cyberstalking

Aggravante “cyber” per lo stalking, le nuove sfide del Codice penale

Whatsapp, sms, social. I media digitali si configurano sempre più come “arma” preferita negli atti persecutori. Ma nonostante i richiami della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo l’elemento tecnologico fatica a trovare una sua collocazione nel diritto. Il dibattito in corso e gli scenari che si aprono

Pubblicato il 28 Ago 2020

cybersecurity ospedale

Il cyberstalking è un territorio di frontiera per il diritto penale, ancora impreparato ad accogliere al suo interno le modalità tecnologiche di un atto – quello di persecuzione – che rischiano però di aggravare il reato. Eppure parliamo di un fenomeno che sta cambiando il diritto e i paradigmi della cultura digitale.

Facciamo il punto sugli orientamenti in atto e i trend futuri, partendo dalla genesi dei delitti contro la persona e la libertà individuale.

Atti persecutori: inquadramento storico

Per effetto del Decreto Legge n. 11 del febbraio 2009, convertito in Legge nel mese di aprile dello stesso anno, veniva introdotto nel codice penale – alla sezione III “Delitti contro la libertà morale”, del Capo III “Dei delitti contro la libertà individuale”, del Titolo XII “Dei delitti contro la persona” – l’art. 612-bis per cui è punito “chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

Con lo stesso intervento normativo veniva introdotto – fra gli altri – il comma 2 limitatamente ad un aumento di pena nel caso in cui il fatto fosse stato “commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa”.

Solo col Decreto Legge 14 agosto 2013, n. 93 poi convertito con Legge del 15 ottobre 2013, n. 119, il Legislatore modificava lo stesso secondo comma prevedendo altresì la possibilità che quella condotta potesse essere commessa anche “attraverso strumenti informatici o telematici”.

Occorre rilevare che le diverse modifiche normative al reato di atti persecutori “offline” sono state introdotte con Decreto Legge, ossia un atto normativo di carattere provvisorio, avente forza di legge, e adottabile in casi straordinari di necessità e urgenza; casi che, nel reato di cui si tratta, possono essere individuati nel costante aumento di fenomeni predatori nei confronti delle donne e degli uomini che, seppur privi di violenza, sono connotati dalla “pesante intrusione nella sfera privata della vittima”.

Stalking nell’era dei social network: i casi

Alcuni recenti studi della Direzione Generale di Statistica del Ministero della Giustizia, compiuti su 14 sedi di Tribunale rappresentative della realtà nazionale per dimensione e ubicazione territoriale, hanno evidenziato che la “durata media della persecuzione è pari a 14,6 mesi e che il tempo medio trascorso tra l’inizio delle condotte di stalking e la prima denuncia è di 9,5 mesi”; lo stesso studio ha dimostrato anche che la persecuzione può manifestarsi in svariate modalità e utilizzando tutti i normali canali di comunicazione, ma che nel 65% del casi presi in esame la persecuzione si è consumata per telefono e nel 56,7% dei casi utilizzando mail, sms, web-social e messaggistica istantanea.

“Cyberstalking in a Large Sample of Social Network Users”, un articolo pubblicato sulla rivista “Cyberpsychology, behavior, and social networking”, ha dimostrato che il 10% dei cyberstalkers è risultato un soggetto mai conosciuto di persona dalla vittima, e dunque considerabile solo un conoscente o amico virtuale. Lo stesso studio, inoltre, ha sottolineato che nel 25,8% dei casi si è trattato di cyberstalking puro, nel 42% dei casi si è trattato di atti persecutori simultanei sia “offline” sia “cyber”; che nel 16,5% dei casi gli atti persecutori hanno avuto origine con modalità “cyber” e che, solo in seguito, l’ossessione è diventata tale da sfociare anche in atti persecutori “offline”.

Cyberstalking, la definizione: orientamenti dottrinali

Nonostante si tratti di percentuali importanti, si deve rimarcare come la disposizione legislativa non contenga alcuna menzione al termine “cyberstalking”; la possibilità di inserire nel codice la voce o, addirittura, di prevederla come Rubrica è stata limitata da una divergenza di visioni dal punto di vista criminologico: alcuni, infatti, hanno ritenuto che il cyberstalking potesse essere considerata una variante degli atti persecutori, posizione non condivisa da coloro i quali, invece, hanno ritenuto che, data l’importanza delle conseguenze psico-fisiche e date le conseguenze finanziarie necessarie ad affrontare la vittimizzazione, non poteva trattarsi di una semplice “variante dello stalking”.

