla Nigeria, che è il primo stato in Africa per popolazione (circa 220 milioni di persone) ed economia.

Un altro fattore che rende debole il Continente in generale è l’assenza di una rete elettrica stabile, elettricità che serve per la gestione dei dati, i servizi di back up ma anche per il raffreddamento degli stessi data center e – problema questo di carattere generale in tutto il mondo – ma acutizzato in parecchi stati del Continente africano a causa delle elevate temperature che li caratterizzano. Ragione, questa, per la quale si sta sempre più spingendo su produttori indipendenti che possano supplire a tali carenze (in tale senso, di rilievo è l’esperienza in Sud Africa, dove grandi Big Tech quali Amazon si associano a produttori indipendenti quali il Sola Group, dopo che sono stati elevati i limiti di produzione ai medesimi consentita, senza dovere ottenere licenze, passata da1 mW a 100mW ).

Nuovi data center ce n’è bisogno?

La posizione della Nigeria non è casuale, perché uno dei punti da considerare sull’esistenza delle infrastrutture è quello della domanda di offerta digitale, ed è chiaro che una nazione popolosa che gode di un’economia in crescita crea un mercato sotto il profilo della domanda e sicurezza in relazione alla rimuneratività degli investimenti.

Il dibattito sulla sufficienza dei data center in questo periodo s’incentra proprio su tale criticità. A detta di alcuni esperti, le infrastrutture sono adeguate alle esigenze, in quanto la domanda di servizi è ancora bassa e non vi sarebbero inoltre sufficienti dati da trattare per lucrare sul trattamento degli stessi.

Altri ritengono che la domanda sia insufficiente perché non allettata da un’offerta coerente, come nel noto dilemma se sia nato prima l’uovo o la gallina.

Di fatto, una spinta alla creazione di nuovi data center a carattere regionale e interno è data dal desiderio di potere trattare i dati a livello locale per assicurare il relativo sfruttamento e l’autonomia nella gestione.

La sovranità di una nazione passa anche per i data center

Uno dei temi del dibattito in corso è proprio quello del sovranismo digitale.

I dati personali sono considerati non solo quali l’oro nero del ventunesimo secolo, ma anche quale strumento per assicurare l’indipendenza dallo straniero, trattandosi di dati che si riferiscono spesso alle identità digitali e a dati anche di carattere sensibile, a partire da quelli sanitari: è chiara quindi l’intenzione da parte di molti di creare nei vari paesi africani strutture di gestione dei dati, che possano costituire strumento di sviluppo economico e di indipendenza dalle volontà politiche di stati stranieri.

Un tentativo di reagire al bipolarismo digitale che contrappone Stati Uniti e Cina e al quale molti stati si vogliono sottrarre, a partire dall’Europa (che però si è dimostrata al riguardo per troppo tempo miope) sino a giungere all’India, che sta sempre più cercando di porsi in una posizione dominante almeno nella propria regione d’influenza, anche grazie alla grande rete di cavi sottomarini dei quali è punto di riferimento.

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