Sull’inquadramento sistematico, la partizione classica fra delitti informatici e delitti cibernetici, caratterizza dell’art 612-bis comma 2 come “reato cibernetico” tenuto conto che fra questi rientrano tutti quelli che si commettono o si possono commettere in rete o nel web o, per usare un radicale più consono, nel cyberspace. Più nel dettaglio, può essere considerato un reato cibernetico in senso stretto poiché il metodo o lo strumento che tipizzano normativamente l’aggravante richiamano espressamente le TIC (Tecnologie dell’informazione e della Comunicazione).

Il delitto di “atti persecutori”

Dottrina e Giurisprudenza sono inclini nel considerare lo stalking un “reato abituale” per la cui sussistenza è normativamente richiesta la realizzazione, in distinti momenti, di una pluralità di condotte di natura omogenea, consistenti in molestie o minacce reiterate, che siano alternativamente produttive dei tre eventi tipizzati: un perdurante e grave stato di ansia o di paura; un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva; una alterazione delle abitudini di vita (della vittima).

Con riferimento alla reiterazione “la circostanza che il ricorrente abbia partecipato soltanto a due degli atti di danneggiamento ai danni del N., commessi in un ristretto periodo di tempo, non vale ad escludere la sussistenza del delitto di cui all’art. 612-bis c.p.”. Cassazione penale sez. V, 11/02/2019, (ud. 11/02/2019, dep. 28/06/2019), n. 28340 ha evidenziato quanto non è necessaria una lunga sequela di azioni delittuose, essendo rilevante anche la presenza di pochissimi episodi di minaccia o molestia, se gli stessi abbiano cagionato alla vittima un perdurante stato di ansia o di paura, per la propria o altrui incolumità, o l’abbiano costretta a modificare le proprie abitudini di vita.

Rispetto alle interrelazioni, è altresì fondamentale porre in rilievo quanto la Cassazione ha disposto in materia di conversazioni reciproche: il fatto che la vittima degli atti persecutori abbia talvolta intrattenuto conversazioni o risposto ai messaggi non priva, né inficia la sussistenza del reato. Cassazione penale sez. V, 16/09/2014, (ud. 16/09/2014, dep. 04/02/2015), n.5313, infatti, ha ritenuto che “la sussistenza del reato di atti persecutori non può essere messa in dubbio da momenti di attenuazione del malessere e del ripristino del dialogo, ravvisabili nel comportamento della persona perseguitata: non va sottovalutato che la vittima di questo reato deve assumere atteggiamenti di difesa e di accusa nei confronti di un persecutore”.

Persecuzione offline e online

La mancanza di dialogo a viso aperto nell’era di internet e dei social network, fa credere all’autore del delitto di essere meno esposto al rischio di conseguenze penali; in realtà è tutto il contrario: se nell’atto di persecuzione “offline” il raggiungimento fisico dell’autore verso la vittima e la dilazione nel tempo della condotta possono funzionare come deterrente alla commissione del reato e quindi ad un ripensamento, l’uso del telefono o dei sistemi tecnologici, invece, è talmente entrato nella gestualità quotidiana da caratterizzarsi per rapidità ed efficacia, tanto da non consentire alcun ripensamento o passo indietro.

A rafforzare i concetti ed a farci riflettere sul fenomeno, è la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, con una sentenza del 2020 (ric. n. 56867/15) ha stabilito, all’unanimità, in ossequio agli articoli 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 8 (diritto al rispetto della vita privata, che include quello alla riservatezza della corrispondenza) della CEDU che «la c.d. cyberviolenza deve essere considerata […] a tutti gli effetti come violenza contro le donne e che, di conseguenza, le autorità nazionali non possono trattare episodi quali lo stalking via web, l’utilizzo abusivo degli account informatici di una donna da parte dell’ex marito o l’acquisizione di immagini e dati alla stregua di casi di violenza “comune”, ma devono prevedere l’applicazione delle regole più stringenti».

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